Caro Marco Maraldi,
le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto
carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che
dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone
Editore, 2025).
> “senza scendere non troverai nel temporale
> delle ustioni un’impronta solo tua”
>
> Tutto è morto
> qui – le galassie
> hanno preso anche la neve.
> Tutto è morto
> e insepolto tutto è
> morto perché non fa
> silenzio,
> qualcosa ancora tace.
> Sulle reni scucite il vestito
> batte piano
> il calendario di un’ascesa infinita.
> Non hanno trovato impronte
> nell’inverno della cenere.
Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita,
appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e
prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di
Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.
> “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro…
> la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non
> mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a…
> febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno
> per ammazzarci nella polvere”.
Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel
sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che
avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto,
temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…]
custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa
pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere,
investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra
l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta
significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio
è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato.
Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di
Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa
testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il
vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli),
ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata
dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce
offerta con slancio.
> “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di
> avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono
> brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci
> nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”.
Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro
che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe
di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima
che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che
nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui
che fa.
> “C’è una lingua che non vuol parlare,
> infatti vuole solo accadere”.
Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio
poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato.
All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo
Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra
parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il
prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare.
La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo
pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia
comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia
desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio
d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire:
finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla
porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del
discorso poetico.
Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare
d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad
alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare
contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo,
io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa
bellezza, tutta questa grazia!
> “Stelle del digiuno latte
> del firmamento, c’è
> l’ignoto a penetrare l’universo
> della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza
>
> sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un
> non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato
> riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso
> gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai
> avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici
> il flagello: questa è la carezza”.
P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché
senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega
il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che
“il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della
relazione. Splendido!
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931
L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a
Marco Maraldi proviene da Pangea.