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“Dell’amore che buca l’opacità del mondo”
La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio: scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite. Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore, la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel visibile. L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali, che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle tre essenze trinitarie. La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente, del reciproco amore. Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo dell’umana ferita. Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di inadeguatezza, pur adorante, grata. Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’, non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale. È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene vocazione. Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca. * Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave, dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/ e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il poeta schiude interiormente al sublime:  > “Io mi porto questo verde alle labbra – > questo vischioso giurare di foglie – > e questa terra che è spergiura: madre > di bucaneve, aceri, quercioli. > > Mi piego alle umili radici, e guarda > come divento insieme cieco e forte”[5]; di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza, rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e parola:  > “dura è la terra, secondo coscienza. > Rintraccerai a stento più puro ordito della > verità d’una tela di bucato. > > Si disfa come sale, nella botte, una stella; > più buia è l’acqua gelida, più pura > la morte, più salata la sventura, > ed è più onesta e paurosa la terra”[6]. Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo, dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della soverchiante plenitudine, non saper dire:  > “Superando la fissità della natura > il durazzurro occhio ne penetra la legge: > nella crosta terrestre impazzano le rocce, > dal petto sgorga un lamento minerale. > > E il sordo animalcolo si tende > come per una strada a corno ritorta, > per capire l’eccesso interno dello spazio, > del petalo pegno, e della cupola”[7]. La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta:  inerme alla volgare alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio, celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9]. Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi, dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato; così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti albori di neve, a recitare Dante e Petrarca. * La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave, avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:  > “A tu per tu, il gelo in volto io fisso; > lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla; > stirata, pieghettata, senza grinze, > respirante miracolo, pianura”[11]. Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale: disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma, segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio] dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità assoluta”[15] È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro, immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che, “come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza. È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura: inclinazione sofferta al mistero. * Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto: “Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e povertà, adorando.  Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma di devozione radicata nell’umiltà. * Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e sferzata dagli automatismi della necessità. L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo, a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni” della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati, fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza: > Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di > discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non > procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina, > non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per > infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa > avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre > sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è > pura, santa, semplice e vera. Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio, come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano. Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, – che dà nome al saggio, afferma: > Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo > che non la dilatazione del piccolo nell’immenso. Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle bolle”. Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità. L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida tensione alla salvezza: > In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze > sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno > si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22] In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino: > Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre > alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il > Salterio[23]. Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un assenso, obbedienza al presagio, all’elezione. Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco, ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo come sono, è una forza che spaventa”.[24] L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore legato che precludeva l’impossibile. Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto: cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven, timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità, nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa. Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26]. Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto, fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza: che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia, conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la chiamò a sé. Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’ scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé, ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28]. Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime: Io nulla Primizia del mio tempo Orlo del velo che copre la presenza Dal vivo occhio mi penetra Un raggio di pura luce Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo alla presenza Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Oso fiorir Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Che nascono nel cuore La notte se ne va Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Davanti a te Io nulla Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è, come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare. Isabella Bignozzi -------------------------------------------------------------------------------- [1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223 [2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56 [3] ibidem, p. 52 [4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi editore 2009, p. 5 [5] ibidem, p. 169 [6] ibidem, p. 85 [7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale, Adelphi Edizioni 2017, p. 43 [8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55 [9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45 [10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29 [11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155 [12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., pp. 38-41 [13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 39 [15] ibidem, p. 231 [16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C [17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012 [19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave Thibon, Edizioni Borla 2002 [20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989 [21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi Edizioni 1987, p. 45 [22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152 [23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114 [24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219 [25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1991 [26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119 [27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165 [28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice 1998, postfazione di Pavel Endokimov L'articolo “Dell’amore che buca l’opacità del mondo”  proviene da Pangea.
