Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da
Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di
pensare a Marina Cvetaeva:
> E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune
> questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando
> sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]).
La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore.
Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non
esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla
in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto,
attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce
a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in
un’altra lingua, senza tradirne il senso.
Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota
quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto
nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere
intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi.
Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II,
23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben
consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di
senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.
Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli
appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte
della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke.
L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla
vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della
sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a
Orfeo alla sua memoria.
La morte, cuore della vita
Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama
Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la
contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che
lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.
Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una
peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della
morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua
riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un
ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a
fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi
strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di
abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che
lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera
ad una giovane amica, Anita Forrer:
> La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a
> fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a
> casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia.
Verso l’estremo
Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che
entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare
nella sua figura la compresenza di vita e morte?
Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica,
conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la
canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava
con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita:
una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la
celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella
morte.
Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che
aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra
dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva
arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso
l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la
possibilità di salvezza.
Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e
l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere
nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve
“panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia
diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto,
talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più
misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura
perfetta, gioiosa, musicale.
Singolari relazioni tra i sensi
Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei
vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche
sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.
È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce
delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che
aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una
civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione
iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e
i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che
ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i
sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a
quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.
Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto
equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano
dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato
ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così
termina la prima parte dei Sonetti.
La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui
attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua
produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo
Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo”
che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra
cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel
Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina,
presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il
mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle,
alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in
una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà,
che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento,
che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il
pensiero della morte nella vita.
Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di
un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore
di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente
vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile:
la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali,
quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera
di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra
oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo
dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.
L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del
poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in
perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si
scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei
fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la
poesia…
Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà
presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso
uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il
vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.
Marilena Garis
*L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella
«grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle
Edizioni Ares
In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau
L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di
Rilke proviene da Pangea.
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Il primo ad unirli fu il visionario, l’anticipatore: Pier Paolo Pasolini. Fece
incontrare Alda Merini e Michele Pierri sulle pagine della rivista
“Paragone”. Era il 1953 e Pasolini scrisse un lungo articolo intitolato Una
linea orfica, in cui accostava le loro opere nel segno dell’orfismo. La
giovanissima Alda (che all’epoca aveva appena 22 anni) era rimasta abbagliata
dalla lettura del De Consolatione di Pierri, uscito per Schwarz, dove era
altresì apparso il suo Tu sei Pietro.Non sapeva nulla di lui, solo che aveva 54
anni, viveva a Taranto con la moglie e i numerosi figli ed esercitava la
professione di chirurgo.
Dopo quasi trent’anni da quell’incontro sulla carta, nel 1981, è Giacinto
Spagnoletti a favorire il loro contatto, una loro collaborazione poetica. Chiede
a Pierri di mettere mano alla produzione di Alda Merini per cercare di ottenere
una raccolta che ne segni il ritorno sulla scena editoriale.
Alda vive un momento di grande difficoltà: reduce da dieci anni trascorsi in
manicomio, completamente sola nella sua casa milanese di Ripa Ticinese: il
marito è continuamente ricoverato in ospedale e le sue quattro figlie vivono
lontane. Quando Spagnoletti pronuncia il nome di Pierri, per lei è un momento
quasi epifanico. L’idea di ritrovare il compagno di orfismo, di potersi affidare
alle sue attenzioni, la rassicura e la rallegra immensamente. E così, la sera in
cui arriva la telefonata dell’ormai ottantenne poeta tarantino, Alda lo accoglie
con una delle sue frasi leggendarie “Buonasera, Michele, sono Alda Merini. Sono
trent’anni che aspetto questa telefonata.”
Possiamo immaginare lo stupore di Michele Pierri nell’udire queste parole,
ironiche ed immediate, che attraversano i fili del telefono come saette. Il
medico-poeta è un uomo estremamente riservato, vive immerso nel silenzio e nella
concentrazione. Ha recentemente perso l’amata moglie Aminta, dopo una lunga
malattia che l’ha paralizzata a letto per undici anni, e intorno a lui si muove
una grande famiglia di ben dieci figli.
Tra Alda e Michele vi sono ben mille chilometri di distanza e 32 anni di
differenza. Lei ha 51 anni, lui 83. Ma siamo nel paese dell’anima, dove dubbi e
distanze diventano materia di confronto serrato, dialogo profondo tra poeti. Il
loro appuntamento telefonico diventa un momento di pura felicità per entrambi,
un luogo di incontro, di intima fiducia. Alle volte Alda appoggia il telefono
sul calorifero, si mette al pianoforte, e fino all’una di notte dedica a Michele
le romanze più dolci che conosce.
