È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico,
Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della
letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si
incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi
anni.
Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale
di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile
a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un
paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava
uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da
guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state
sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce
sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello
scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due
occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati,
splendenti intelligenza…”.
In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda
condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di
ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”.
Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro
con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e
sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione
delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques
Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).
Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18
novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da
un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni.
Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da
mistico:
> “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non
> attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in
> quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non
> un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con
> gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che
> ognuno è.”
Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto
nella Prigioniera:
> “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso
> nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”
Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo
ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust.
I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla
“comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare
l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva
terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo
sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione
perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della
verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con
la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito.
Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra
di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria
e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la
musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel
pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva
quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a
Swann:
> “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di
> segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva
> soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così
> forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé,
> ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli
> aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito
> a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.”
Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase
ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata
per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente
nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde
colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili
per non correre il rischio di vederlo svanire.
Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la
gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in
quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte
dell’Io ed esprime l’indicibile.
Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi
manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua
musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di
parole che è la Recherche.
Marilena Garis
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