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“L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke
Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.   C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo ‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi. Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera “svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime, che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea, nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni cosa viva”. Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi ‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature “vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone suo carisma.  Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin, Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo, sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime poesie (Fussi, 1946): > “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori, > va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”. Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.  Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime, rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì: dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.  Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ – penetra nell’opera? Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire, spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro, carissimo prezzo (e non solo per sé)… Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza di aspettare che ritorni­no. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue, sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e dall’esperienza reale: rintracciare nelle paro­le di un grande poeta le tracce del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “san­gue, sguardo, gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo. Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo, eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero, allo stesso filo della fede, potremmo dire.  Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero inatteso? Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori: > “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato > a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli, > trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con > discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui > passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai > visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva > ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non > un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta > l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia > mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto > rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli > passi – senza più mendicare per quel giorno”.  E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza. Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare delicatez­za nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione, nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità, che affascina e consola.  Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?  Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo, mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.  > “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in > ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava > interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta > una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”. Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a definirlo visionario e medianico.  Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al regno delle ombre, alla gran­de unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima” e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di battaglia”, una necessità quantomai attuale… Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati, nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso? Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia. Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose. Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte (attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto:  Lou Salomé, la moglie Clara Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva, Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi incontri della sua vita. Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?   Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica, amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino alle Elegie  Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimo­nia il loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del 13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profon­do alla vita e all’opera di Rilke e consente di accede­re all’intimità più autentica del suo destino esisten­ziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie dell’arte nel percorso della vita.  Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore? Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e inteso come direzione, come forma di libertà.  Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa, Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno nella situazione terribile di essere amato”. La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima – fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini, le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo costringeva alla solitudine.  Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue, sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica, la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.  Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della “vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere, rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico. Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie duinesi”? Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere, meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”. Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché? Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori, come è successo a me. Certo è strano non abitare più sulla terra, non più seguir costumi appena appresi, alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa non dar significanza di futuro umano; quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose non esserlo più, e infine il proprio nome abbandonarlo, come un balocco rotto. Strano non desiderare quel che desideravi. Strano quel che era collegato da rapporto vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso esser morti; quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità. […]  Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno di sì grandi misteri – quante volte da lutto sboccia un progresso beato – potremmo mai essere, noi, senza i morti? […] Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi, vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei noccioli spogli, oppure la pioggia che cade su terra scura a primavera. E noi, che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante, di quando cosa ch’è felice, cade. Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra, strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.” La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive: “potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso: dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi. Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta, inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna trasformazione.  Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e biografici, per poterne parlare degnamente. Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke? Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500 lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un «patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni dalla morte, Rilke continua a parlarci. L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da Pangea.
October 27, 2025 / Pangea
“Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di pensare a Marina Cvetaeva:  > E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune > questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando > sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]). La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore. Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto, attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in un’altra lingua, senza tradirne il senso.  Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi. Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II, 23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.  Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke. L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a Orfeo alla sua memoria. La morte, cuore della vita Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.  Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera ad una giovane amica, Anita Forrer:  > La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a > fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a > casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia. Verso l’estremo Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare nella sua figura la compresenza di vita e morte? Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica, conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita: una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella morte.  Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la possibilità di salvezza.  Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve “panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto, talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura perfetta, gioiosa, musicale.  Singolari relazioni tra i sensi Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.  È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.  Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così termina la prima parte dei Sonetti. La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo” che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina, presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle, alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà, che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento, che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il pensiero della morte nella vita. Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile: la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali, quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.  L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la poesia… Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.  Marilena Garis *L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella «grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle Edizioni Ares In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di Rilke proviene da Pangea.