Pierri è profondamente colpito dalla situazione di profonda miseria in cui versa
quella poetessa milanese che lui ha sempre considerato di eccezionale valore.
L’idea che le sue figlie chiamino “mamma” altre donne, a cui sono state affidate
a seguito dei suoi ricoveri in manicomio, gli fa sanguinare il cuore. Rivolge i
suoi pensieri anche al marito, gravemente malato, che non può più sostenerla.
Tra Taranto e Milano inizia così una fitta corrispondenza nutrita di lettere,
poesie e telefonate interurbane. La loro relazione diventa di dominio familiare
a causa delle bollette telefoniche, da un milione, due milioni, quattro milioni
e mezzo di lire. Conti vertiginosi… ma quel legame è diventato troppo prezioso
perché possa finire.
Il marito di Alda, Ettore Carniti, comprende che questo è forse il germe di
un’unione più forte e ne è quasi sollevato: quel medico potrebbe essere un
importante punto di riferimento per la moglie, quando lui non ci sarà più… Ormai
piegato da un cancro ai polmoni, da un infarto e da una gamba amputata, una
sera, verso la fine, chiede ad Alda di parlare con Pierri e riesce a pronunciare
parole immense, che vanno dritte al cuore: “Le affido mia moglie, ne abbia cura
e le faccia da padre.”
L’agonia di Ettore termina il 7 luglio 1983. Alda attraversa il mare della
perdita. Gli antichi fantasmi rischiano di tornare nella sua mente ma l’intima
amicizia con Pierri, ormai nutrita da una lunga fiducia, riesce a salvarla.
Alda e Michele si concedono ora una maggiore tenerezza, sentono che possono
appartenersi, possono parlare dell’alchimia che li unisce, un’alchimia profonda
che fonde amicizia, stima reciproca, bisogno di conoscersi, toccarsi, amarsi.
Un lungo ed inedito amore telefonico sta per diventare “vera vita”?
Michele è il più prudente, sente pienamente la responsabilità che si è assunto,
ma esita a proiettarsi di nuovo al fianco di una donna. Alda, che vive i
sentimenti molto istintivamente, parla senza esitazione d’amore. “Cesare amò
Cleopatra,/ io amo Pierri divino/ che non conduce nessuna guerra,/ che è solo
condottiero di nostalgia”, scrive nelle Satire della Ripa, che esce nel 1983,
grazie al corposo lavoro di selezione operato da Pierri.
Arriviamo così al 1984: l’anno della rinascita (e non solo letteraria), che
passa attraverso La terra santa, il capolavoro di Alda Merini. Anche Michele
Pierri è protagonista di un’importante pubblicazione. Si tratta di una sua
antologia personale che raccoglie una selezione di versi composti tra il 1945 e
il 1983: il titolo è Passare il ponte da sola, con 16 inediti del 1983. Qui
compare Alda Merini, con due poesie a lei esplicitamente dedicate.
Nella poesia Ma questo nuovo aprile si legge “Il tuo seno scoperto/ una finestra
aperta/ sulla vita futura/ adorando il presente”. Pare la prospettiva di
un’unione che possa conciliare il futuro con un presente ancora vivo e
sanguinante (dove forse si cela l’amata Aminta, a cui Pierri resterà sempre
profondamente legato). Il fatto che Michele stia coltivando il definitivo
desiderio di concretizzare il loro legame in qualcosa di più che una telefonata
è confermato dall’altro componimento a lei dedicato, Due poesie: “Due poesie che
per grazia/ s’incontrano non possono/ non abbracciarsi”. Paiono le parole di un
libro già scritto… Michele la aiuta, le invia dei vaglia per salvarla dallo
sfratto e dal rischio di vedersi tagliare luce, telefono, gas. Ma le condizioni
economiche di Alda sono ben oltre la soglia critica e, un giorno, pensando di
racimolare qualche lira, subaffitta una stanza del suo bilocale a Charles, un
barbone del Naviglio. Saputa la cosa, Pierri si decide, butta il cuore oltre
l’ostacolo e le invia un telegramma di sole tre parole: “Ti sposo subito”.
