La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio:
scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite.
Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le
querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente
alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei
sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore,
la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono
proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito
vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia
cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della
luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel
visibile.
L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali
incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da
narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali,
che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle
tre essenze trinitarie.
La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la
tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti
di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi
e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente,
del reciproco amore.
Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo
in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo
dell’umana ferita.
Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai
ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico
dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel
Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di
inadeguatezza, pur adorante, grata.
Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi
all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’,
non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota
e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo
disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv
iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il
fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale.
È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico
dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo
più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà
del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge
all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione
dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se
esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite
che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene
vocazione.
Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca.
*
Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e
indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico
frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave,
dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del
limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione
dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/
e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno
splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il
poeta schiude interiormente al sublime:
> “Io mi porto questo verde alle labbra –
> questo vischioso giurare di foglie –
> e questa terra che è spergiura: madre
> di bucaneve, aceri, quercioli.
>
> Mi piego alle umili radici, e guarda
> come divento insieme cieco e forte”[5];
di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza,
rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e
glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e
parola:
> “dura è la terra, secondo coscienza.
> Rintraccerai a stento più puro ordito della
> verità d’una tela di bucato.
>
> Si disfa come sale, nella botte, una stella;
> più buia è l’acqua gelida, più pura
> la morte, più salata la sventura,
> ed è più onesta e paurosa la terra”[6].
Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo,
dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone
il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé
stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando
avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della
soverchiante plenitudine, non saper dire:
> “Superando la fissità della natura
> il durazzurro occhio ne penetra la legge:
> nella crosta terrestre impazzano le rocce,
> dal petto sgorga un lamento minerale.
>
> E il sordo animalcolo si tende
> come per una strada a corno ritorta,
> per capire l’eccesso interno dello spazio,
> del petalo pegno, e della cupola”[7].
La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici
sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta: inerme alla volgare
alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che
con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del
sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza
che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio,
celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa
si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando
distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza
pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9].
Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione
dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in
amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei
dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la
sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi,
dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno
ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato;
così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti
albori di neve, a recitare Dante e Petrarca.
*
La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non
compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come
pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della
storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto
che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo
amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave,
avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:
> “A tu per tu, il gelo in volto io fisso;
> lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla;
> stirata, pieghettata, senza grinze,
> respirante miracolo, pianura”[11].
Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale:
disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come
il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma,
segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato
fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco
ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio]
dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di
nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata
nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se
ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza
tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia
corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in
cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa
conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve
la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità
assoluta”[15]
È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che
colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui
Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine
e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro,
immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima
bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che,
“come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la
pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza.
È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura:
inclinazione sofferta al mistero.
*
Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi
secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si
intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto:
“Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione
triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che
trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele
riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e
povertà, adorando.
Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la
potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto
comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e
ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al
trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come
nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di
Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione
con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma
di devozione radicata nell’umiltà.
*
Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone
Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze
dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il
limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché
incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e
sferzata dagli automatismi della necessità.
L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad
amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo,
a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di
superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine
vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non
ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale
incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni”
della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati,
fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia
come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in
spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in
Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove
Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza:
> Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di
> discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non
> procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina,
> non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per
> infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa
> avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre
> sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è
> pura, santa, semplice e vera.
Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di
quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il
Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio,
come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura
incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano.
Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la
Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, –
che dà nome al saggio, afferma:
> Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo
> che non la dilatazione del piccolo nell’immenso.
Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario
riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario
proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa
extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle
bolle”.
Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel
cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si
assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di
un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla
tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità.
L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito
afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze
e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane
comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle
note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida
tensione alla salvezza:
> In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze
> sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno
> si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22]
In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione
primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona
identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e
breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino:
> Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre
> alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il
> Salterio[23].
Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un
assenso, obbedienza al presagio, all’elezione.
Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo
creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la
terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e
spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo
la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene
esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco,
ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure
corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze
spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in
questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo
come sono, è una forza che spaventa”.[24]
L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per
giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé
stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore
legato che precludeva l’impossibile.
Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto:
cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven,
timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per
sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con
cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano
il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata
affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti
voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del
cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di
aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità,
nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa.
Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa
sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e
talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino
precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26].
Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi
all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona
pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era
manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre
cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al
mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto,
fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza:
che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la
raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia,
conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel
limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la
chiamò a sé.
Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e
lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello
stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma
Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso
forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’
scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione
di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera
costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé,
ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28].
Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo
sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del
limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da
regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime:
Io nulla
Primizia del mio tempo
Orlo del velo che copre la presenza
Dal vivo occhio mi penetra
Un raggio di pura luce
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo alla presenza
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Oso fiorir
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Che nascono nel cuore
La notte se ne va
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Davanti a te
Io nulla
Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia
esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è,
come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella
personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia
dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé
stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente
e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in
quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare.
Isabella Bignozzi
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[1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona,
prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223
[2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e
cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56
[3] ibidem, p. 52
[4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi
editore 2009, p. 5
[5] ibidem, p. 169
[6] ibidem, p. 85
[7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale,
Adelphi Edizioni 2017, p. 43
[8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55
[9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45
[10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip
Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29
[11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155
[12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., pp. 38-41
[13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič
Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41
[14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 39
[15] ibidem, p. 231
[16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C
[17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 41
[18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito
bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012
[19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave
Thibon, Edizioni Borla 2002
[20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di
Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989
[21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli
imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi
Edizioni 1987, p. 45
[22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152
[23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114
[24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219
[25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell,
Adelphi 1991
[26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119
[27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165
[28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice
1998, postfazione di Pavel Endokimov
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Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine,
è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard –
con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda
guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi
– Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –,
spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i
suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno
di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne
restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad
esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha
tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti,
l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per
Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie
Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di
setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli
intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava –
agiva.
Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’,
Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en
poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore
antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile,
che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona
come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo,
stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una
palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.
Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i
più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima
il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei,
al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della
consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé),
Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e
Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo,
Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo
segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline
Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis
Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore
– precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di
ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non
conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo,
la caccia assoluta.
Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del
Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada,
come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina
introduttiva:
> “Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con
> l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma
> questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste,
> essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra
> azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può
> irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e
> contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata.
> Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare:
> questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio
> non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una
> volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così
> specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di
> Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei
> temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei
> sentieri”.
È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono
la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che
accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia
come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio,
l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli
abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in
preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino
ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta
incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna
certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo
sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.
***
Atharva-Veda
Il Soffio
Gloria al Soffio
signore del mondo
il mondo ha in lui
la sua trave.
Gloria al tuo ruggire
alla tua stirpe di tuoni
al tumulto dei fortunali
alle piogge.
Gloria a te quando vieni
quando vai
quando ti issi
quando posi.
Il Soffio vive nelle creature
come il padre vive nell’amore del figlio.
Padrone di ciò che respira
e di ciò che non respira più.
*
Esuperio di Bayeux
(IV secolo)
All’imperatore
Signore, siamo tuoi soldati
ma siamo gli schiavi di Dio.
A te offriamo il servizio in armi
a Lui è dedicata la nostra anima.
Il salario viene da te
a Lui dobbiamo la vita.
A te l’obbedienza, sempre
a patto che non sia contro di Lui.
Combattiamo i tuoi nemici
solo se non sono innocenti.
Ti siamo fedeli, sempre
ma la nostra fede è in Dio.
Se deludessimo Dio
dovresti infamarci.
*
Anonimo islandese
La croce
Croce
vessillo di Cristo
del suo supplizio
tu squarci il cielo
prepari all’uomo
la casa della vita.
Salvifica Croce
pacifica
inchiodate a te
hai tenuto le sue braccia
Il suo sangue ti ha
fatto sbocciare nel Giudice.
Sei la zattera
degli amanti di Dio:
li trasporti
tra crimini
e fortunali
al porto della vita.
*
Anonimo latino
Nel fuoco si rintana
il sole, ma tu sei la luce
indivisa che invade
i nostri cuori con fervore.
