Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici
dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra
– tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai.
E ciò che era preda, si svolge nel predatore.
Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono.
Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo
precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con
chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.
Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo
mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano,
sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione
fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa
bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel
veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà:
Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere
strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi
bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto
tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un
incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio
non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici,
e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e
divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i
nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo.
Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il
senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.
Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito
dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui,
Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la
poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo
spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di
alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di
questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia
all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo:
un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della
colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette
radice.
Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo
Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i
punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama
parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di
curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si
ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo.
Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero,
attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in
fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una
indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la
rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio,
una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è
patria di ululati, di ungulati in schiera.
A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la
figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura
simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di
terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i
veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più
porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete.
L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca
circostanza della caccia.
Perché Vipera? Chi è vipera?
Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il
sole bacia i rettili.
L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me
suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che
cambia). Un’immagine così forte è protezione.
Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta
ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi
piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità
di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono.
Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di
disastro? Che un nome esista per annientamento?
Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero,
inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande
passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho
scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una
postura diversa dal quotidiano.
Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce?
Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui
legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.
Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai
rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna
di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole
consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso
al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia.
Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato,
mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che
lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo
titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che
anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di
formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio
sull’omogeneità di un album musicale.
Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così
è sorta questa immagine.
Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?
La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un
evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a
figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che
scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche
incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel
negativo e nel suo opposto. Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un
luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata.
Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale
dell’oro”.
A.A.! Le Momo!
Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al
restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni
degli eventi.
“Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale
dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra
materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta,
che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella”
nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere
raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela
metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere
condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che
coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente.
In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i
Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai
della ‘cultura’?
Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno
guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di
formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca,
non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato
di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una
metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In
particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare
voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia
Ruggeri.
Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a
come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo
simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di
citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.
Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata
nella cosa detta cuore.
Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo
specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i
lineamenti, i modi.
Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…”
da Documento di Amelia Rosselli.
Esiste l’anima? Che cos’è?
A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto
pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.
Cosa c’è dopo la morte?
La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio.
Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede?
No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio.
La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato
simile alla fede, acceso e sincero.
Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi?
Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La
creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco.
Esseri leggeri, esseri record in velocità.
Stai scrivendo – cosa?
Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in
parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un
album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla.
Saranno sistemi elettrici, arteriosi.
Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice,
Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album,
versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl,
etichetta bolognese di spoken music.
**
I.Teatro Cava / Ferina
Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati
come per prepararmi all’ammutinamento
senza sapere da che parte sto
senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave.
Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo
dove mi hanno promesso che ti potrò assalire
la tana è profonda.
*
ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho
puntato il dito
per caso
di nuovo
contro di te
II.
C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a
un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono.
Descrivere è implicito capire.
Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel
disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole:
sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.
*
III. Reset
aspetto finché non cala
aspetto finché non cade
aspetto finché non cedo
finché non cala
finché non cedo
fino alla fine del fiato
al tuo tempo diverso – più veloce
a un certo punto coincide:
arrivo a parlarti per davvero
umidità tocca corrente.
Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre
Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali
telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più
servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato
lavoro.
I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno
lungo un nastro.
Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro.
Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni:
pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono
e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non
chiedere agli arti di tenerti.
La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo,
personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per
equivalerlo.
Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si
accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da
piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove
tra un po’ lo scoglio cederà.
Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì
sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il
naso e dici che da allora respiri meglio.
Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,
cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo?
Cosa corro a fare?
Aspetto
finché non cado,
fino alla fine del fiato,
al tuo tempo diverso, più veloce.
*In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla
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