October 9, 2025 / Pangea
“Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine, è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard – con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi – Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –, spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti, l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava – agiva.  Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’, Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile, che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo, stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.  Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei, al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé), Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo, Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore – precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo, la caccia assoluta.  Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada, come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina introduttiva: > “Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con > l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma > questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste, > essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra > azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può > irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e > contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata. > Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare: > questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio > non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una > volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così > specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di > Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei > temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei > sentieri”. È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio, l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.  ***  Atharva-Veda Il Soffio Gloria al Soffio signore del mondo il mondo ha in lui la sua trave. Gloria al tuo ruggire alla tua stirpe di tuoni al tumulto dei fortunali alle piogge.  Gloria a te quando vieni quando vai                  quando ti issi                 quando posi. Il Soffio vive nelle creature come il padre vive nell’amore del figlio. Padrone di ciò che respira e di ciò che non respira più.  * Esuperio di Bayeux (IV secolo) All’imperatore  Signore, siamo tuoi soldati ma siamo gli schiavi di Dio. A te offriamo il servizio in armi a Lui è dedicata la nostra anima.  Il salario viene da te a Lui dobbiamo la vita. A te l’obbedienza, sempre a patto che non sia contro di Lui. Combattiamo i tuoi nemici solo se non sono innocenti. Ti siamo fedeli, sempre ma la nostra fede è in Dio. Se deludessimo Dio dovresti infamarci.  * Anonimo islandese La croce Croce vessillo di Cristo del suo supplizio tu squarci il cielo prepari all’uomo la casa della vita. Salvifica Croce pacifica inchiodate a te hai tenuto le sue braccia Il suo sangue ti ha fatto sbocciare nel Giudice. Sei la zattera degli amanti di Dio: li trasporti tra crimini  e fortunali al porto della vita.  * Anonimo latino Nel fuoco si rintana il sole, ma tu sei la luce indivisa che invade i nostri cuori con fervore. A te cantiamo all’alba imploriamo Te a sera: trasformaci negli astri che ti acclamano tra gli dèi. Inesauribile sia la gioia come sempre è stata al Padre e al Figlio e a te, Sacro Soffio.  * Jan Kochanowski (Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584) Il sonno Instilli l’idea della morte, sonno, ma ci fai desiderare la vita. Dai riposo a questo corpo terreno perché l’anima possa involarsi nei cieli. Il giorno si leva dal mare.  Lo splendore della neve e del gelo fanno sparire le ombre. I fuochi degli astri celesti cantano l’inno delle sfere.  Gioie innocenti dell’anima: il corpo dovrà morire accarezzalo mentre dorme.  * Fénelon (Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715) Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi, che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali spettri.  * Carl Jonas Love Almquist (Stoccolma, 1793 – Brema, 1866) Rosa Il nostro cuore è un pallido fiore.  L’ha piantato Dio e lo chiama rosa.  Le sue spine graffiano il cuore – e il cuore chiede: perché? Dio risponde:  il tuo sangue macchierà il fiore e tu sarai un po’ come me.  * Henri de Régnier (Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936) Il silenzio Forse il silenzio è una voce mutilata come quella del dio che tace nella statua e non serba più nulla di vivo se non l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse il silenzio è una voce che tutto sa come quella del dio che tace, eretto  nel marmo: il suo gesto è eterno  e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada. Loro osservano, dal basso, i silenziosi ordini di un dio pietrificato.  * Endre Ady (Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919) Non ha più ombre la mia anima: la luce di Dio le ha messe in fuga. Il suo volto è velato ma i suoi occhi bruciano e invadono il cuore.  Se vinco è perché lui mi precede e combatte per me. Mi scorta, e quando dice: Dove sei? il mio cuore scoppia. Eccolo, è dentro di me lo tengo tra le braccia siamo legati nella morte.  * Jules Supervielle (Montevideo, 1884 – Parigi, 1960) Pettegolezzi Appena sopra le nostre teste, gli dèi che ci dominano chiacchierano allungando il collo. Li sentiamo: pronunciano i nostri nomi come se fossimo già morti senza rispetto per tutta questa natura che si dispiega nell’enorme silenzio di cui siamo parte.  Ci giudicano, ci soppesano ignorano i dettagli urlano a tutti i nostri segreti poi, eccoli, più rigidi di una statua immobili e freddi come ponti di ferro sotto cui passiamo così nudi e inermi così disillusi, ma fieri perché dietro di noi rispendono ancora le montagne davanti a noi è ancora bello il mare.  * Abu Shadi (Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)  Foresta, autunno Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre? Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno? Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.  Gli uccelli piangono la tua morte: li hai protetti dai venti del nord.  Hai reso un deserto i sentieri del sole che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.  * Jean Follain  (Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971) Ladrone  Battono nel prato i cuori delle mucche: un uomo avanza perché vuole il loro latte – non ama, non odia e cammina sulla rugiada.  Il tempo si ferma solo per lui il sole è sulla vetta del cielo e quell’uomo può dormire può ripudiare l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità. Se passi da lì non ha senso urlare: Aspetta.  * Rutger Kopland (Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012) D D, ho descritto il tuo viso in una poesia come una grande assenza, l’ho paragonato a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno, il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi la riva era deserta. L’ho paragonato al vento: udii il respiro di un cane morto – in questa casa era così ingombrante il silenzio. L’ho paragonato a molto di più, D, a molte cose, più di quelle che ora ricordi, perché ora non trovo più quella poesia.  Non c’erano soltanto acqua o vento perché tu mi vedi quando non ti vedo  respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.  *In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo L'articolo “Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean proviene da Pangea.