A te cantiamo all’alba
imploriamo Te a sera:
trasformaci negli astri
che ti acclamano tra gli dèi.
Inesauribile sia la gioia
come sempre è stata
al Padre e al Figlio
e a te, Sacro Soffio.
*
Jan Kochanowski
(Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584)
Il sonno
Instilli l’idea della morte, sonno,
ma ci fai desiderare la vita.
Dai riposo a questo corpo terreno
perché l’anima possa involarsi nei cieli.
Il giorno si leva dal mare.
Lo splendore della neve e del gelo
fanno sparire le ombre.
I fuochi degli astri celesti
cantano l’inno delle sfere.
Gioie innocenti dell’anima:
il corpo dovrà morire
accarezzalo mentre dorme.
*
Fénelon
(Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715)
Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi,
che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista
nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver
visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali
spettri.
*
Carl Jonas Love Almquist
(Stoccolma, 1793 – Brema, 1866)
Rosa
Il nostro cuore
è un pallido fiore.
L’ha piantato Dio
e lo chiama rosa.
Le sue spine graffiano
il cuore – e il cuore
chiede: perché?
Dio risponde:
il tuo sangue
macchierà il fiore
e tu sarai
un po’ come me.
*
Henri de Régnier
(Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936)
Il silenzio
Forse il silenzio è una voce mutilata
come quella del dio che tace nella statua
e non serba più nulla di vivo se non
l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse
il silenzio è una voce che tutto sa
come quella del dio che tace, eretto
nel marmo: il suo gesto è eterno
e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada.
Loro osservano, dal basso, i silenziosi
ordini di un dio pietrificato.
*
Endre Ady
(Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919)
Non ha più ombre la mia
anima: la luce di Dio
le ha messe in fuga.
Il suo volto è velato
ma i suoi occhi bruciano
e invadono il cuore.
Se vinco è perché
lui mi precede
e combatte per me.
Mi scorta, e quando
dice: Dove sei?
il mio cuore scoppia.
Eccolo, è dentro di me
lo tengo tra le braccia
siamo legati nella morte.
*
Jules Supervielle
(Montevideo, 1884 – Parigi, 1960)
Pettegolezzi
Appena sopra le nostre
teste, gli dèi che ci dominano
chiacchierano allungando
il collo. Li sentiamo:
pronunciano i nostri nomi
come se fossimo già morti
senza rispetto per tutta questa natura
che si dispiega nell’enorme silenzio
di cui siamo parte.
Ci giudicano, ci soppesano
ignorano i dettagli
urlano a tutti i nostri segreti
poi, eccoli, più rigidi di una statua
immobili e freddi come ponti di ferro
sotto cui passiamo
così nudi e inermi
così disillusi, ma fieri
perché dietro di noi
rispendono ancora le montagne
davanti a noi è ancora bello il mare.
*
Abu Shadi
(Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)
Foresta, autunno
Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre?
Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno?
Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come
se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.
Gli uccelli piangono la tua morte:
li hai protetti dai venti del nord.
Hai reso un deserto i sentieri del sole
che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.
*
Jean Follain
(Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971)
Ladrone
Battono nel prato i cuori delle mucche:
un uomo avanza perché vuole
il loro latte – non ama, non odia
e cammina sulla rugiada.
Il tempo si ferma solo per lui
il sole è sulla vetta del cielo
e quell’uomo può dormire
può ripudiare
l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità.
Se passi da lì non ha senso urlare:
Aspetta.
*
Rutger Kopland
(Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012)
D
D, ho descritto il tuo viso in una poesia
come una grande assenza, l’ho paragonato
a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno,
il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi
la riva era deserta. L’ho paragonato
al vento: udii il respiro di un cane
morto – in questa casa era così
ingombrante il silenzio. L’ho paragonato
a molto di più, D, a molte cose,
più di quelle che ora ricordi, perché
ora non trovo più quella poesia.
Non c’erano soltanto acqua o vento
perché tu mi vedi quando non ti vedo
respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.
*In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo
L'articolo “Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
proviene da Pangea.
