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Jane Kenyon o della mistica domestica
Per il suo funerale scelse il salmo 139 – “tenebra mi annulla/ la notte è luce su di me”. L’amico Liam Rector, postura plastica da poeta, declamò i versi di Let Evening Come e Otherwise. Il celebrante accordò, a cappella, le note di Amazing Grace.  Aveva già opzionato il suo loculo, Jane Kenyon. Quindici anni prima, insieme al marito Donald Hall, in una terra siglata da cespi di betulle e granitiche querce del New Hampshire. L’acquisto officiò il matrimonio della coppia con il luogo – l’amena cittadina di Wilmot. Nell’avita tenuta di ‘Don’ – ove Jane giunse, si congiunse alle donne che ne avevano albergato le stanze.  * Si erano sposati per affetto, dunque per difetto, nel 1972. Accademico, il fato, con seducente banalità, dirottò la Kenyon, studentessa, presso il seminario di scrittura creativa di Hall all’Università del Michigan. Non emerse per talento, non affiorò per avvenenza. In dote, gli recò, imberbe, i suoi versi acerbi. Lui era reduce dall’unione con la prima moglie, Kirby Thompson – corredata di due figli –, la Kenyon da una liaison imbozzolata nella gioventù.  Condivisero l’amore per la poesia, una carnalità consueta e i gatti. Scarsamente appassionati, si amarono per conforto. Fu un legame di miti vertigini.  Alle nozze intervennero i parenti stretti. Jane non riportò memorie scritte di quel giorno. Unico sigillo, a testimonianza, il regalo di sua nonna Dora – una copia rilegata in pelle bianca della Bibbia di Re Giacomo.   Consacrazione di un epilogo, per il ventiduesimo anniversario Hall le donò un anello di tormalina rosa serrato da nove minuti diamanti. Lei lo battezzò “Please, don’t die”. La leucemia stillava piena egemonia. Jane Kenyon aveva appena intessuto le sue poesie più fauste. Morì un anno dopo, il 22 aprile 1995. Aveva quarantasette anni.  * Coronata d’alloro al tempo stesso – fu Poeta laureato del New Hampshire – se ne andò insignita di lirica reputazione. Dunque, in pace. Mal tollerò l’opprimente veste di poeta moglie di un poeta e avrebbe disprezzato postumi riscatti femminei alla Sylvia Plath. Pure, credette di abdicare alla vita. Ma preferì morire da poeta, che da suicida.  > «La mia fede in Dio, soprattutto l’idea che un credente è parte del corpo di > Cristo, mi ha impedito di farmi del male. […] Quando ho sofferto talmente > tanto da desiderare di non essere viva o cosciente… mi sono detta: “Se ti > ferisci, ferisci il corpo di Cristo, e Cristo è già stato ferito abbastanza”». * Oppressa dalla depressione – bipolare al focolare – generò Having It Out with Melancholy, versi afflitti d’atrabile e farmacologica soggezione. In epigrafe s’appellava a Čechov, suo mentore insieme a Keats. Depressione e poesia – come patogeno endogeno.  A stringare il morbo nel verbo, le scarne righe di Suggestion from a Friend – “Non saresti così depresso/ se davvero credessi in Dio”.  Rigettò ogni visione romantico-terapeutica del rapporto fra malattia e scrittura. Piuttosto, se ne avvalse per scopo clinico, cinico – la poesia per aumentare la comprensione della patologia. Pare prossima, di spirito e d’intenti, a Margiad Evans – autrice che sguainò la poesia contro l’epilessia. Rifiutò, dunque, di recitare il melodramma – promosso da certe poetesse – della rosea invasata, dell’artista rosa dalla follia.  * Votato a una mistica domestica – mai addomesticato – il suo verso divora nella dimora. Visuale, aurale, a scorporare dal corpo, mistico sito, il rito del poetare – irrompe lo Spirito Santo. Errante presenza – di stanza in stanza.  Jane Kenyon è poesia-annunciazione, poesia-apparizione, poesia-redentiva. Gregory Orr velatamente l’annoverò fra i poeti post-confessionali – la poesia autobiografica come bianca arma di sopravvivenza e riconciliazione col mondo. Di trasformazione – l’uso della lingua a emendare l’esperienza. Era disposta a capitolare, per non ricapitolare – in versi – la vita.  *  Madrina dell’anti-canone delle Plath e delle Sexton, Jane Kenyon – fanatica della mistica – si consacrò a Teresa D’Avila, Giuliana di Norwich. Quindi a Emily Dickinson ed Elizabeth Bishop – dai meandri del New England le condusse fino ai setosi dedali della Cina, con una sequela di letterarie lectures, salmodiando sulla loro opera. Nel 1979, alla cerimonia commemorativa della Bishop, franò nella commozione – ne ammirava il verso scarno, preciso, il linguaggio pressato. Beneficiò spesso del paragone con la Dickinson – la ricerca di Dio, della solitudine nella natura, il mistero della bellezza, il diafano legame fra depressione e gioia.  