Diciamo, il caso – coi suoi mille occhi sul cranio – occhi-spina, occhi-ago.
Da transfuga, da una biblioteca, sboccia, come il fiore di una
post-primavera, un libro di Giancarlo Majorino, il poeta. Il libro
s’intitola Testi sparsi, è stato stampato nel 1988 da Prova d’Autore, editore
con sede a Catania; costa 10mila lire. Nella lettera che accompagna il libro –
donatomi da chissà chi, rubato a chissà chi – si dice che Majorino è “poeta tra
i più significativi della generazione succeduta a Montale e Sereni”. La collana,
diretta da Maurizio Cucchi, aveva già pubblicato Antonio Porta (L’aria della
fine) e Gregorio Scalise (Gli artisti); Majorino, quell’anno, ne compiva
sessanta: è nato a Milano nell’aprile del ’28. Aveva esordito alla poesia poco
più che trentenne, nel 1959, con La capitale del Nord, poemetto – ricorda
l’autore – che ebbe “un insuccesso clamoroso”. Dissero – sul “Borghese” – di
“filastrocche idiote e stantie da mentecatto in vena di furberie” (frase così
bella che forse Majorino se l’è cucita al petto da sé, se l’è scritta per sé, a
movimentare un monito). Piacque a Franco Fortini, tuttavia, che inviò il libro a
Pasolini dichiarando La capitale del Nord “di tale Giancarlo Majorino”, un
“racconto neopopulista neofuturista in versi, genere Pagliarani ma forse
superiore”. Pasolini ignorò il libro; Pagliarani scrisse – su “L’Avanti” – di
“una prova con carte in regola” e di una “scuola di Milano”.
Ne ricordo alcune lasse, come questa, belle:
> “se fedele dev’essere il poeta
> al tempo scriveremo di partenze
> frenate di ricorsi in cassazione
> di lenze che catturano usignoli
> gettati in acqua ritornati pesci
> con versi che la biro dell’ufficio
> (la marca della ditta l’attraversa)
> la vespa delle ferie la ragazza
> di tutti e rabbia/amore detteranno”.
L’ultimo libro di Majorino – La gioia di vivere, Mondadori, 2018 – ne descrive
l’indole: la possibilità, coi versi, di dire tutto, il tutto, la rapace
giovialità di stare all’erta del vivente, in continuo agguato. Eterna giovinezza
del linguaggio, mai tenuto tra cinghie, brado nel suo andare. Un verso di quel
libro – non il più bello di Majorino – dice: “scrivendo mi sento ogni volta
portato in salvo”; l’ultimo è un saluto, “a presto”. Majorino morirà poco dopo,
nel maggio del 2021. Da allora, tutto, editorialmente, tace: interrato un poeta,
chi lo ricorda più?
Sul “Giornale”, il giorno della morte, scrissi alcune cose intorno a Majorino.
Le ricalco.
“L’hanno frainteso tutti, lui ne sorrideva, gli piaceva essere un rebus.
Milanese, nato nel 1928, Giancarlo Majorino è stato intruppato a forza nella
«linea lombarda», categoria critica criptica come poche, a cui apparteneva per
accidente topografico più che estetico. Nella fatidica antologia Poeti italiani
del secondo Novecento, architettata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi per
Mondadori, è installato in un hangar, «L’etica del quotidiano», che non vuol dir
nulla, tra due poeti, Giovanni Raboni e Giampiero Neri, diversamente eccezionali
e affatto diversi da lui. Il fatto è che Majorino, poeta inafferrabile, dedito
agli eccessi lirici, è stato, forse, l’ultimo epico nel nostro canone
sbrindellato; più prossimo a Ezra Pound che a Elio Pagliarani (a cui lo
avvicinarono, per quel libro d’esordio, La capitale del Nord, edito da Schwarz
nel 1959), nell’orbita di Dino Campana più che in quella di Raboni (più giovane
di lui, per altro). Aveva la faccia sfilettata da un falò, pareva una torcia,
come quella sua poesia, magnetica, raccolta in Prossimamente (Mondadori, 2004),
titolo pessimo per un libro bellissimo: «era una torcia grandiosa stupenda a
vedersi/ impressionava quel colpo da urto in qualcosa/ che prima e adesso
subitaneo ancora/ dilatavasi in furibonda eco/ e già una parte del cielo si
listava di nero». Era istrionico, ironico, sagace, coltivava l’arte del
neologismo: in questo Paese di poeti operai, di lirici col tubino, sapeva
turbare. Dal 1969 s’era messo a erigere un poema: estroso, proteiforme,
inaudito, ovviamente dantesco. Suddiviso in 21 libri per 131 canti con
l’aggiunta di un vasto Paradiso nervoso, fu pubblicato da Mondadori nel 2008
come Viaggio nella presenza del tempo. La quarta era tonante: «Questo
straordinario poema, scritto dal 1969 al 2007, è sicuramente uno degli eventi di
maggior rilievo della nostra poesia contemporanea». Tanto straordinario da
essere pressoché introvabile nei circuiti librari. Nel poema Majorino convoglia
la Milano allucinata, l’ordinaria ordalia dell’uomo, in una lingua che ha il
coraggio di essere vasta, ambigua, con mille vipere dentro («crani animaleschi
vengono su/ si tratta di nettarli, ordinarli e/ ficcarli sotto, tramutati a
spingere»). Aveva il lucore bronzeo del grande poema americano – Paterson di
William Carlos Williams, ad esempio –, era in sintonia con le folgoranti visioni
di Philip K. Dick (nato nel suo stesso anno), ha anticipato il caos Antonio
Moresco. Dietro la posa aristocratica, le volute arcane, Giancarlo Majorino
nascondeva un coyote, lo sciacallo della sera evocato nei testi sacri. Aveva
fondato la Casa della Poesia di Milano nel 2005, ne era il presidente.