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot,
s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa,
Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza
apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi
comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata
Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un
cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di
Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo
traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London
Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/
su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot
non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward
Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti
accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della
poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio),
rivolta ai morti, a vivificarli.
*
Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste.
Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente –
vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa
anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di
Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una
specie di servizio della parola rivolto ai morti.
Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia.
*
Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si
radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto
alfabeto; come intendere quel puledro verbo?
Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O
meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al
religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che
sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la
rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di
mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci –
cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di
approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete.
Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.
L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire
chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare
la schiena di Dio.
*
Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è
priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso
– le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire.
Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per
accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che
mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare
le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.
> “Da questo luogo
> sotto il grande sole
> cominciò a camminare
> Per tre giorni
> egli va così.
> Nella direzione davanti a lui
> era un’isola-nube
> tre grandi tende…
> salì veloce sul palo
> che sostiene le tende
> salì nel cuore del fuoco
> come coleottero di ferro”.
*
Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima
nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di
linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.
*
La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i
morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque:
intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.
*
Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per
mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre
che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu,
va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto
dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che
cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle
invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano
come pipistrelli, alla fine del poema.
Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata
Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui
nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti,
da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia
del rimpianto. Non più compimento, ma compianto.
Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867
*
Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui
vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa
conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti
viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?
A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.
A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.
Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i
morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si
fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.
*
Parola vivente, parola vivanda.
*
Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola
che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica,
superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare
la lingua fino a ossea ispirazione.
*
Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei
morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire
indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.
> “Concedete che il defunto venga a voi,
> lui che non ha peccato
> che non ha mentito
> che non ha commesso male
> che non ha fatto alcun crimine
> che non ha reso falsa testimonianza
> che nulla ha fatto contro se stesso
> ma che vive di verità
> si nutre di verità.
> Dovunque ha sparso la gioia.
> Di ciò che ha fatto
> gli uomini parlano e gioiscono gli dèi.
> Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.
I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che
accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato,
affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba”
(Alonso M. Di Nola).
Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più
puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti.
Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria,
inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –,
un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a
questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che
non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola
d’oltreconfine.
*
Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli
nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.
*
La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro
tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci:
> “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente
> dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la
> continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia
> o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli
> uccelli lo divorino.
>
> Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza
> nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima
> creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e
> lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova
> vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e
> trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità –
> effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce
> indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.
> Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è
> dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra
> dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.
Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo
a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La
liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si
dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.
> “Mentre sorge in me il Bardo della Vita
> lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo
> e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione,
> della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento
> con il dono di un corpo umano
> svelando la vera natura dell’illusione
> realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio
>
> Mentre sorge in me il Bardo del Sogno
> spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza
> concentrando la mente nel suo stato naturale
> svelando la vera natura del sogno
> senza sprofondare nel sonno dei bruti
> mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione
> portando questa pratica nel sonno”.
Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella
versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale
nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di
allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane
per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.
*
Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a
composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la
fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il
rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a
rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle
preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte
apposta per la cerimonia; queste, ad esempio:
> “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre,
> come un seme, nel sepolcro
> il fragile e corruttibile corpo
> del nostro fratello (della nostra sorella) N.,
> con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta
> il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile,
> nella pienezza della sua gloria.
> Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo:
> Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù!
> Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro,
> trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza.
> Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono
> e promesso il paradiso,
> avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella)
> nel tuo abbraccio di misericordia e di vita.
> Tu che sei stato spogliato delle tue vesti
> e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba,
> fa’ indossare la splendida veste della vita immortale
> al nostro fratello (alla nostra sorella),
> che viene a te nella nudità della morte”.
*
Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in
efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio
dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è
il principio della caduta o un metodo per ascendere?
*
Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai
poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola
che attecchisca ancora nell’aldilà.
*
Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e
castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera.
Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.
*
Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel
Corpus Domini:
> “La tua mente illusoria rifiutala
> se non ha altri argomenti che te:
> e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
> lamenti. Non avvilirti
> compassionandoti. Sii non schiavo di te,
> ma il cuore di ciascun altro: annullati
> per tornar vivo dove non sei
> più di te, ma l’altro che di te si nutra,
> distinguilo dal numeroso,
> chiama ciascuno col suo nome”.