Fu, anzitutto, devota ad Anna Achmatova. Tradusse la russa con altera premessa – giudicando insoddisfacenti le rare versioni in circolazione, decretò di confezionare la propria.  Il marito, Hall, ammantato di un radicalismo poetico virato allo snobismo più estremo – nel 2006 nominato Poeta laureato degli Stati Uniti –, fu d’opposto avviso. Pur avendo costeggiato e corteggiato svariati generi della parola, prestò somma fedeltà al suo originale suono – in mancanza, riteneva inafferrabili le connessioni interne alla poesia. D’indole diversamente tirannica, entrambi rigettarono la traduzione come pratica ordinaria, grigio esercizio, servizio.     Il poeta Hayden Carruth qualificò la Kenyon quale Achmatova americana. Arduo immaginare due esistenze più dissimili. Contemplativa e apolitica, la poesia della Kenyon si nutrì nondimeno dello slancio slavo – s’apparentarono gli spiriti.   Della Venere di Odessa venerò la lirica succinta, la supremazia, imperiale, dell’immagine a scapito del simbolo – le sei poesie inizialmente tradotte furono incluse nella sua prima raccolta, From Room to Room (1978); confluite poi in Twenty Poems of Anna Akhmatova (Ally Press, 1985). * Lirismo tangibile, quello di Jane Kenyon. Mirava a una verità d’opale, epifania privata compressa nell’attimo. Digiuna di orpelli, scrittura prossima alle Scritture, ellittica, irrisolta, come l’onnipresente rimando al mondo naturale.  Il poeta Robert Hass la paragonò, per temi pastorali e cupe meditazioni, a Robert Frost – che pure aveva conosciuto suo marito anni prima – ma con uno sguardo più interiore.  All’immaginario imagista si appellò invece per non scivolare nell’astrazione – la poesia di Ezra Pound come monito e monile.  * Il giornalista Bill Moyer, nel 1993, effigiò Jane Kenyon e Donald Hall in un documentario – A Life Together – vincitore di un Emmy Award. Proiezione routinaria di un matrimonio fra poeti dominato da una viscosa discepolanza, sfociata in rivalità lirica. “È dannatamente duro con la mia prosa. Sarcastico. Quando parliamo di poesia, so di trovarmi su un terreno più solido, ma con la prosa può ridurmi in poltiglia” – così Jane, a commento del consorte. Lo diceva dispotico e possessivo. Ad ogni modo, l’ultimo atto letterario di Hall – morì nel 2018 – fu la cura e selezione di The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf Press). Riteneva gemmata, la consorte, dalla sua costola poetica.  * Coltivava narcisi e peonie, Jane. Poesia e giardinaggio come suoi talenti privati – il connubio ricorda la schiva scrittrice italiana Pia Pera, che pure tradusse i russi, fra tutti Čechov e Puškin. Entrambe, arti intrise di morte e resurrezione. Lottò con la fede, la Kenyon – educata con metodo metodista. Aveva paura di Dio. Finché una domenica, nella nivea chiesa di Wilmot, il ministro Jack Jensen evocò Rainer Maria Rilke nel suo sermone. Col tempo, la sua vita religiosa invase la sua vita letteraria. In Robert Bly intuì la dimensione spirituale della poesia – a sublimare il sublime. Patrocinò una funzione sacerdotale del poeta.  * Per la sepoltura, Hall scelse di drappeggiare sul corpo di sua moglie una salwar kamiz bianca e un foulard sulla spalla sinistra provenienti dall’India – c’erano stati insieme due volte. Fra le dita, ossute e incrociate – ornamento d’eterno – la fede nuziale. Le baciò per l’ultima volta le labbra, fredde e rigide. Lapidario, scolpito nel nero marmo della lapide, l’epitaffio recita un verso di Jane.     > Credo nei miracoli dell’arte, ma quale  > prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco? L’aveva composto per osteggiare la morte di Donald – svilito, all’epoca, da un cancro. All’ombra delle sue parole, oggi, riposano entrambi. Ogni poetica contesa è trascesa.  Fabrizia Sabbatini * Il pipistrello Leggevo del razionalismo,  il genere di cose che facciamo al nord  all’esordio d’inverno, dove il sole  abdica al giorno alle 4:15. Forse il mondo è intelligibile  al genio razionale; forse accendiamo lampade al crepuscolo  per nulla… Poi ho udito delle ali sopra la testa. I gatti ed io abbiamo inseguito il pipistrello  in tondo – soggiorno, cucina,  ripostiglio, cucina, soggiorno… A ogni giro ci sfuggiva come l’identità del terzo  della Trinità: colui  che ha parlato per mezzo dei profeti,  colui che ha sorpreso Maria  apparendo all’improvviso. Jane Kenyon *Per la prima volta in Italia, una antologia delle poesie di Jane Kenyon è edita dalle edizioni Magog, a cura di Fabrizia Sabbatini L'articolo Jane Kenyon o della mistica domestica proviene da Pangea.