September 20, 2025 / Pangea
“Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri
Il primo ad unirli fu il visionario, l’anticipatore: Pier Paolo Pasolini. Fece incontrare Alda Merini e Michele Pierri sulle pagine della rivista “Paragone”. Era il 1953 e Pasolini scrisse un lungo articolo intitolato Una linea orfica, in cui accostava le loro opere nel segno dell’orfismo. La giovanissima Alda (che all’epoca aveva appena 22 anni) era rimasta abbagliata dalla lettura del De Consolatione di Pierri, uscito per Schwarz, dove era altresì apparso il suo Tu sei Pietro.Non sapeva nulla di lui, solo che aveva 54 anni, viveva a Taranto con la moglie e i numerosi figli ed esercitava la professione di chirurgo. Dopo quasi trent’anni da quell’incontro sulla carta, nel 1981, è Giacinto Spagnoletti a favorire il loro contatto, una loro collaborazione poetica. Chiede a Pierri di mettere mano alla produzione di Alda Merini per cercare di ottenere una raccolta che ne segni il ritorno sulla scena editoriale. Alda vive un momento di grande difficoltà: reduce da dieci anni trascorsi in manicomio, completamente sola nella sua casa milanese di Ripa Ticinese: il marito è continuamente ricoverato in ospedale e le sue quattro figlie vivono lontane. Quando Spagnoletti pronuncia il nome di Pierri, per lei è un momento quasi epifanico. L’idea di ritrovare il compagno di orfismo, di potersi affidare alle sue attenzioni, la rassicura e la rallegra immensamente. E così, la sera in cui arriva la telefonata dell’ormai ottantenne poeta tarantino, Alda lo accoglie con una delle sue frasi leggendarie “Buonasera, Michele, sono Alda Merini. Sono trent’anni che aspetto questa telefonata.” Possiamo immaginare lo stupore di Michele Pierri nell’udire queste parole, ironiche ed immediate, che attraversano i fili del telefono come saette. Il medico-poeta è un uomo estremamente riservato, vive immerso nel silenzio e nella concentrazione. Ha recentemente perso l’amata moglie Aminta, dopo una lunga malattia che l’ha paralizzata a letto per undici anni, e intorno a lui si muove una grande famiglia di ben dieci figli.  Tra Alda e Michele vi sono ben mille chilometri di distanza e 32 anni di differenza. Lei ha 51 anni, lui 83. Ma siamo nel paese dell’anima, dove dubbi e distanze diventano materia di confronto serrato, dialogo profondo tra poeti. Il loro appuntamento telefonico diventa un momento di pura felicità per entrambi, un luogo di incontro, di intima fiducia. Alle volte Alda appoggia il telefono sul calorifero, si mette al pianoforte, e fino all’una di notte dedica a Michele le romanze più dolci che conosce. Pierri è profondamente colpito dalla situazione di profonda miseria in cui versa quella poetessa milanese che lui ha sempre considerato di eccezionale valore. L’idea che le sue figlie chiamino “mamma” altre donne, a cui sono state affidate a seguito dei suoi ricoveri in manicomio, gli fa sanguinare il cuore. Rivolge i suoi pensieri anche al marito, gravemente malato, che non può più sostenerla. Tra Taranto e Milano inizia così una fitta corrispondenza nutrita di lettere, poesie e telefonate interurbane. La loro relazione diventa di dominio familiare a causa delle bollette telefoniche, da un milione, due milioni, quattro milioni e mezzo di lire. Conti vertiginosi… ma quel legame è diventato troppo prezioso perché possa finire.  Il marito di Alda, Ettore Carniti, comprende che questo è forse il germe di un’unione più forte e ne è quasi sollevato: quel medico potrebbe essere un importante punto di riferimento per la moglie, quando lui non ci sarà più… Ormai piegato da un cancro ai polmoni, da un infarto e da una gamba amputata, una sera, verso la fine, chiede ad Alda di parlare con Pierri e riesce a pronunciare parole immense, che vanno dritte al cuore: “Le affido mia moglie, ne abbia cura e le faccia da padre.” L’agonia di Ettore termina il 7 luglio 1983. Alda attraversa il mare della perdita. Gli antichi fantasmi rischiano di tornare nella sua mente ma l’intima amicizia con Pierri, ormai nutrita da una lunga fiducia, riesce a salvarla.  Alda e Michele si concedono ora una maggiore tenerezza, sentono che possono appartenersi, possono parlare dell’alchimia che li unisce, un’alchimia profonda che fonde amicizia, stima reciproca, bisogno di conoscersi, toccarsi, amarsi. Un lungo ed inedito amore telefonico sta per diventare “vera vita”?  