È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere,
corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la
baldracca.
Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e
l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.
***
La sepoltura dei morti
In piedi, tutti, intonano l’inno:
Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore;
chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà;
chi vive e ha fede in me non morirà mai.
So che il mio Redentore vive
che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra;
e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio;
lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi
non mi sarà estraneo.
Perché nessuno vive per sé
per sé nessuno muore.
Quando viviamo, viviamo nel Signore
quando moriamo, moriamo nel Signore.
Nella vita e nella morte siamo del Signore.
Beati i morti che nel Signore muoiono;
così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore.
Per la sepoltura di un adulto:
O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo
servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella
comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore,
che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre.
Amen.
Per la sepoltura di un bambino:
O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli:
donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile
cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per
mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con
lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.
Consacrazione della tomba
Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il
sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno:
O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino:
benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui
sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste
regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Preghiera aggiuntiva:
Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai
tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per
annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura
contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza
macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro
Signore. Amen.
Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo
popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita
di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi,
te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito
Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo
servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta
coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole,
religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo.
Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.
Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer”
*In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec.
L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia
dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato
la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo,
però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero)
è perduto. Anche questo è un segno.
Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata,
tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio
– ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus,
in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica
dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu
feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse
costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un
cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia”
(così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha
valore di levatrice dell’uovo.
Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo,
inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in
estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro,
Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la
‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per
quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.
Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione
spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il
regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle
betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di
librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del
termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli
antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu
detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed
altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e
morte, ovvero tra poesia e preghiera).
Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia
eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione
spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il
cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo
per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.
Leda e il cigno in uno studio di Leonardo
Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner
come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la
quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46);
secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno”
è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così
la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022).
Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato
Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e
canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito,
nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e
si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore
dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans
at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di
quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il
cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).
Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare
in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni
specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava
interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono
“abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei –
come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una
parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse,
di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni
traducono come “gufo bianco”.
Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il
precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e
pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi
impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole
pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare,
come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente
del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e
simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di
Limoges nel IX secolo. Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”,
scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di
Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei
Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi
che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti
– lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei
manoscritti dal 1100 circa.
Il volto di Leda secondo Michelangelo
Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato
l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e
Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la
terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine,
finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re”
di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del
creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata
da Attar nel Verbo degli uccelli).
Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè:
incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del
cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere
stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.
Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del
compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia.
Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.
**
Planctus cygni
Lamentazione
canterò – figli
dell’alato cigno
che insigni acque
attraversò – dirò
del suo rude ululare
fu reliquia per lui
terra di aridi fiori:
del mare abissale
andò in cerca
e piangeva: “Misera
bestia sono – sola –
miseria è il mio nome
inutili le ali
splendore che gemma
in piogge: onda
mi scassa tempesta
mi attenta
io sono l’esiliato
mi serrano maree
pari a montagne –
e piango perché
morde morte
abbondano pesci
ma non so conficcarmi
in quelle vertigini vergini
per ucciderli
Oriente – Occidente
plaghe dei Poli
conferitemi
brillio di stella
suffragio a Orione:
che sfugga da queste
nubi barbare”.
Taceva l’uccello
intaccato da tale pensare
e giunse rossa
l’aurora – il vento
lo incoraggia
riaccorda le ali
esulta ora
si leva levata fatica
a becchettare
le stelle
gioia
smisurata
lo penetra tra
i reami dei mari
canta – ora – canto
pieno di carezze
e attracca a terra ora:
creature dei cieli
alate bestie
cantate insieme
gloria ammanti
il grande re
Regi magno
Sit gloria
*In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640
L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo
straordinario proviene da Pangea.
Cari poeti,
so che avete fame di significato, e per questo riflettete anche su come la fede
interroga la vita. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un
significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato
non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è
uno strumento di tutto quello che è dentro di noi.
Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto
Dante, Dostoevskij e altri ancora.Devo anche ringraziare i miei studenti
del Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, con i quali ho condiviso le
mie letture quando ero giovane e insegnavo letteratura. Le parole degli
scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche
ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio
compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è
come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La
poesia è aperta, ti butta da un’altra parte.
Alla luce di questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune
considerazioni sull’importanza del vostro servizio.
La prima vorrei esprimerla così: voi siete occhi che guardano e che sognano. Non
soltanto guardare, ma anche sognare. Una persona che ha perso la capacità di
sognare manca di poesia, e la vita senza poesia non funziona. Noi esseri umani
aneliamo a un mondo nuovo che probabilmente non vedremo appieno con i nostri
occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo. Uno scrittore
latinoamericano diceva che abbiamo due occhi: uno di carne e l’altro di vetro.
Con quello di carne guardiamo ciò che vediamo, con quello di vetro guardiamo ciò
che sogniamo. Poveri noi se smettiamo di sognare, poveri noi!
L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in
profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che
sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire
da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro,
l’amore, la morte, e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. Il
vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”. L’arte è un
antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al
nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose. E in questo
senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica. Essa possiede quella carica
“rivoluzionaria”, che voi conoscete bene, ed esprimete grazie al vostro genio
con una parola che protesta, chiama, grida. Anche la Chiesa ha bisogno della
vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare.
Vorrei dire però una seconda cosa: voi siete anche la voce delle inquietudini
umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete
bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante,
perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il
terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà –
come le chiamava Romano Guardini –, le quali richiedono sempre un linguaggio
creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti. Per
esempio, pensiamo a quando Dostoevskij nei Fratelli Karamazov racconta di un
bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa
di uno dei cani del padrone. Allora il padrone aizza tutti i cani contro il
bambino. Lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per
essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati
della madre. Questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda: parla
della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri
egoismi personali. Per citare soltanto un brano poetico che ci interpella.
E non mi riferisco solamente alla critica sociale che c’è in quel brano. Parlo
delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della
contraddittorietà dell’esistenza. Ci sono cose nella vita che, a volte, non
riusciamo neanche a comprendere o per le quali non troviamo le parole adeguate:
questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche
il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre
“debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante,
l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un
po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda. È quello che vorrei chiedere oggi
anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza
addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo
processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con
la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore
dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano. Questa opera permette
allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni
della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di
contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza
che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti.
Questo è il vostro lavoro di poeti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto
ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È
un lavoro che può anche aiutarci a comprendere meglio Dio come grande «poeta»
dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando
anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali,
creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi.
Dunque, occhi che sognano, voce delle inquietudini umane; e perciò voi avete
anche una grande responsabilità. E qual è? È la terza cosa che vorrei
dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione. Il vostro lavoro
ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo.
E oggi abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e
immagini potenti.
Io pure sento, vi confesso, il bisogno di poeti capaci di gridare al mondo il
messaggio evangelico, di farci vedere Gesù, farcelo toccare, farcelo sentire
immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la
bellezza della sua promessa. La vostra opera ci può aiutare a guarire la nostra
immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò
che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo mettendolo dentro una
cornice e ad appendendolo al muro, significa distruggere la sua immagine. La sua
promessa invece aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo
nuovo la nostra vita, la nostra storia e il nostro futuro. E qui torno a
ricordare un altro capolavoro di Dostoevskij, piccolo ma che ha dentro tutte
queste cose: le “Memorie dal sottosuolo”. Lì dentro c’è tutta la grandezza
dell’umanità e tutti i dolori dell’umanità, tutte le miserie, insieme. Questa è
la strada.
Cari poeti, grazie per il vostro servizio. Continuate a sognare, a inquietarvi,
a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita
umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità
universale. Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli
angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità
delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo
di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico.
Francesco
*Si pubblica per gentile concessione l’introduzione a: Versi a Dio. Antologia
della poesia religiosa, Crocetti, 2024, a cura di A. Spadaro, N. Crocetti, D.
Brullo
L'articolo “Cari poeti… la parola letteraria è come una spina nel cuore”. Una
lettera di Papa Francesco proviene da Pangea.