Le opere grandi non lo intimorivano, ha scritto molto, perché per lui la poesia
era una pratica, un’arte marziale più che la vendemmia dell’ego: sempre per
Mondadori, nel 2015 pubblica Torme di tutto, nel 2018 La gioia di vivere. Il
meglio l’aveva già germinato, questo poeta epico in un paese anti-epico, vecchio
da sempre per eccesso di candore («è nato e vive a Milano da quaranta milioni di
minuti circa», scrive in una sua biografia), che definiva la donna «bella nave
di carne, fiordo irresistibile crescente incendio» e la nostra «l’epoca del
gremito/ un insieme roboante e misterioso», fitto, tuttavia, di rivelazioni
«quali stracci di luce». Molti anni fa lo conobbi grazie a Federico Italiano, un
grande poeta che di quel poeta magnificava le gesta linguistiche. Majorino mi
afferrò il braccio. Aveva lo sguardo innocente e stravolto. Mi parve di vedere
Ezechiele, il profeta delle ossa che risorgono. Era un uomo gentile”.
In una lunga intervista concessa a Barbara Pietroni, Majorino ha detto, tra
l’altro, che
> “Ai giovani poeti dico sempre una cosa, che sembra solo una battuta, ma è in
> realtà una cosa più seria: che i poeti devono fin dall’inizio fare un altro
> lavoro per vivere. Sono un po’ gli unici, nel senso che bene o male il pittore
> può sempre sperare ad un certo punto di vendere le opere e così anche il
> musicista, lo scultore, l’architetto, ecc. Questa battuta fa loro digrignare i
> denti. Ma c’è un lato positivo, dietro a quello negativo. Alla lunga infatti
> uno in poesia scrive ciò che davvero sente, ciò che davvero giudica
> necessario. Cioè è uno dei pochi ambiti, forse privilegiato anche rispetto
> agli altri ambiti, in cui davvero uno ha la possibilità in assoluta libertà di
> esprimersi e di esprimere, non solo per sé. Questa è una cosa enorme. Quando
> poi uno ha fatto esperienza di vari lavori, sa la differenza che c’è tra fare
> un lavoro tanto per e fare un vero lavoro legato a sé, intimamente proprio,
> diciamo”.
Si dichiarava “naturalmente di sinistra”, rifiutandosi però di aderire ad alcun
partito perché – così scrive in Equilibrio in pezzi, era il 1971 – “i partiti
ormai sono partiti/ dalla gente per sempre”. Veniva da un tempo in cui
deragliare il linguaggio era la norma, in cui si era transfuga dal verbo: si
osava sperimentare un altro modo di esistere, di nominare. Oggi, una specie di
neopuritanesimo letterario – bisogna: capire, capire, capire; bisogna: essere
semplici; bisogna: arrivare alla semplicità dei santi (cioè: dei tonti); ovvero:
bisogna vendere, vendere, vendere – atrofizza il verso in uncinetto quando non
in avanguardismo fine a se stesso, stola lirica come le madame di Boldini. In
sintesi: poesia in passarella, poesia da poseur.
Nel 1965 s’inventò – a dire dell’orizzonte della poetica, sconfinato – una
“rivista autogestita”, Il Corpo, che esiste ancora. Dicono abbia “influenzato in
modo duraturo una generazione” (così leggo dal nuovo ciclo di pubblicazioni).
