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“Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo, però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero) è perduto. Anche questo è un segno.  Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata, tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio – ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus, in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia” (così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha valore di levatrice dell’uovo.  Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo, inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro, Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la ‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.  Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e morte, ovvero tra poesia e preghiera). Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.  Leda e il cigno in uno studio di Leonardo Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46); secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno” è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022). Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito, nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).  Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono “abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei – come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse, di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni traducono come “gufo bianco”.  Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare, come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di Limoges nel IX secolo.  Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”, scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti – lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei manoscritti dal 1100 circa.  Il volto di Leda secondo Michelangelo Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine, finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re” di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata da Attar nel Verbo degli uccelli).  Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè: incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.  Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia. Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.  ** Planctus cygni  Lamentazione canterò – figli  dell’alato cigno che insigni acque attraversò – dirò  del suo rude ululare fu reliquia per lui terra di aridi fiori: del mare abissale andò in cerca  e piangeva: “Misera bestia sono – sola –  miseria è il mio nome inutili le ali splendore che gemma in piogge: onda  mi scassa tempesta mi attenta io sono l’esiliato mi serrano maree pari a montagne –  e piango perché morde morte abbondano pesci ma non so conficcarmi in quelle vertigini vergini per ucciderli  Oriente – Occidente plaghe dei Poli conferitemi  brillio di stella suffragio a Orione: che sfugga da queste nubi barbare”. Taceva l’uccello intaccato da tale pensare e giunse rossa l’aurora – il vento lo incoraggia riaccorda le ali esulta ora  si leva levata fatica  a becchettare  le stelle gioia  smisurata  lo penetra tra  i reami dei mari canta – ora – canto  pieno di carezze e attracca a terra ora: creature dei cieli alate bestie  cantate insieme gloria ammanti il grande re Regi magno Sit gloria *In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640 L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario proviene da Pangea.
September 2, 2025 / Pangea