October 4, 2025 / Pangea
“Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot, s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa, Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/ su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio), rivolta ai morti, a vivificarli.  * Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste. Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente – vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una specie di servizio della parola rivolto ai morti. Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia. * Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto alfabeto; come intendere quel puledro verbo?  Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci – cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete. Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.  L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare la schiena di Dio.  * Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso – le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire. Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.  > “Da questo luogo > sotto il grande sole > cominciò a camminare > Per tre giorni > egli va così. > Nella direzione davanti a lui > era un’isola-nube > tre grandi tende… > salì veloce sul palo > che sostiene le tende > salì nel cuore del fuoco > come coleottero di ferro”.  * Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.  * La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque: intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.  * Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu, va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano come pipistrelli, alla fine del poema.  Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti, da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia del rimpianto. Non più compimento, ma compianto. Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867 * Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?  A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.  A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.  Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.  * Parola vivente, parola vivanda.  * Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica, superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare la lingua fino a ossea ispirazione.  * Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.  > “Concedete che il defunto venga a voi, > lui che non ha peccato > che non ha mentito > che non ha commesso male > che non ha fatto alcun crimine > che non ha reso falsa testimonianza > che nulla ha fatto contro se stesso > ma che vive di verità > si nutre di verità. > Dovunque ha sparso la gioia. > Di ciò che ha fatto > gli uomini parlano e gioiscono gli dèi. > Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.  I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato, affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba” (Alonso M. Di Nola).  Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti. Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria, inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –, un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola d’oltreconfine.  * Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.  * La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci: > “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente > dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la > continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia > o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli > uccelli lo divorino.  > > Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza > nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima > creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e > lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova > vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e > trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità – > effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce > indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale. > Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è > dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra > dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.  Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.  > “Mentre sorge in me il Bardo della Vita > lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo > e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione, > della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento > con il dono di un corpo umano > svelando la vera natura dell’illusione > realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio > > Mentre sorge in me il Bardo del Sogno > spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza > concentrando la mente nel suo stato naturale > svelando la vera natura del sogno > senza sprofondare nel sonno dei bruti > mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione > portando questa pratica nel sonno”. Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.  * Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte apposta per la cerimonia; queste, ad esempio: > “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre, > come un seme, nel sepolcro > il fragile e corruttibile corpo > del nostro fratello (della nostra sorella) N., > con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta > il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile, > nella pienezza della sua gloria. > Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo: > Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù! > Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro, > trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza. > Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono > e promesso il paradiso, > avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella) > nel tuo abbraccio di misericordia e di vita. > Tu che sei stato spogliato delle tue vesti > e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba, > fa’ indossare la splendida veste della vita immortale > al nostro fratello (alla nostra sorella), > che viene a te nella nudità della morte”. * Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è il principio della caduta o un metodo per ascendere? * Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola che attecchisca ancora nell’aldilà.  * Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera. Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.  * Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel Corpus Domini: > “La tua mente illusoria rifiutala > se non ha altri argomenti che te: > e il tuo cuore, se non ha che i tuoi > lamenti. Non avvilirti > compassionandoti. Sii non schiavo di te, > ma il cuore di ciascun altro: annullati > per tornar vivo dove non sei > più di te, ma l’altro che di te si nutra, > distinguilo dal numeroso, > chiama ciascuno col suo nome”. È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere, corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la baldracca.  Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.  *** La sepoltura dei morti In piedi, tutti, intonano l’inno: Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore; chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà; chi vive e ha fede in me non morirà mai. So che il mio Redentore vive che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra; e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio; lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi non mi sarà estraneo. Perché nessuno vive per sé per sé nessuno muore. Quando viviamo, viviamo nel Signore quando moriamo, moriamo nel Signore. Nella vita e nella morte siamo del Signore.  Beati i morti che nel Signore muoiono; così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore. Per la sepoltura di un adulto:  O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.  Per la sepoltura di un bambino: O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli: donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.  Consacrazione della tomba Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno: O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino: benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.  Preghiera aggiuntiva:  Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro Signore. Amen.  Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.  O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi, te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole, religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo. Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.  Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer” *In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec. L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. 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September 6, 2025 / Pangea
“Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo, però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero) è perduto. Anche questo è un segno.  Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata, tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio – ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus, in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia” (così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha valore di levatrice dell’uovo.  Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo, inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro, Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la ‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.  Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e morte, ovvero tra poesia e preghiera). Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.  Leda e il cigno in uno studio di Leonardo Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46); secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno” è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022). Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito, nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).  Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono “abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei – come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse, di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni traducono come “gufo bianco”.  Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare, come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di Limoges nel IX secolo.  Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”, scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti – lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei manoscritti dal 1100 circa.  Il volto di Leda secondo Michelangelo Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine, finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re” di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata da Attar nel Verbo degli uccelli).  Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè: incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.  Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia. Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.  ** Planctus cygni  Lamentazione canterò – figli  dell’alato cigno che insigni acque attraversò – dirò  del suo rude ululare fu reliquia per lui terra di aridi fiori: del mare abissale andò in cerca  e piangeva: “Misera bestia sono – sola –  miseria è il mio nome inutili le ali splendore che gemma in piogge: onda  mi scassa tempesta mi attenta io sono l’esiliato mi serrano maree pari a montagne –  e piango perché morde morte abbondano pesci ma non so conficcarmi in quelle vertigini vergini per ucciderli  Oriente – Occidente plaghe dei Poli conferitemi  brillio di stella suffragio a Orione: che sfugga da queste nubi barbare”. Taceva l’uccello intaccato da tale pensare e giunse rossa l’aurora – il vento lo incoraggia riaccorda le ali esulta ora  si leva levata fatica  a becchettare  le stelle gioia  smisurata  lo penetra tra  i reami dei mari canta – ora – canto  pieno di carezze e attracca a terra ora: creature dei cieli alate bestie  cantate insieme gloria ammanti il grande re Regi magno Sit gloria *In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640 L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario proviene da Pangea.