Da Milano Centrale, Alda parte dunque in treno alla volta di Taranto, attraversa
l’Italia ed i mille chilometri che la dividono da Michele, l’uomo che si staglia
nella sua mente come un mito, un eroe sublime. È sedotta dalle sue qualità,
quelle che ha conosciuto nei loro lunghi convegni telefonici: la sua monumentale
rettitudine morale e la sua tendenza ascetica e meditativa. Come racconta nella
sua biografia Reato di vita:
> “Quando era venuto a prendermi alla stazione …io non l’avevo mai visto di
> persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci
> eravamo ardentemente amati al telefono”.
Il 6 ottobre 1984, nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto, Michele Pierri e
Alda Merini si sposano. Lui ha 85 anni, lei 53.
Per quattro anni, a Taranto, Alda fu una sposa felice. Ogni mattina Michele
arrivava nella loro stanza con il caffè, una rosa e una poesia d’amore sul
vassoio… Scrivevano, si consultavano, si recitavano versi. Quegli anni furono
tra i più creativi di Alda Merini, un momento di crescita umana e poetica, in
cui la sua maturità artistica, già attraversata da esperienze gravi e dolorose,
si coniuga ad un maggior rigore formale, certamente ispirato da Pierri.
Ogni tanto lei e Michele salivano a Milano Su quel treno di Taranto,
infinito, che Alda canterà più avanti con tanta malinconia, dopo la morte di
Pierri, avvenuta nel 1988. Rivolgendosi all’amico editore Vanni Scheiwiller,
scriverà
> Su quel treno di Taranto, infinito
> dove guarirà l’ombra della mia giovinezza
> io tornerò un giorno.
> Tornerò, Vanni, dall’amore che ho perso
> tra gli ulivi gaudenti della terra,
> tornerò presso il suo vecchio corpo…
> e quando il sole mi guariva le tempie,
> o Vanni, io pregavo il Signore
> che mi facesse morire con lui.
“Erano una coppia favolosa”, scrive Maria Corti, attenta e fondamentale
curatrice dell’opera di Merini, “poeti di rilievo entrambi, che ti venivano a
trovare, ti donavano i loro testi e ti lasciavano nelle stanze il senso di una
epifania”. È proprio questo il senso che si respira tra le righe dei versi che
Alda ha dedicato a Michele, il suo “grande guru bianco… di straordinaria
bellezza, anche se già ottantenne”, ma eterno ragazzo nel cuore:
> Forse tu hai dentro il tuo corpo
> un seme di grande ragione,
> ma le tue labbra gaudenti
> che sanno di tanta ironia
> hanno morso più baci
> di quanto ne voglia il Signore…
> E le tue mani roventi
> nude, di maschio deciso
> hanno dato più abbracci
> di quanto ne valga una messe,
> eppure il mio cuore ti canta,
> o sposo novello.
Un grande amore che si fa poesia, malgrado le maldicenze e le ipocrisie di
quanti non lo compresero “Quanta gente Michele ha messo la bocca/ tra i nostri
inguini,/ gli inguini dei nostri sogni…”. I farisei non capiranno mai cosa sia
una follia d’amore ebbe a scrivere Merini nella Mistica d’amore. Ma, dopotutto,
a poco conta il loro giudizio di fronte a questo verso: “Pierri, se morirò/
ricordati che io ebbi l’audacia di amarti”.
Marilena Garis
*In copertina: Alda Merini e Alberto Casiraghy in un ritratto fotografico di
Giorgio Matticchio
L'articolo “Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri proviene da
Pangea.
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico,
Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della
letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si
incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi
anni.
Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale
di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile
a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un
paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava
uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da
guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state
sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce
sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello
scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due
occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati,
splendenti intelligenza…”.
In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda
condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di
ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”.
Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro
con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e
sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione
delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques
Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).
Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18
novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da
un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni.
Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da
mistico:
> “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non
> attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in
> quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non
> un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con
> gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che
> ognuno è.”
Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto
nella Prigioniera:
> “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso
> nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”
Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo
ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust.
I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla
“comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare
l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva
terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo
sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione
perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della
verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con
la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito.
Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra
di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria
e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la
musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel
pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva
quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a
Swann:
> “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di
> segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva
> soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così
> forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé,
> ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli
> aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito
> a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.”
Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase
ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata
per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente
nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde
colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili
per non correre il rischio di vederlo svanire.
Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la
gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in
quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte
dell’Io ed esprime l’indicibile.
Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi
manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua
musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di
parole che è la Recherche.
Marilena Garis
L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
proviene da Pangea.
È un sabato pomeriggio d’aprile. Parigi pare celebrare l’arrivo della primavera.
