“Lei non era di qui” [1], quasi sveniva trasognato Cioran a proposito di Susana
Soca – lo stesso si potrebbe dire di miriadi d’altre “incandescenti” che
divamparono lungo la notte sacra prima di spegnersi, in intimo accordo col
decreto del buio. Vedove dell’ultimo cielo, votate alle nozze postume
coll’Assoluto defunto alla vita e talvolta ritrovato nella segreta ipnagogia
funebre della poesia, spose dai corpi di bruma che, crivellate da stelle,
indugiavano innamorate e nostalgiche sulla Soglia in attesa del bacio dello
Sposo, dell’Altro, della morte.
E certamente a questo peculiare ordine di vestali abusate dal nulla, di
«paralitiche della luna» come diceva Lorca, apparteneva anche Béatrice Douvre,
questa poetessa francese obliata come teneramente si dimentica il nome d’un
fiore. Infatti, come i fiori estinti, di lei s’hanno poche ed errabonde
informazioni. Nata a Neuilly-Sur-Seine nel 1967 e morta di brutale sfinimento
ventisette anni più tardi a Mans nel treno in cui entrò e donde non uscì che
defunta: la ritrovarono assisa, nella compostezza trasparente della sua postura
di serafico silenzio, lo sguardo lontano, infinitamente lontano, oltre la
finestra, oltre l’oltre…
Quello sfinimento fu il triste obolo offerto da anni di anoressia, di cui soffre
dall’età di tredici anni. L’ardore della fame, nelle sue policefale diramazioni,
è infatti il sole nero che strapiomba la sua opera. La desianza dell’Invisibile,
d’un’ostia intagliata nella carne stessa del cielo e che sazi infine l’anima.
Definisce molto chiaramente queste tensioni nella sua tesi di laurea: Anorexie
et orexie dans l’œuvre d’Arthur Rimbaud e che potrebbe essere riassunto coi
versi di Rilke, nella settima Elegia: “Come un braccio proteso, è il grido mio./
E la sua mano che si scaglia in alto/ schiusa a ghermire, ti rimane innanzi/
aperta, dentro gl’infiniti spazii/ difesa e ammonimento, o Inafferrabile!”[3].
Necessità dell’Altro, e impossibilità fatale di raggiungerlo – e solo da tale
irredimibile colpa sorge e si apre l’infimo e atroce spazio in cui tremando
precariamente abitare, nello sisma che investe le ossa liriche, e, di bruciore
in bruciore. Mi piace pensare che le sia accaduto di leggere Caterina da Siena,
quest’altra anoressica teofaga, questa sitibonda d’edenico sangue.
Douvre scrive nell’eccesso, nel venir meno della parola, nella casa chiusa al
quadrivio del paradiso dove passano a turno a violentarla gli angeli. È una mal
nata, una Maddalena psicopompa, una “prostituta piena d’amore”, come dice lei
stessa. Vietato ogni ricevere, la poetessa poteva solo offrirsi, dilapidarsi,
crepare dozzinalmente, a pieno regime, irrigare del proprio sangue i solchi che
percorrono ogni poesia onde fecondarle, chiamare a raccolta tutti gli uccelli
dell’oltretomba a becchettarle i seni che si sfogliano in briciole… Dare pieno
rogo di sé, consacrare con alla notte il suo pube in fiamme, attendendo tutta
affebbrata che la morte la insemini.
In Francia, i pochi che sanno che esistette la ricordano come la “viandante del
pericolo”. Philippe Jaccottet nella prefazione alla sua raccolta di poesie
pubblicate postume ne fa un ritratto commovente:
> “Mi ricordo di Béatrice Douvre, era, lo si indovinava, una sorta di elfo
> diafano, un essere vibratile, troppo frale per questo mondo dove gli elfi non
> posso mettere radice, ma soltanto fluttuare a metà via tra terra e cielo.
> Fluttuare in siffatto modo è talvolta la loro felicità, ma certamente anche la
> loro dannazione. Béatrice Douvre era un elfo doloroso, del quale non si poteva
> che intuire con timore il destino”. [4]
De Saint-Cyr
**
Offriamo di seguito per la prima volta una traduzione in italiano di qualche
spina della fiamma del fuoco del suo diario, “Journal de Belfort” [5];
Belfort, 12 febbraio 1994
Città aperta, cammino per le tue vie, rosseggiante, le mani piene di ghiaia, il
ventre eccitato dalle tue fosse, il volto coperto di rossori cristiani.