December 5, 2025 / Pangea
“I poeti non vanno in ufficio”. Intorno alla Roman Beat Generation
Si nutre di nutrie, la poesia – a Roma. Spasmi e miasmi della Storia. Capitale – ne rimastica la toponomastica. Solca le arterie dell’Olocene – fra rio e rioni. Croci e crocifere – ai pellegrini falchi, falcia le vie. La poesia, a Roma – fa olocausti di busti. Fino all’ora dei pasti. Non consola i consoli, il poeta – mira all’obelisco, più che all’ombelico. Incolonna rime plastiche – fra colonne ecclesiastiche. Caustica – lastrica terrazze e piazze. A Roma – la poesia.  * Batte un motivo beat, di notte, la civetta – a Villa Borghese. Squittisce versi – all’artista fa il verso.  Musa rapace, mai civettuola – gentrifica fronde, germina poeti. Pare sgorgato dall’ala piumata, Edoardo Piazza. Spiuma versi fra spume tiberine – livide, vivide. Eterna nella città eterna un fremito d’oltreoceano – lo fa capitolare, capitolino.  “Il caffè di Big Sur/ lo bevi con le statue romane” – non con Jack Kerouac. Americanismo, a Roma, volge in casto situazionismo. * Poeta o oracolo – la Bocca rivela Verità. Nell’Urbe – dove “soffocare era l’adagio impervio del sopravvivere urbano”. Piazza è cicerone di un On the Road romano, padrino dei “poeti che non vanno in ufficio” – piuttosto, in categorica Cadillac. Metafisica civica e antilirica efferatezza – riecheggia, nel verso roman-beat, il codice fraseologico, fra smaliziata miseria e laica mondanità, di Valentino Zeichen. “Si nasce barbari/ e si finisce romani”, appuntava il poeta istriano-romano nel suo diario 1999. Marciapiedi dionisiaci e vernissage presi d’assalto dai senzatetto, maestri zen col fischietto e barbagianni new age – la poesia di Piazza, coast to coast fra le mura, romantica romanità, si compie prima della compieta, nell’empireo di un pomeriggio a Roma. * Santificare il beat è qui sanificare – risanare il linguaggio. Poeta del suo tempo, di un tempo non suo Piazza usucapisce il palpito – lo muta in battito d’ali, apache in pillole metropolitane. Rievoca la cronaca diurnale, a codificare il reale, di Frank O’Hara – padre del ‘personismo’, che batté i beat col disimpegno. Flâneur nella grandeur, fra cives e civette, la poesia di Edoardo Piazza, a Roma centro traccia il suo epicentro. Città colossale – il Colosseo con l’aria condizionata, la corrida degli autobus, gli amici volati come foulard. Città che più della civiltà – un quarto di nobiltà agogna. Roma – poesia e gogna.  * Batte un motivo beat, la civetta, notturna jam session – Roman Beat Generation. Fabrizia Sabbatini *** La civetta di Keith La civetta di Keith respiracanti e metropolitanesta appesa a una strofa su foglio di cartacerta e non morta vigila su Spartae sul traffico moderno.Adora l’incanto di adorno bosco che sarà mobilequando la costellazione vireràal tempo dei furgoni.Mano proverà a trattarla e le consentiràil volo binocolare e astuto –nella dolce corazza di piume –sul fiume astuto occipitale e sulle Esperidi di cemento arboreo. * Il vernissage C’era quel vernissage della mostra che fu preso d’assalto dai senzatetto tramezzini panini e via scorrendo Roma e Milano un’alfa gli smottamenti del sangue malsano le intercapedini Roma e Milano omega oggi il cielo è una virgola cin-cin colloquiale sul sofà dell’emozione tutti dovrebbero avere del cemento ripararsi e l’umidità una lamiera in frigo nel panino. «Sono quello sfigato quello nascosto, nel bosco qualcuno ti ha dato soldi per qualcosa? Mi fa piacere i poeti non vanno in ufficio non apparecchiano il prodotto quel sano male di città. Piazza Navona era muta di scabbia e ti ricordi i primi reading