La musica della vita invade le strade, la gente affolla i locali della Rive
Gauche, forse nascono nuovi amori. In me risuonano le parole di Olga Ivinskaja,
la donna che ha condiviso gli ultimi quattordici anni della vita di Boris
Pasternak:
> “E dirò a me stessa sospirando
> nell’impietosa luce del giorno:
> sì, sarò stata malvagia, e peccatrice,
> ma pur con tutto questo m’hai amata.”
Tengo strette le sue memorie, Prigioniero del tempo. La mia vita con Pasternak,
mentre mi appresto ad incontrare Irina Emelianova, sua figlia.
Mi accoglie sulla soglia di casa, con limpidi e sereni occhi azzurri. Vedere
quello sguardo terso, che ha incrociato quello di Pasternak, Ariadna Efron,
Varlam Šalamov… mi commuove nel profondo. Mi toglie il fiato. Ma la sua
gentilezza, il sorriso aperto, mi fanno subito sentire “a casa”, come se ci
conoscessimo da sempre. Respiro familiarità, quello stesso calore che emerge dal
suo libro Légendes de la rue Potapov, il leggendario appartamento a venti minuti
dal centro di Mosca, dove l’amore, la gioia e la poesia hanno convissuto con le
tragedie, le perquisizioni, gli arresti, le separazioni.
Mentre osservo le fotografie che campeggiano nel suo salotto, mi trovo a pensare
che se il verbo ha un potere, è proprio quello di far risorgere la “vera vita”.
Nel momento in cui Boris Pasternak muore, nel 1960, il suo romanzo, Il dottor
Zivago, conosce un destino eccezionale, un successo planetario. Sappiamo che
Olga Ivinskaja ha ispirato il personaggio di Lara e Irina quello della piccola
Katia. Ecco: ora, davanti a me, c’è Katia, il riflesso di Lara, non più due
eroine, simboli romantici, ma due donne vive, in carne ed ossa, che hanno
suggerito a Pasternak la concezione di un’esistenza e di un amore fuori dal
comune.
Sul treno che da Torino mi ha condotto a Parigi ho riletto per l’ennesima volta
il capitolo finale di Zivago, quello in cui Lara ripercorre la sua storia con
Jurij, di fronte alla sua salma, avanti all’inesorabilità della morte. In quelle
pagine, Zivago-Pasternak pare anticipare la sua fine, come per donare a
Lara-Olga gli strumenti per affrontarla, il diritto di piangere per lui da sola,
nella certezza d’un amore unico, fondato sulla più intima conoscenza reciproca,
qualcosa “che non veniva dal ragionamento, ardente, mutua. Istintiva, diretta”.
Come mi suonano vere, oggi, quelle parole… Irina mi mostra le foto di famiglia e
il verbo si fa carne. “Oh, che amore era stato il loro, libero, inaudito,
diverso da ogni cosa al mondo! Pensavano, come altri cantavano. Si sono amati
non perché fosse ineluttabile, non perché ‘travolti dalla passione’, come si
dice, falsando i fatti. Si sono amati perché così voleva tutto ciò che li
circondava: la terra sotto di loro, il cielo sopra alle loro teste, le nuvole e
gli alberi… Mai, mai, nemmeno nei momenti della felicità più gratuita, immemore,
li aveva abbandonati qualcosa di più elevato e appassionante: il godimento al
cospetto della generale armonia del mondo, il sentimento della loro appartenenza
a tutto ciò, la sensazione di essere parte della bellezza di tutto quello
spettacolo, di tutto l’universo. Da loro emanava questa comunione”.
È una comunione cristiana quella che emerge da Zivago e Pasternak la sperimenta
in prima persona con Olga Ivinskaja.
Mentre il poeta ci osserva dall’alto della libreria, Irina mi racconta le loro
tribolazioni: il primo arresto della madre, nel 1949, cui seguirono quattro anni
di reclusione nei gulag. Lei ha undici anni. Boris la “adotta” e le permette di
sopravvivere alla più grande miseria. In quegli stessi anni lo scrittore è in
corrispondenza con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, al confino
aTuruchansk, nel nord della Siberia. È grazie al suo sostegno morale e
finanziario se Ariadna sopravvive a condizioni esistenziali estreme. Irina e
Ariadna divengono così le “figlie adottive” del poeta, figlie della sua anima,
in un autentico “arcipelago di cuori” che li legherà fino alla fine.
Tutto questo passa attraverso le parole di Zivago, una lezione di vita,
un’autentica “attrezzatura spirituale” che affonda le sue radici nel Vangelo,
nell’amore per il prossimo
> “questa forma suprema dell’energia vivente, che riempie il cuore dell’uomo ed
> esige di espandersi e di essere spesa”.