September 2, 2025 / Pangea
“Cari poeti… la parola letteraria è come una spina nel cuore”. Una lettera di Papa Francesco
Cari poeti, so che avete fame di significato, e per questo riflettete anche su come la fede interroga la vita. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è uno strumento di tutto quello che è dentro di noi. Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto Dante, Dostoevskij e altri ancora.Devo anche ringraziare i miei studenti del Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, con i quali ho condiviso le mie letture quando ero giovane e insegnavo letteratura. Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte. Alla luce di questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune considerazioni sull’importanza del vostro servizio. La prima vorrei esprimerla così: voi siete occhi che guardano e che sognano. Non soltanto guardare, ma anche sognare. Una persona che ha perso la capacità di sognare manca di poesia, e la vita senza poesia non funziona. Noi esseri umani aneliamo a un mondo nuovo che probabilmente non vedremo appieno con i nostri occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo. Uno scrittore latinoamericano diceva che abbiamo due occhi: uno di carne e l’altro di vetro. Con quello di carne guardiamo ciò che vediamo, con quello di vetro guardiamo ciò che sogniamo. Poveri noi se smettiamo di sognare, poveri noi! L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte, e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. Il vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”. L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose. E in questo senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica. Essa possiede quella carica “rivoluzionaria”, che voi conoscete bene, ed esprimete grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida. Anche la Chiesa ha bisogno della vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare. Vorrei dire però una seconda cosa: voi siete anche la voce delle inquietudini umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante, perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà – come le chiamava Romano Guardini –, le quali richiedono sempre un linguaggio creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti. Per esempio, pensiamo a quando Dostoevskij nei Fratelli Karamazov racconta di un bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa di uno dei cani del padrone. Allora il padrone aizza tutti i cani contro il bambino. Lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati della madre. Questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda: parla della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri egoismi personali. Per citare soltanto un brano poetico che ci interpella. E non mi riferisco solamente alla critica sociale che c’è in quel brano. Parlo delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della contraddittorietà dell’esistenza. Ci sono cose nella vita che, a volte, non riusciamo neanche a comprendere o per le quali non troviamo le parole adeguate: questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre “debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante, l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda. È quello che vorrei chiedere oggi anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano. Questa opera permette allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti. Questo è il vostro lavoro di poeti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È un lavoro che può anche aiutarci a comprendere meglio Dio come grande «poeta» dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali, creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi. Dunque, occhi che sognano, voce delle inquietudini umane; e perciò voi avete anche una grande responsabilità. E qual è? È la terza cosa che vorrei dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione. Il vostro lavoro ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo. E oggi abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti. Io pure sento, vi confesso, il bisogno di poeti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico, di farci vedere Gesù, farcelo toccare, farcelo sentire immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la bellezza della sua promessa. La vostra opera ci può aiutare a guarire la nostra immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo mettendolo dentro una cornice e ad appendendolo al muro, significa distruggere la sua immagine. La sua promessa invece aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo nuovo la nostra vita, la nostra storia e il nostro futuro. E qui torno a ricordare un altro capolavoro di Dostoevskij, piccolo ma che ha dentro tutte queste cose: le “Memorie dal sottosuolo”. Lì dentro c’è tutta la grandezza dell’umanità e tutti i dolori dell’umanità, tutte le miserie, insieme. Questa è la strada. Cari poeti, grazie per il vostro servizio. Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale. Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico. Francesco  *Si pubblica per gentile concessione l’introduzione a: Versi a Dio. Antologia della poesia religiosa, Crocetti, 2024, a cura di A. Spadaro, N. Crocetti, D. Brullo L'articolo “Cari poeti… la parola letteraria è come una spina nel cuore”. Una lettera di Papa Francesco proviene da Pangea.
April 21, 2025 / Pangea