Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939,
non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una
vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych
sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S.
Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed
era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura
anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva
ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si
protrasse fino a notte.
Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa.
Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn
Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in
Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era
un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia,
poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito,
in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e
l’equivalente violenza – dell’Argentina.
La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima
di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle –
Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central
School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in
Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata
per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a
Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un
angelo interiore, spinato.
Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono
all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a
Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con
il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne.
Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che
ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i
crismi dell’isterica”.
L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio
di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva
un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un
ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte.
Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe,
di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in
Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e
una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La
Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava
diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che
“Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.
I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944
pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il
poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il
contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi
corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con
invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese
dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il
più bello –, rifà la Genesi:
> “All’inizio Dio non volle altro che se stesso.
> E questa immensa emissione di luce eruttava orrore
> attraverso i cieli senza aver nulla da fare.
> Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava.
> Sapeva la vita, e gli venne a noia”.
A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche.
La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da
un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso,
spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia –
tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le
“lacrime dei turisti”.
Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata
schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che
romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta
radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del
1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi
versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet.
Dylan Thomas aveva visto giusto.
I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono
dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita
la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness,
un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and
Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata
freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione
dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio.
***
Premonizione
Quando angoli di ferro blu e
grumi di erba rada, a grottesche
recedono furtivamente da qui
e lasciamo una moltitudine allo spazio
mentre crolla dal tuo sorgere
un saluto, accetto l’impercettibile
pallida notte, il suo volto ciclope
in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.
*
Non è stato facile
Mentre brilla la legna e brucia
abbiamo spartito la nostra frugale
felicità; mentre sulla grata, fredda, colava
la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli
della povertà; idioma dell’umiliazione
e del disastro. Non è stato facile.
Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta
sul quieto verde volto del pianeta.
*
L’ipnotista
Continuava a fissarmi, quella volpe
nel bosco – con un gesto di gioia
pitocca ho deriso la sua audacia:
e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.
*
Spina di sangue
C’è chi divora la piana fino alle anche della notte
chi slega gli uccelli al volo e dilaga
per leghe perché vuole vedere l’osso
del bisonte, fiero come una pietra,
c’è chi separa il mais e fa scempio
di questa luce sciroppo:
questa è la dura, mostruosa condizione
di chi nasce e piange in un’alba gialla
in un’alba gialla come il limone.
Un cuore rompe il ghiacciaio della notte
è lì e fa scoppiare un’aquila di carta
e c’è chi trascina il giorno in una cappa
di gioia di pianto di mania:
questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato
un bambino ci è nato.
*
Gabbiani
Planano lenti i gabbiani, senza paura
preferiscono perdersi come lacrime
di turisti: il molo e la nave cominciano
a muoversi e cominciamo
a piangere, così, senza motivo.
Gridano i gabbiani ricordando
l’oceano dell’incertezza
e la brutalità dei marinai, mere
mosche ai margini della nave.
I patti si stringono, si rompono
e il rimpianto ci muove immotivato:
lacrime crinite d’ira, cretine,
scavano solchi sulle guance.
*
Blu ellittico
È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo,
muggiscono, cercano cibo e sorvolano
l’acqua blu: allora penso alla neve.
Quando penso sono sola.
Penso al mare, alle sue immense onde
onde piene di occhi che dicono
alle onde, cercate i morti perché
i morti non sono davvero morti.
Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra
e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare
concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno
e scalpitano presso le stalle del cielo.
*
Madrigale verde
Vedi, il mio ospite è un albero:
cresce nonostante il dolore
le sfide e la difficoltà
di crescere.
È verde, è risoluto:
anche se respira angoscia
sprigiona pace, la pace della mente
e cresce e si muove
e cammina con verde tenerezza
lungo la terra:
cielo e sole sigillano il suo essere
come io vorrei fare con il tuo.
*
Coniglio accoppato
Sdraiato nel cristallino del crepuscolo
sono io il suo singolare difetto
e i suoi occhi, come stelle dimentiche,
si schiudono in una nebulosa distante anni luce.
Desiderano che il passato sia scuro come la notte
che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi.
Eppure so, per un sapere ancora arcano,
in qualche moto centrale del mio essere,
che tutto risorgerà, che tutto si volgerà
a me circondandomi, come gli anni luce
ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.
Lynette Roberts
L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette
Roberts proviene da Pangea.