Michele è il più prudente, sente pienamente la responsabilità che si è assunto, ma esita a proiettarsi di nuovo al fianco di una donna. Alda, che vive i sentimenti molto istintivamente, parla senza esitazione d’amore. “Cesare amò Cleopatra,/ io amo Pierri divino/ che non conduce nessuna guerra,/ che è solo condottiero di nostalgia”, scrive nelle Satire della Ripa, che esce nel 1983, grazie al corposo lavoro di selezione operato da Pierri. Arriviamo così al 1984: l’anno della rinascita (e non solo letteraria), che passa attraverso La terra santa, il capolavoro di Alda Merini. Anche Michele Pierri è protagonista di un’importante pubblicazione. Si tratta di una sua antologia personale che raccoglie una selezione di versi composti tra il 1945 e il 1983: il titolo è Passare il ponte da sola, con 16 inediti del 1983. Qui compare Alda Merini, con due poesie a lei esplicitamente dedicate. Nella poesia Ma questo nuovo aprile si legge “Il tuo seno scoperto/ una finestra aperta/ sulla vita futura/ adorando il presente”. Pare la prospettiva di un’unione che possa conciliare il futuro con un presente ancora vivo e sanguinante (dove forse si cela l’amata Aminta, a cui Pierri resterà sempre profondamente legato). Il fatto che Michele stia coltivando il definitivo desiderio di concretizzare il loro legame in qualcosa di più che una telefonata è confermato dall’altro componimento a lei dedicato, Due poesie: “Due poesie che per grazia/ s’incontrano non possono/ non abbracciarsi”. Paiono le parole di un libro già scritto… Michele la aiuta, le invia dei vaglia per salvarla dallo sfratto e dal rischio di vedersi tagliare luce, telefono, gas. Ma le condizioni economiche di Alda sono ben oltre la soglia critica e, un giorno, pensando di racimolare qualche lira, subaffitta una stanza del suo bilocale a Charles, un barbone del Naviglio. Saputa la cosa, Pierri si decide, butta il cuore oltre l’ostacolo e le invia un telegramma di sole tre parole: “Ti sposo subito”. Da Milano Centrale, Alda parte dunque in treno alla volta di Taranto, attraversa l’Italia ed i mille chilometri che la dividono da Michele, l’uomo che si staglia nella sua mente come un mito, un eroe sublime. È sedotta dalle sue qualità, quelle che ha conosciuto nei loro lunghi convegni telefonici: la sua monumentale rettitudine morale e la sua tendenza ascetica e meditativa. Come racconta nella sua biografia Reato di vita: > “Quando era venuto a prendermi alla stazione …io non l’avevo mai visto di > persona, ma lo riconobbi subito, e anche lui perché per quattro anni ci > eravamo ardentemente amati al telefono”. Il 6 ottobre 1984, nella Chiesa del SS. Crocifisso di Taranto, Michele Pierri e Alda Merini si sposano. Lui ha 85 anni, lei 53. Per quattro anni, a Taranto, Alda fu una sposa felice. Ogni mattina Michele arrivava nella loro stanza con il caffè, una rosa e una poesia d’amore sul vassoio… Scrivevano, si consultavano, si recitavano versi. Quegli anni furono tra i più creativi di Alda Merini, un momento di crescita umana e poetica, in cui la sua maturità artistica, già attraversata da esperienze gravi e dolorose, si coniuga ad un maggior rigore formale, certamente ispirato da Pierri. Ogni tanto lei e Michele salivano a Milano Su quel treno di Taranto, infinito, che Alda canterà più avanti con tanta malinconia, dopo la morte di Pierri, avvenuta nel 1988. Rivolgendosi all’amico editore Vanni Scheiwiller, scriverà  > Su quel treno di Taranto, infinito > dove guarirà l’ombra della mia giovinezza > io tornerò un giorno. > Tornerò, Vanni, dall’amore che ho perso > tra gli ulivi gaudenti della terra, > tornerò presso il suo vecchio corpo… > e quando il sole mi guariva le tempie, > o Vanni, io pregavo il Signore > che mi facesse morire con lui. “Erano una coppia favolosa”, scrive Maria Corti, attenta e fondamentale curatrice dell’opera di Merini, “poeti di rilievo entrambi, che ti venivano a trovare, ti donavano i loro testi e ti lasciavano nelle stanze il senso di una epifania”. È proprio questo il senso che si respira tra le righe dei versi che Alda ha dedicato a Michele, il suo “grande guru bianco… di straordinaria bellezza, anche se già ottantenne”, ma eterno ragazzo nel cuore:  > Forse tu hai dentro il tuo corpo > un seme di grande ragione, > ma le tue labbra gaudenti > che sanno di tanta ironia > hanno morso più baci > di quanto ne voglia il Signore… > E le tue mani roventi > nude, di maschio deciso > hanno dato più abbracci > di quanto ne valga una messe, > eppure il mio cuore ti canta, > o sposo novello. Un grande amore che si fa poesia, malgrado le maldicenze e le ipocrisie di quanti non lo compresero “Quanta gente Michele ha messo la bocca/ tra i nostri inguini,/ gli inguini dei nostri sogni…”. I farisei non capiranno mai cosa sia una follia d’amore ebbe a scrivere Merini nella Mistica d’amore. Ma, dopotutto, a poco conta il loro giudizio di fronte a questo verso: “Pierri, se morirò/ ricordati che io ebbi l’audacia di amarti”.  Marilena Garis *In copertina: Alda Merini e Alberto Casiraghy in un ritratto fotografico di Giorgio Matticchio L'articolo “Ebbi l’audacia di amarti”. Alda Merini e Michele Pierri proviene da Pangea.