Queste le parole chiave che mi trovo a condividere con Irina, testimone vivente
di quell’amore straordinario
> “l’apice di una reciproca
> compatibilità di intenti
> che non ammette gradazioni
> e in cui nessuno sta sopra o sotto,
> è un’equivalenza di intenzioni
> dell’essere pieno nella sua interezza”.
Ripercorriamo assieme le Tre variazioni sull’amore, là ove Pasternak ne canta la
“selvaggia tenerezza”. Su tutto, prevale l’ottica di un “amore superiore” che si
stacca dalla terra per elevarsi verso il cielo. Dall’abbandono negli abbracci,
la sensualità dei corpi si fa “anima e dolcezza”, veicolo di elevazione:
> “ognuno degli istanti,
> in cui ci viene addosso come un alito
> d’eternità il fremito della passione,
> è un momento di rivelazione,
> di un approfondimento
> di noi stessi e della vita”.
Versi da incidere nel cuore, cui aggrapparsi come a un deltaplano. Rileggendoli,
ho sempre pensato: questo è “l’amore come dovrebbe essere” e ora ne sono
pienamente consapevole.
Grazie ad Irina Emelianova vivo un momento di autentica rivelazione. La
letteratura si fa vita. E quello che emerge è il quadro – umanissimo – di un
amore vissuto come “empatia, indulgenza, comprensione, compassione”, così me ne
parla Irina. Pasternak era lacerato tra l’amore per Olga e il matrimonio con
Zinaida Neuhaus, ma “mia madre lo rassicurava…”, mi racconta, “era felice con
lui, non gli ha chiesto di lasciare la sua famiglia… perché complicargli la
vita? Con la sua età e tutto il resto?”. Ecco un sorprendente sustine et
abstine, pronunciato con un tale equilibrio di forze da commuovermi.
“Mia madre ed io”, continua Irina, “abbiamo vissuto un secondo arresto due mesi
dopo la morte di Pasternak. Il potere, l’incarnazione del male, si è vendicato
sull’anima del poeta per questa ‘passione illegale’. Questo è stato il prezzo
che mia madre ha dovuto pagare, scontando nove anni in prigione. Il 30 maggio di
quest’anno avremo il nostro ‘giubileo’, a 65 anni dalla morte di Pasternak e dal
nostro arresto.”
Mi affretto a trascrivere queste parole sul taccuino: Irina le pronuncia in
francese e le ripete in russo. In questa comprensione-compassione, in questo
prezzo da pagare (per vivere e amare), c’è tutto Il dottor Zivago. Zivago, Lara
e Katia… ma soprattutto: Pasternak, Olga e Irina. Cuori pulsanti, sanguinanti,
attraverso cui passa la vita. Quella vera: la testimonianza di una grande luce
sulle persone che ne sono state irradiate, a cui essere grati, nel riflesso di
una lezione universale.
Marilena Garis
*In copertina: Boris Pasternak insieme a Olga e alla figlia, Irina
L'articolo Un arcipelago di cuori. Incontro con Irina Emelianova, la figlia
“adottata” da Pasternak proviene da Pangea.
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte.
Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per
liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il
7 ottobre 1928, e continua:
> «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare
> a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri
> per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come
> descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a
> saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È
> una sensazione che mi dai solo tu».
Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina
che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime
un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia
sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi
canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere,
scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia
(1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De
Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena
Munafò.
Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per
darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi,
essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le
metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad
urlare con passione:
> «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te
> una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta
> sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano.
> Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così
> elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è
> solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per
> me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle
> persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a
> questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti
> amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926).
Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s
House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di
rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei
colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un
ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura
organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale,
vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi
sogni e nei suoi scritti.
Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile
bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente
luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più
di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la
quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora
nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la
cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba
al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va
trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia
ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la
chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa
testimonianza.
L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia,
libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi
capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.
Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera
passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e
biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto
suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua
sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama.
Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino
alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle
complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura.
Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato
nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia
dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel
Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei
loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo
dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta,
cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così
sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così
splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928.
Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di
campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela
non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata
pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia
il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:
> «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta
> una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto
> hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo
> che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in
> picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo
> anch’io. Lo sai».
Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno
continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega,
come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi
sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai.
Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12
marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro
e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata
Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).
Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto
alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e
ci riscalda.
Marilena Garis
L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia
& Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.