Qualche giorno prima che fosse pubblicato uno dei più importanti romanzi
americani del Novecento, Il grande Gatsby, il 10 aprile 1925, il suo autore,
Francis Scott Fitzgerald, già famoso e intento a sperperare la sua vita e i suoi
guadagni in una sfrenatissima e alcolica mondanità, scrive da Capri una curiosa
lettera alla scrittrice Willa Cather: professandosi uno dei suoi più grandi
ammiratori, Fitzgerald si autodenuncia alla collega per un «caso di apparente
plagio» che gli era saltato agli occhi in una frase leggendo «con immensa
delizia» il suo romanzo, uscito due anni prima, Una signora perduta. Benché
abbia a lungo meditato di cancellarla dal proprio romanzo, Fitzgerald comunica
alla Cather che alla fine ha deciso di mantenere la frase incriminata, e per
provarle che si è trattato solo di una coincidenza e non di un «furto», allega
alla lettera due pagine del primo abbozzo del suo libro in uscita, scritte prima
della pubblicazione di Una signora perduta, cerchiando la frase (Cather, da
parte sua, risponderà al più giovane collega, con una rassicurante e amichevole
lettera che è anche un capolavoro di finezza). Ma chi era questa venerata
scrittrice che metteva in soggezione lo spavaldo Fitzgerald, protagonista dei
«roaring twenties»?
Nata in Virginia nel 1873 da una famiglia di origini irlandesi e alsaziane, e
cresciuta nel Nebraska, Cather è autrice di almeno due capolavori: La mia
Ántonia (1918) e, per l’appunto, Una signora perduta (1923).Ma va ricordato
anche, almeno, il trittico pubblicato dal 1925 al ’27: La casa del
professore, Il mio nemico mortale e La morte viene per l’arcivescovo; e quel
gioiello che è la raccolta di saggi Not Under Forty (tradotto da Adelphi con il
titolo La nipote di Flaubert). Fu amata anche da Truman Capote, che le dedicò il
suo ultimo scritto raccolto in Musica per camaleonti (dove racconta il suo
incontro, lui diciannovenne, in una gelida notte d’inverno a New York, con la
«blue-eyed lady», la donna dagli occhi che «erano l’azzurro pallido di una
prateria all’alba in una giornata limpida»), e dal poeta Wallace Stevens, che la
considerava la più grande di tutti, e dal critico Harold Bloom, per il quale
solo William Faulkner tra i suoi contemporanei le è superiore.
Cantora del tramonto dell’epopea del West e della dura vita dei pionieri
emigrati (boemi, francesi, tedeschi), è stata una discepola di Henry James, ma
lontana dalla scena sociale del suo maestro, che trasportò dai salotti europei
alle sterminate praterie del Nebraska. La potremmo definire una scrittrice del
rimpianto (rimpianto dell’amore perduto, soprattutto, ma anche di un’età
perduta, e dei luoghi, delle stagioni, dell’innocenza perdute), ma in questo
rimpianto non c’è nulla di sentimentale, piuttosto vi si trova la consapevolezza
dolorosa che la vita è sempre perdita secca, e che la sua unica fonte di
felicità può essere trovata nell’elegia di un passato irrimediabilmente andato.
In Italia di lei si sa e si legge ancora troppo poco: tradotta da diverse case
editrici (con un lungo intervallo di oblio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, e
una ripresa all’inizio del Duemila, grazie alle ristampe di Adelphi, Giano e
Neri Pozza), ma sempre in maniera occasionale e dispersiva, l’opera di Cather
meriterebbe un’attenzione maggiore, perché i suoi libri sono capaci di regalarci
una bellezza di rara intensità e una esemplare essenzialità stilistica (in un
suo celebre saggio, The Novel Démeublé, lei stessa teorizzò un romanzo sgombrato
da ogni inutile orpello e ripetizione, da ogni eccesso descrittivo o
psicologistico). Pochi scrittori, infatti, riescono come lei a farci percepire
l’effimera e struggente e crudele bellezza della vita. Basta leggere, per
capirlo, i due capolavori già citati, e in particolare La mia Ántonia, un
romanzo che può accompagnarci per una vita intera, essere letto e riletto con un
piacere sempre rinnovato. Lo ripropone adesso la casa editrice Feltrinelli
(nella collana Comete), nella nuova traduzione di Monica Pareschi e con
postfazione di Sara Antonelli, ed è decisamente un’occasione da non perdere, sia
per gli appassionati della scrittrice americana, sia per chi non l’ha mai
letta.
La mia Ántonia è una narrazione memoriale, affidata a Jim Burden, ragazzo orfano
della Virginia e amico d’infanzia che diventa il custode elegiaco della figura
di Ántonia Shimerda. La dimensione memoriale inserisce immediatamente il romanzo
nell’aura della perdita: ciò che leggiamo non è mai «la vita stessa», ma una
rievocazione già trasfigurata, un canto del tempo che scorre. Il cuore pulsante
del romanzo è lei, la boema Ántonia, che incarna la terra, la fatica, la
fertilità, ma anche l’irriducibilità della vita di fronte al desiderio
frustrato. Jim la ama e non la possiede; la contempla perdendola. Cather sceglie
di fare di lei una figura tellurica, in contrapposizione al narratore che è
spettatore colto, cittadino, destinato a un’altra vita. Il libro è, da questo
punto di vista, anche una riflessione sulla condizione dell’emigrazione e
sull’epopea americana vista dalla parte degli sradicati, non dei vincitori. La
struttura del romanzo, che dissolve la trama in senso tradizionale, è episodica,
fatta di quadri, di stagioni, di ritorni.
Nella scrittura di Cather, di una straordinaria sensibilità pittorica, il
paesaggio diventa protagonista, e ogni descrizione di un campo innevato, di una
mietitura o di un tramonto sulle praterie diventa immagine del destino umano.
Cather inventa una prosa che è allo stesso tempo precisa ed evocativa, capace di
essere concreta come un documento e sospesa come un ricordo. E in questo senso
la nuova traduzione di Monica Pareschi restituisce precisione e naturalezza alla
scrittura, ma anche l’elasticità delle frasi, il tono colloquiale, concreto e
insieme lirico (a volte nello stesso giro di frase) della voce narrante.
Il romanzo, come molti altri libri di Cather, è anche attraversato da un
erotismo sotterraneo: la forza vitale di Ántonia, la sua corporeità, hanno
un’intensità sensuale che Jim registra e sublima. Per un’autrice che non
dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, ma la visse in relazioni
durature e silenziose, questo gioco di allusioni e di traslati diventa cifra
stilistica: il desiderio resta non detto, ma impregna ogni pagina, ed è tanto
più pervasivo. C’è poi il tema del rimpianto, che fa di La mia Ántonia un libro
ancora profondamente moderno. Jim, adulto, rievoca l’adolescenza e sa che nulla
può tornare. L’elegia (che Bloom ha definito «virgiliana») diventa allora una
forma di resistenza etica: dire ciò che è stato per non lasciarlo dissolvere. In
questo senso Cather si mostra lontanissima dal sentimentalismo e vicinissima a
una sorta di stoicismo. Se in Ántonia c’è la forza della vita che resiste alla
perdita, e in Jim la coscienza che tutto è nostalgia, tra i due si apre quello
spazio che è il vero luogo della letteratura: l’impossibile riconciliazione tra
ciò che si vive e ciò che si ricorda.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Willa Cather, il suo triciclo, 1910 ca.
L'articolo Rileggiamo Willa Cather, venerabile scrittrice: ha trascinato Henry
James nel West… proviene da Pangea.