Si nutre di nutrie, la poesia – a Roma. Spasmi e miasmi della Storia. Capitale –
ne rimastica la toponomastica. Solca le arterie dell’Olocene – fra rio e rioni.
Croci e crocifere – ai pellegrini falchi, falcia le vie. La poesia, a Roma – fa
olocausti di busti. Fino all’ora dei pasti. Non consola i consoli, il poeta –
mira all’obelisco, più che all’ombelico. Incolonna rime plastiche – fra colonne
ecclesiastiche. Caustica – lastrica terrazze e piazze. A Roma – la poesia.
*
Batte un motivo beat, di notte, la civetta – a Villa Borghese. Squittisce versi
– all’artista fa il verso.
Musa rapace, mai civettuola – gentrifica fronde, germina poeti. Pare sgorgato
dall’ala piumata, Edoardo Piazza. Spiuma versi fra spume tiberine – livide,
vivide. Eterna nella città eterna un fremito d’oltreoceano – lo fa capitolare,
capitolino.
“Il caffè di Big Sur/ lo bevi con le statue romane” – non con Jack Kerouac.
Americanismo, a Roma, volge in casto situazionismo.
*
Poeta o oracolo – la Bocca rivela Verità. Nell’Urbe – dove “soffocare era
l’adagio impervio del sopravvivere urbano”. Piazza è cicerone di un On the
Road romano, padrino dei “poeti che non vanno in ufficio” – piuttosto, in
categorica Cadillac. Metafisica civica e antilirica efferatezza – riecheggia,
nel verso roman-beat, il codice fraseologico, fra smaliziata miseria e laica
mondanità, di Valentino Zeichen. “Si nasce barbari/ e si finisce romani”,
appuntava il poeta istriano-romano nel suo diario 1999. Marciapiedi dionisiaci e
vernissage presi d’assalto dai senzatetto, maestri zen col fischietto e
barbagianni new age – la poesia di Piazza, coast to coast fra le mura, romantica
romanità, si compie prima della compieta, nell’empireo di un pomeriggio a Roma.
*
Santificare il beat è qui sanificare – risanare il linguaggio. Poeta del suo
tempo, di un tempo non suo Piazza usucapisce il palpito – lo muta in battito
d’ali, apache in pillole metropolitane. Rievoca la cronaca diurnale, a
codificare il reale, di Frank O’Hara – padre del ‘personismo’, che batté i beat
col disimpegno. Flâneur nella grandeur, fra cives e civette, la poesia di
Edoardo Piazza, a Roma centro traccia il suo epicentro. Città colossale – il
Colosseo con l’aria condizionata, la corrida degli autobus, gli amici volati
come foulard. Città che più della civiltà – un quarto di nobiltà agogna. Roma –
poesia e gogna.
*
Batte un motivo beat, la civetta, notturna jam session – Roman Beat Generation.
Fabrizia Sabbatini
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La civetta di Keith
La civetta di Keith respiracanti e metropolitanesta appesa a una strofa su
foglio di cartacerta e non morta vigila su Spartae sul traffico moderno.Adora
l’incanto di adorno bosco che sarà mobilequando la costellazione vireràal tempo
dei furgoni.Mano proverà a trattarla e le consentiràil volo
binocolare e astuto –nella dolce corazza di piume –sul fiume astuto occipitale
e sulle Esperidi di cemento arboreo.
*
Il vernissage
C’era quel vernissage della mostra che
fu preso d’assalto dai senzatetto
tramezzini panini e via scorrendo
Roma e Milano un’alfa
gli smottamenti del sangue malsano
le intercapedini
Roma e Milano omega
oggi il cielo è una virgola
cin-cin colloquiale
sul sofà dell’emozione
tutti dovrebbero avere del cemento
ripararsi e l’umidità
una lamiera in frigo nel panino.
«Sono quello sfigato quello nascosto,
nel bosco qualcuno ti ha dato soldi per qualcosa?
Mi fa piacere
i poeti non vanno in ufficio
non apparecchiano il prodotto
quel sano male di città.
Piazza Navona era muta di scabbia
e ti ricordi i primi reading di Patti Smith?».
*
Civetta numero due
La cremagliera sottrae il larice alla sua fosforica funzione
di fissità.
I déracinés di Venezia li ha già cantati Ferlinghetti.
Non era Truman Capote quel busto al Gianicolo.
Il cane letargico fotografa il palazzo azzurro.
Il cane rosa schizza sul palazzo acre.
Nero occitano quel Fabergé carboncino.
Reticolo-reticolo.
Civetta numero due-canto numero tre o quattro…
Però canta bene.
*
Il tacchino di Big Sur
Non potrai adire al re retribuito
con stoffe pregiate demandate all’utilitarismo.
Non potrai adire alle carni smerciate
agli ossi alle corolle dei fiori.
Ai sentieri ai segmenti alle uccisioni ai cuori.
Lapidarie le stufe del passato
il carteggio il conteggio
delle settimane, l’uomo operoso: la civiltà industriosa.
Non potrai adire all’egocentrismo,
tutto è fallace non esistono scelte giuste.
Bisogna alleggerire adattarsi a morire
arriverà
il mare
il capitano fra la schiuma
le tracce di un alano nella corrida.
Epaminonda il re,
la palude dei rami pianti dopo il sereno
un turgido seno.
Non potrai dire al re
di essere retribuito
non sei una fotocopiatrice
un fermacarte
un apostrofo un attache.
Il mio linguaggio dei segni è quello di certi uccelli
quelli che volano nella canzone di Battiato
nell’agguato dell’azzurro tanto descritto e mai afferrato.
Il caffè di Big Sur
lo bevi con le statue romane.
La materia grigia è come il papiro
come i riflessi delle virtù integrali
come i genitali.
Le formiche, le parentesi degli opossum
la consunzione dei paradossi
le lacrime della Madonna.
Sei capace a vivere?
Oggi cosa hai mangiato?
Tutto è come una tapparella che s’alza e abbassa,
come impronte di ciabattine:
il faro del giardino di pietra,
l’empireo di un pomeriggio di Roma.
Edoardo Piazza
*Le poesie di Edoardo Piazza sono tratte dalla sua ultima raccolta – “Civette e
container” (Ensemble, 2025).
In copertina: Andrew Wyeth, “Brick House, Study for Tenant Farmer”, 1961
L'articolo “I poeti non vanno in ufficio”. Intorno alla Roman Beat Generation
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