Follia dei corpi aggrovigliati delle città, sessi esibiti a Stalingrado,
prostituzione piena d’amore, puttane agonizzanti di verginità, sono il vostro
cammino di grazia. Ruscelli di sangue labirintici, patisco le mie vene malate,
gonfiando i miei seni gemelli, esibendo la mia solitudine. Michel mi mormora
all’orecchio il suo sesso diciassettenne, per un po’ di tempo gli tenni la mano,
gli occhi negli occhi dell’infanzia. Sulle strade d’ieri – immortali parole, del
sudore in volto, il ventre cinto di birre; notte verde, abitata, lenzuola che
sanguinano dormendo, ho male di amare, voglio morire, selvaggiamente sperma
sulla lingua. Polvere vinosa, ho l’alito dei poveri, la trasparenza degli
amanti, la dolcezza delle madonne. […]
*
Parigi, 15 febbraio 1994
Alba indomita, febbrose lenzuola, ho il risveglio dei sogni insolenti, potenti e
fredde le mani, la pietra è in sudore, voglio il freddo sudario della mia
fecondità, il sale sulla lingua venenosa, e sul dolce nido del mio ventre la sua
mano… Voglio allargata la ferita, ruscellanti le alghe poi luccicanti, la roccia
scoscesa come le parole. Vago pei lastricati grassi, nel fango rosso e nero,
armonie dorate nimbavano i viali, una mano nativa nella mia, ma la mano di
nessuno. […]
Non sono la sua amante e quasi non più sua sorella. Rimango altra e irreale, ho
in me la dolcezza delle lontananze, mi abbandono alla collina, sono il riflesso
d’un cielo stretto. Spettrale il tempo mi perseguita, la morte mi eccita, mi
visita talvolta, io sono il suo oste stellato e perdura la notte tra lei e me,
forse il passaggio. I sessi nemici si sotterrano nel vento, mi carezza ma io
sono l’intervallo vicino al focolare freddo del molto basso.
Peccato di carne nascosta e redento nella pietra stessa, madidore dei sentimenti
troppo scialbi. Io voglio il sale e il linguaggio, avida la bocca e scavata come
i ciottoli del mare. Popolato d’uccelli è il silenzio, ma io, angelo malato,
imploro il suo corpo come una terra, un sacramento, la tomba bianca (sarò
Raffaello senz’ali), per lui, per me, per la prossimità di vivere.
La mia malattia mi feconda il ventre neutro.
*
Parigi, 14 febbraio 1994
[…] Confusa beltà dei ruscelli, oscura percorro le vostre sponde malate, ho la
follia degli impazienti, delle prigioni narrative.
Piccoli seni gonfi d’acqua, curvi sotto il vento, come Eva nel balzo. Il piede
scalzo, animale, il serpente nel frutteto, come grappoli i frutti, penduli, ho
l’ala di un angelo aguzzo sopra il membro stretto.
Spiegacciamento delle sere alla Madeleine, Parigi barocca, illuminata.
Attenderò, ai piedi delle cattedrali, e coagulata nella nostalgia dei seni
sprigionati, il veleno di una passione traforare, come una daga, la mia pelle
imberbe e intoccabile. […]
*
Parigi, 18 febbraio 1994
Rimango rigida e nuda nella notte torrentizia, il fango scoppia sulle disgrazie
altrui. Una pazza piange per la città e poi tace come una nave. Intorno al mio
girovita indolente una collana si sottomette, nelle mie mani, una rondine
costruisce quasi una primavera. Sono sola a morire nell’immondo, odio il mio
ritiro sacro, il mio corpo casto dal secolo scorso, le notti verdi lasciate a
far collare il miele.
Io sono la fiaccola e l’olio, l’innominato abitacolo presso sorgenti fertili.
Vivi l’epoca nata, privilegia il giorno. Si sollevano le foglie e vorticano gli
astri. Sono l’estate dei palmi nelle braccia dei riflessi. Oh ramo
inaccessibile, il troppo corto vento, ho affrettato la benedizione degli astri
nulli. Polvere dei templi, grandi divinità assise e meditanti, voi vi cibate
dell’obolo dei fedeli sognando all’alito offeso dei fanciulli. Ricurve Madonne,
cosce colmi, e dischiuse dal pudore, io benedico i vostri seni biondi per
accrescere il vento.
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[1] “Esercizi di ammirazione”, E. Cioran, Adelphi, 1988.
[2] “Juego y teoría del duende”, F.G. Lorca, Alionza, 1984.
[3] “Elegie Duinesi”, Settima Elegia, R.M. Rilke, Sansoni, 1941.
[4] “Œuvres poétiques, peintures et dessins”, B. Douvre, Éditions Voix d’Encre,
2015.
[5] “Journal de Belfort”, B. Douvre, Éditions de la coopérative, 2019.
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