di Patti Smith?». * Civetta numero due La cremagliera sottrae il larice alla sua fosforica funzione                             di fissità. I déracinés di Venezia li ha già cantati Ferlinghetti. Non era Truman Capote quel busto al Gianicolo. Il cane letargico fotografa il palazzo azzurro. Il cane rosa schizza sul palazzo acre. Nero occitano quel Fabergé carboncino. Reticolo-reticolo. Civetta numero due-canto numero tre o quattro… Però canta bene. * Il tacchino di Big Sur Non potrai adire al re retribuito con stoffe pregiate demandate all’utilitarismo. Non potrai adire alle carni smerciate agli ossi alle corolle dei fiori. Ai sentieri ai segmenti alle uccisioni ai cuori. Lapidarie le stufe del passato il carteggio il conteggio delle settimane, l’uomo operoso: la civiltà industriosa. Non potrai adire all’egocentrismo, tutto è fallace non esistono scelte giuste. Bisogna alleggerire adattarsi a morire arriverà il mare il capitano fra la schiuma le tracce di un alano nella corrida. Epaminonda il re, la palude dei rami pianti dopo il sereno un turgido seno. Non potrai dire al re di essere retribuito non sei una fotocopiatrice un fermacarte un apostrofo un attache. Il mio linguaggio dei segni è quello di certi uccelli quelli che volano nella canzone di Battiato nell’agguato dell’azzurro tanto descritto e mai afferrato. Il caffè di Big Sur lo bevi con le statue romane. La materia grigia è come il papiro come i riflessi delle virtù integrali come i genitali. Le formiche, le parentesi degli opossum la consunzione dei paradossi le lacrime della Madonna. Sei capace a vivere? Oggi cosa hai mangiato? Tutto è come una tapparella che s’alza e abbassa, come impronte di ciabattine: il faro del giardino di pietra, l’empireo di un pomeriggio di Roma. Edoardo Piazza *Le poesie di Edoardo Piazza sono tratte dalla sua ultima raccolta – “Civette e container” (Ensemble, 2025).  In copertina: Andrew Wyeth, “Brick House, Study for Tenant Farmer”, 1961 L'articolo “I poeti non vanno in ufficio”. Intorno alla Roman Beat Generation proviene da Pangea.
October 1, 2025 / Pangea
Diffidare dei poeti vivi
Dei poeti vivi diffido – sono a mio agio coi defunti. I poeti morti. Che ti spezzano il cuore. Come recita la canzone.  Atto disumano, umanizzare la poesia. Rivelare il volto del poeta. Se non è velare due volte. Se non l’ha in dote – il volto da poeta.  * Ho scritto a un poeta vivo. L’editoria lo vuole poeta morto – sostiene. Traduco, anni addietro, un drappello di suoi versi. Afferiscono – e fioriscono, feriscono – a una raccolta che ha l’avvenenza efferata di un salmo. Ne fantastico la pubblicazione. Il poeta vivo – paria in patria – mi scrive. E il suo fervore è umano, troppo umano – per me. Mi disorienta. Disarciona i pensieri. Il lirico si fa uomo. Il poeta è vivo – e m’inquieta.    * Ho conosciuto un poeta vivo. Dita, porporate, stringono un Rilke a mo’ di breviario. Poesia e preghiera. Poesia è preghiera. Asserisce – senza articolare verbo. Serrato nella muta liturgia dei gesti. Pare estraneo alla terra. Ma prossimo al deserto. Ho incrociato, dapprima, la sua poesia. Votata all’uomo, consacrata a Dio. Invisibile nel visibile. Il poeta scandaglia il mondo con iride sacro. Il poeta è un profeta – vivo.  * Ho parlato a un poeta vivo. Occhi da sioux dominano il volto increspato di versi – corpo d’albero, mani da capo dei lupi. Capelli inargentati – a ornare il cranio come penne d’aquila. Ebbro, l’estro – pare un Dylan Thomas etrusco – e caratura da divo del cinema, a slegarne la posa. Poesia, la sua, di parole-cannibali – inaccessibili, sfuggenti –, avviluppano letali, fetali, fatali. A divorare la poesia per la poesia. Poeta di capodogli e capitani, linee d’ombra e marinai, foglie d’erba e Frankenstein. Compone e traduce, rotea il verbo in un’ellisse – è un poeta-Ulisse. * Ho osservato dei poeti vivi. Nel loro vivere da poeti. Alle opere, di solito, antepongo le biografie. Stavolta, il canone si rivolta. Prima la poesia – dirompe educata. Poi il poeta. A volto scoperto – velato e ri-velato, al contempo, dalla parola. Il poeta è vivo, il suo verso vivido.  Ordinata torma di poeti urbani mi si staglia fra le ciglia, di vocazione corsara e cortese, composta ed opposta – eterogeneo, l’universo dei versi, traversi. Scorgo poeti di mondo, scevri dal mondano. Un motivo beat batte sul crinale nord dell’Urbe. Capitolino, il salotto-librario si fa giungla di lettere – capitola, il poeta per il poeta. Selezione naturale del verbo metropolitano.  Così reali, questi poeti vivi, da assurgere a una guglia metafisica. La tangibilità nel poeta pare massima nella sua assenza. L’autenticità degli individui mi spiazza – l’inautenticità della poesia mi conforta. Non c’è verità nella poesia. Per fortuna. Nella sua forma rarefatta, è artefatta. In questo esile consesso fungo da intruso, sono il refuso di questo ritrovo. Ad animarne le fila, scopro, è Edoardo Piazza – poeta di Esperidi e civette urbane –, a margine, illumina sul senso dell’incontro, questione di necessità, per dare ‘una casa alla poesia, un approdo concreto’. Ho sempre contemplato l’ala immateriale della poesia. Eppure – banale a dirsi – a dimorarvi dietro è l’uomo, e dietro l’uomo palpita un’urgenza d’identità, di patria. Una patria poetica. Questa dislocazione fisica del verso appare cosa ordinaria – non lo è. Ho l’impressione che salti davvero ogni schema. Che il poeta resti privo del suo guscio. Pare sdrucciolevole, il terreno ‘corporeo’ della poesia – scivolare nel buonismo, nell’empatia di foggia deteriore, è un attimo. Ma la poesia, in fondo, vive solo nella forma della poesia. È armata contro la basica spontaneità del mondo. In cui tutti scrivono poesie. Tutti si dicono poeti. Vivi.  * Un poeta vivo è morto. Apprendo, aprendo le notizie, giorni fa. È giovane – per sempre, adesso. Non lo conosco, ma lo conosco, ma non rammento. Il dispositivo social che dispone di me, si premura di ricordarmi i miei ricordi. Un libro nero, minuto, estraneo al ramo commerciale dell’editoria, è giunto fino ai suoi occhi di poeta. Un carteggio a senso unico, ossessivo, Cristina Campo verso Alejandra Pizarnik – l’abbiamo pubblicato tempo fa. Ha la delicatezza di scriverne, di scrivermi. Riporta, in calce, a mo’ di orazione, La Tigre assenza – riletta, è già presenza. Un poeta morto è vivo.  * Ascolto un poeta vivo. Mentre passeggio, flâneur fra i dedali di Roma – città-lupa che pasce il dolore di tutti. Canta i poeti vivi e i poeti morti. In dote, ha il volto da poeta – caratura da cantautore, tono da angelo inquieto, voce di quarzo. Ne usucapisco la leggerezza tenace dei versi, l’umorismo arrotato della romanità.  > I poeti morti ti spezzano il cuore > I poeti morti non tagliano il pane  > Non portano il cane, non hanno tatuaggi > I poeti vivi hanno gli aggettivi > Per gratificare i nuovi primitivi * Dei poeti vivi diffido – ai poeti vivi mi affido.  Fabrizia Sabbatini *Il 16 marzo alle ore 16.30, a Roma, presso il Caffè letterario Horafelix, si terrà l’incontro “Poesia corsara”, con la partecipazione di Pangea (per info: horafelixroma@gmail.com)  *In copertina e nel testo: fotografie di mani di Alfred Stieglitz L'articolo Diffidare dei poeti vivi proviene da Pangea.
March 12, 2025 / Pangea