August 28, 2025 / Pangea
“Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico, Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi anni. Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati, splendenti intelligenza…”. In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”. Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).  Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18 novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni. Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da mistico:  > “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non > attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in > quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non > un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con > gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che > ognuno è.”  Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto nella Prigioniera: > “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso > nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”  Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust. I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla “comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito. Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a Swann: > “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di > segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva > soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così > forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé, > ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli > aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito > a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.” Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili per non correre il rischio di vederlo svanire. Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte dell’Io ed esprime l’indicibile. Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di parole che è la Recherche. Marilena Garis L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro” proviene da Pangea.
August 25, 2025 / Pangea
Un arcipelago di cuori. Incontro con Irina Emelianova, la figlia “adottata” da Pasternak
È un sabato pomeriggio d’aprile. Parigi pare celebrare l’arrivo della primavera. La musica della vita invade le strade, la gente affolla i locali della Rive Gauche, forse nascono nuovi amori. In me risuonano le parole di Olga Ivinskaja, la donna che ha condiviso gli ultimi quattordici anni della vita di Boris Pasternak:  > “E dirò a me stessa sospirando > nell’impietosa luce del giorno: > sì, sarò stata malvagia, e peccatrice, > ma pur con tutto questo m’hai amata.”  Tengo strette le sue memorie, Prigioniero del tempo. La mia vita con Pasternak, mentre mi appresto ad incontrare Irina Emelianova, sua figlia.   Mi accoglie sulla soglia di casa, con limpidi e sereni occhi azzurri. Vedere quello sguardo terso, che ha incrociato quello di Pasternak, Ariadna Efron, Varlam Šalamov… mi commuove nel profondo. Mi toglie il fiato. Ma la sua gentilezza, il sorriso aperto, mi fanno subito sentire “a casa”, come se ci conoscessimo da sempre. Respiro familiarità, quello stesso calore che emerge dal suo libro Légendes de la rue Potapov, il leggendario appartamento a venti minuti dal centro di Mosca, dove l’amore, la gioia e la poesia hanno convissuto con le tragedie, le perquisizioni, gli arresti, le separazioni.  Mentre osservo le fotografie che campeggiano nel suo salotto, mi trovo a pensare che se il verbo ha un potere, è proprio quello di far risorgere la “vera vita”. Nel momento in cui Boris Pasternak muore, nel 1960, il suo romanzo, Il dottor Zivago, conosce un destino eccezionale, un successo planetario. Sappiamo che Olga Ivinskaja ha ispirato il personaggio di Lara e Irina quello della piccola Katia. Ecco: ora, davanti a me, c’è Katia, il riflesso di Lara, non più due eroine, simboli romantici, ma due donne vive, in carne ed ossa, che hanno suggerito a Pasternak la concezione di un’esistenza e di un amore fuori dal comune.  Sul treno che da Torino mi ha condotto a Parigi ho riletto per l’ennesima volta il capitolo finale di Zivago, quello in cui Lara ripercorre la sua storia con Jurij, di fronte alla sua salma, avanti all’inesorabilità della morte. In quelle pagine, Zivago-Pasternak pare anticipare la sua fine, come per donare a Lara-Olga gli strumenti per affrontarla, il diritto di piangere per lui da sola, nella certezza d’un amore unico, fondato sulla più intima conoscenza reciproca, qualcosa “che non veniva dal ragionamento, ardente, mutua. Istintiva, diretta”.  Come mi suonano vere, oggi, quelle parole… Irina mi mostra le foto di famiglia e il verbo si fa carne. “Oh, che amore era stato il loro, libero, inaudito, diverso da ogni cosa al mondo! Pensavano, come altri cantavano. Si sono amati non perché fosse ineluttabile, non perché ‘travolti dalla passione’, come si dice, falsando i fatti. Si sono amati perché così voleva tutto ciò che li circondava: la terra sotto di loro, il cielo sopra alle loro teste, le nuvole e gli alberi… Mai, mai, nemmeno nei momenti della felicità più gratuita, immemore, li aveva abbandonati qualcosa di più elevato e appassionante: il godimento al cospetto della generale armonia del mondo, il sentimento della loro appartenenza a tutto ciò, la sensazione di essere parte della bellezza di tutto quello spettacolo, di tutto l’universo. Da loro emanava questa comunione”. È una comunione cristiana quella che emerge da Zivago e Pasternak la sperimenta in prima persona con Olga Ivinskaja. Mentre il poeta ci osserva dall’alto della libreria, Irina mi racconta le loro tribolazioni: il primo arresto della madre, nel 1949, cui seguirono quattro anni di reclusione nei gulag. Lei ha undici anni. Boris la “adotta” e le permette di sopravvivere alla più grande miseria. In quegli stessi anni lo scrittore è in corrispondenza con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, al confino aTuruchansk, nel nord della Siberia. È grazie al suo sostegno morale e finanziario se Ariadna sopravvive a condizioni esistenziali estreme. Irina e Ariadna divengono così le “figlie adottive” del poeta, figlie della sua anima, in un autentico “arcipelago di cuori” che li legherà fino alla fine.  