È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e
René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un
convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan
avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un
legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza,
a parlare di Eraclito.
Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a
Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a
tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du
Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che
gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di
sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.
Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi,
spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una
devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro –
per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.
Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu
folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto
nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour
l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per
cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva
biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia
orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al
contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione
fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents
spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in
catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di
Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta
da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola
sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime
saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.
Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da
un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a
lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia,
di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de
l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di
Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava
delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione”
della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né
limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.
Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di
Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che
sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i
vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si
confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione
dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui:
Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata
beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e
ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.
Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il
titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra
diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de
l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per
le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che
s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento
segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte.
Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere
capaci nel fuoco.
In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia
ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria,
senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una
inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti.
Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene
con un’illuminazione:
> “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa
> ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che
> si inchinano”.
Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche
Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo
con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò
che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.
Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per
scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).
Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi,
la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria.
***
I privi di tutto
Chi nomini – cosa?
Nulla ha nome
il nome nomino.
Il mare non conosce
la tua musica – tu
ignori la sua
È l’albero
che freme al vento
o il vento
che freme nell’albero?
Chi si muove:
albero o vento?
Un corvo nero, aguzzo
nel giorno opale
artiglia l’opale.
Il brusio del torrente
se nessuno lo intende
è niente.
Non esiste brusio
non è che nulla.
Ma urla.
Il canto
del Nulla.
Predilige l’alba
che nel suo imbelle chiarore
tiene sotto chiave la notte.
Qualcosa viene
il solo che viene
e non viene
porzione del nostro oblio.
Il tempo avviene
infaticabile
continuo come il divenire
di ciò che viene.
Tutto è chiuso
e si conferma
nel centro della sua notte.
Tutto ciò che si spalanca
è ferita.
Il giorno non sfugge alla notte
né la notte al giorno:
ciò che esiste esiste
perché sia annientato.
Il nulla non è il terribile:
terribile è la lotta
nel giorno della sua apparizione
questa agonia che viene.
Cercò una parola
l’ultima parola.
Quella che metterà
fine a quel dire
inutile e infinito.
Soltanto una parola
ha tale potere.
Niente
non c’è da dire
su ciò che ci fa
parlare.
Dicembre 1974
*
Da La traccia
Destituire. Strappare.
Nulla se non l’aleatorio
eppure non è caos.
Quando perdi il filo
e insinuarsi non è più possibile
quando l’ostacolo è massiccio
compatto, continuo
allora tocchi il continuo
l’esattezza del continuo
continuamente.
Niente che possa vedere
niente – è indubbio. Niente
è lì se non lo vedo.
Fissa… cosa? L’istante? No.
La figura. Quella che appare e sparisce
nel volgere dell’istante.
Che rinvenga
che ritorni dissotterrato
il puro momento
che tutto miracolosamente
disfa – essendo sé
(nello splendore) e dunque
indistinto, fuso
nell’unità perenne…
Il cielo si copre.
Remissione, rapimento.
Nel grigio del mare:
il caglio del tempo.
Se viene, se è
è nel deviare. È come
decentrato e devi
sporgerti per raggiungerlo.
Nell’inatteso – di lato.
No, il sole in effetti
non si leva né cala.
Nel ritrarsi della traccia
appare, al di là di ogni
designare. Insignificante
apparenza: non è che
se stesso. Perde perfino
il nome.
L’uccello riceve la pioggia
nel becco, nel cranio tesi
verso ciò che precipita.
È pioggia? No: specie
di crollo, l’impalpabile
si effonde e affonda
un venire, un avvento
silente, dall’alto.
La pioggia, la pioggia…
Come la fine di una
distanza.
La gioia risaputa
non è più gioia
gioia non è – nulla
può essere identificato –
poi: identità comincia.
La pioggia cessa
all’improvviso
qualcuno la trattiene
è riottosa, reticente. Poi:
comincia a martellare
ricomincia, incerta…
Il tempo – cos’è il tempo?
Tutto è lo stesso ed è
immobile, ma mai
un precedente.
Nuvole: grigia
lega, lenta lana
che nega, assolve
la sera, svanisce.
**
Da Haiku
Ah… poter essere
un bambino
il primo giorno dell’anno
(Issa)
*
Mi sono voltato
ma l’uomo si era
già perso nella nebbia
(Shiki)
*
Sovrasta il mare
un sole ingabbiato
tra rovi di nebbia
(Buson)
*
Pioggia di primavera –
e ogni cosa
torna a splendere
(Chiyo-ni)
*
Nel più lungo giorno
muschio negli occhi
che fissano il mare
(Taigi)
*
Ignaro
del lignaggio del luogo
un uomo taglia l’erba
(Shiki)
*
Anche sulla legna
ammassata per il fuoco
nascono germogli
(Bonché)
*
Prima che l’ipomea
fiorisca, consumiamo
il pasto: siamo umani
(Basho)
*
Ho colto la peonia:
stasera mi coglie
una profonda nostalgia
(Hokushi)
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Heidegger e Celan proviene da Pangea.