Ideata a Milano, stampata a Vicenza, diretta da Majorino, raggruppava filologi
(Giorgio Dolfini), pensatori (Luciano Amodio), psicanalisti (Elvio Fachinelli),
scrittori (Carlo Villa), storici (Sergio Caprioglio, curatore delle Lettere dal
carcere di Gramsci per Einaudi), con il chiaro intento
di indisciplinare le discipline. Furono pubblicate poesie di Giampiero Neri,
Giovanni Giudici e Roberto Roversi. In un numero fu tradotto un saggio di Roman
Jakobson su Baudelaire, in un altro un saggio di Boris M. Ejchenbaum
sul Cappotto di Gogol’, in un altro ancora un pensiero di Jurij Tynjanov su
Velimir Chlebnikov. Il numero 4 (Giugno 1966) è aperto da un saggio di Majorino
sui lacerti, i diari e “le prescritture” di Kafka; s’intitola Miniera Kafka. Il
saggio è scandito da pensieri critici e da pensieri intimi; ne estrapolo uno,
per dire che sessant’anni fa è ora:
> “…la lettura è più superficiale e più vasta che un tempo; si legge in fretta,
> per essere informati e per liberarsi, passare ad altro, essere disponibili ad
> altro, alle possibilità; più che gli argomenti contano il tono complessivo, la
> figura dell’autore, il tipo di libro; insomma una serie di segnali attinenti.
> Forse il modo superficiale, giornalistico, visualizzato di leggere è connesso
> alla fatica di vivere e ne discende, per chi scrive, un modo nuovo, più
> affaticato e tentato alla fuga dalla fatica? a maggior ragione, se questa è
> l’unica vita! e già, mentre scrivevo, ore 11,20, cinque minuti, 11,25, gli
> unici del 19-5-66 unico che esista, che ho, sono spariti. In questo senso, nel
> violento tumulto del ’900 e per tutto l’Occidente luccicante, governano
> le possibilità, producendo fatica di vivere e fatica di scrivere sulla
> piattaforma di leggi ferocemente naturali di sopraffazione economica; siamo
> dunque in mezzo alle false sirene (ma, per quelle sirene, berlinesi saltano
> sul muro, strisciano sotto il muro, foracchiati da proiettili, compressi in
> portabagagli passano…)”.
La varietà della ricerca, forse, conta più della verità, in Majorino, parola
sbalorditiva, ben poco infallibile, per cui ci si bombarda. Il regno del
possibile, oggi, è stato sostituito dall’impossibile a portata di mano, di
click. Credo coltivasse un genio ironico, Majorino, credo che fosse un po’
Achille e un po’ Baldus: l’idea del “poema” scritto per oltre trent’anni, ogni
mattina, dall’“astronave” della scrivania ha qualcosa di corroborante e di
corsivo. Un’accoglienza che strangola.
Credo che Majorino – piacciano o meno le sue poesie è secondario – faccia paura:
è la regalità di chi crea; cioè, di chi distrugge. Ciò che ora è qui, tra un
attimo potrà non esserci. Non c’è alcun raggiungimento e nessun raggiro, ma un
irradiare. Si occupa con palafitte un abbandono.
La copertina di Testi sparsi reca un disegno di Majorino: un uomo nudo, adunco
il volto, criniera longobarda, chino, forse, a divorare costellazioni. Penetrare
nel corpo del mondo, nella sua gloriosa viltà. Il poeta, il sommo moribondo.
Ricalco alcuni sparsi testi:
6
L’entusiasmo che saliva come acqua iridescente a sprazzi
scrivevo scoglio lucidato e fresco, sempre rinnovato
sale e scende, so, e so che non si tratta di entusiasmo soltanto
l’opera il veliero bianco è là nel cielo
scuro può sparire ritornare
se il vento e la fortuna
aiutano può
abitare l’orizzonte per sempre farsi ammirare
*
7
I miei lirici sogni senza pudore ti svolazzano
snocciolando le rosee piante dei piedi sulla matassa
fremendo ti richiudi
rannicchiata nel letto, occhi scuri, grande sguardo
quasi aspettando, non so, fermo i miei pupi,
quasi un’offesa
*
8
Li senti come urlano?
Solo tu li senti.
È impressionante. È l’aria. Serbatoio.
Ma se stanno bene.
Dei muti. Li urla l’aria.
Sinora muti o parlati da mascherati.
*
24
Il prorompere e la custodia
nelle loro scure obbligazioni
gli atti quotidiani corti e mossi
sarà, penso a quanti mi hanno formato
a quanta carne mi tocca ancora
*
37
dormono presto i pupi,
bimbi e proletari,
onde rialzarsi mattinieri e andare
a lavorare freschi
ossia ricaricati
farsi flagellare
*
38
ma come parlottano
le camere sul sangue?
rovistanti teschi
lacerati oggetti
i denti con le carni
il riciclare orribile
sotto amministrazione?
il boato di quel silenzio ancora
m’impedisce di accettare i Tedeschi
*
42
mi vedi ti ho visto
ma se m’inceppo il segno
il sogno è che diadema
duri eterno tu stupendo aprirsi
niente si può lasciare così com’è
morirebbe altrimenti
Giancarlo Majorino
*In copertina: Giancarlo Majorino ritratto da Dino Ignani
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Giancarlo Majorino proviene da Pangea.