Tutto questo passa attraverso le parole di Zivago, una lezione di vita, un’autentica “attrezzatura spirituale” che affonda le sue radici nel Vangelo, nell’amore per il prossimo  > “questa forma suprema dell’energia vivente, che riempie il cuore dell’uomo ed > esige di espandersi e di essere spesa”. Queste le parole chiave che mi trovo a condividere con Irina, testimone vivente di quell’amore straordinario > “l’apice di una reciproca > compatibilità di intenti > che non ammette gradazioni > e in cui nessuno sta sopra o sotto, > è un’equivalenza di intenzioni > dell’essere pieno nella sua interezza”.  Ripercorriamo assieme le Tre variazioni sull’amore, là ove Pasternak ne canta la “selvaggia tenerezza”. Su tutto, prevale l’ottica di un “amore superiore” che si stacca dalla terra per elevarsi verso il cielo. Dall’abbandono negli abbracci, la sensualità dei corpi si fa “anima e dolcezza”, veicolo di elevazione:  > “ognuno degli istanti, > in cui ci viene addosso come un alito > d’eternità il fremito della passione, > è un momento di rivelazione, > di un approfondimento > di noi stessi e della vita”. Versi da incidere nel cuore, cui aggrapparsi come a un deltaplano. Rileggendoli, ho sempre pensato: questo è “l’amore come dovrebbe essere” e ora ne sono pienamente consapevole.  Grazie ad Irina Emelianova vivo un momento di autentica rivelazione. La letteratura si fa vita. E quello che emerge è il quadro – umanissimo – di un amore vissuto come “empatia, indulgenza, comprensione, compassione”, così me ne parla Irina. Pasternak era lacerato tra l’amore per Olga e il matrimonio con Zinaida Neuhaus, ma “mia madre lo rassicurava…”, mi racconta, “era felice con lui, non gli ha chiesto di lasciare la sua famiglia… perché complicargli la vita? Con la sua età e tutto il resto?”. Ecco un sorprendente sustine et abstine, pronunciato con un tale equilibrio di forze da commuovermi.  “Mia madre ed io”, continua Irina, “abbiamo vissuto un secondo arresto due mesi dopo la morte di Pasternak. Il potere, l’incarnazione del male, si è vendicato sull’anima del poeta per questa ‘passione illegale’. Questo è stato il prezzo che mia madre ha dovuto pagare, scontando nove anni in prigione. Il 30 maggio di quest’anno avremo il nostro ‘giubileo’, a 65 anni dalla morte di Pasternak e dal nostro arresto.”  Mi affretto a trascrivere queste parole sul taccuino: Irina le pronuncia in francese e le ripete in russo. In questa comprensione-compassione, in questo prezzo da pagare (per vivere e amare), c’è tutto Il dottor Zivago. Zivago, Lara e Katia… ma soprattutto: Pasternak, Olga e Irina. Cuori pulsanti, sanguinanti, attraverso cui passa la vita. Quella vera: la testimonianza di una grande luce sulle persone che ne sono state irradiate, a cui essere grati, nel riflesso di una lezione universale.  Marilena Garis *In copertina: Boris Pasternak insieme a Olga e alla figlia, Irina L'articolo Un arcipelago di cuori. Incontro con Irina Emelianova, la figlia “adottata” da Pasternak proviene da Pangea.
May 20, 2025 / Pangea
“Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia & Vita, o dell’amore assoluto
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il 7 ottobre 1928, e continua:  > «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare > a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri > per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come > descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a > saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È > una sensazione che mi dai solo tu».  Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere, scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia (1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò. Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi, essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad urlare con passione:  > «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te > una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta > sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. > Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così > elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è > solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per > me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle > persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a > questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti > amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926). Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale, vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi sogni e nei suoi scritti. Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa testimonianza.  L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia, libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.  Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama. Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura. Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta, cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928. Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:  > «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta > una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto > hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo > che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in > picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo > anch’io. Lo sai». Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega, come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai. Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12 marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).  Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e ci riscalda. Marilena Garis L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia & Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.
March 26, 2025 / Pangea