Le poesie di Valentino Ronchi sono spesso dei piccoli racconti in forma di
versi. Ce n’è uno in cui il narratore dice di aver sognato che la donna che
aveva creduto di vedere alla finestra della casa in cui aveva vissuto Vladimir
Jankélevitch – il filosofo prediletto di Ronchi, a cui ha anche dedicato un
romanzo, Quasi niente – la faceva salire da lui, benché fosse morto.
Il poeta quindi sale e chiacchiera con Jankélevitch redivivo. Il tempo non
esiste, la morte è eliminata. Poi però Ronchi si sveglia e non è successo nulla,
il sogno non era reale. È una mattina d’inverno come tante e lo assale la fredda
quotidianità dei gesti dei vivi.
> “Ma poi era mattina dalla finestra del letto
> primo dicembre nebbioso, sole sopra la nebbia.
> Ho fatto le due caffettiere mi son vestito
> sono uscito. Occorre rassegnarsi, muoiono tutti
> persino i filosofi che parlano come poeti.”
La poesia è tratta dalla raccolta L’epoca d’oro del cineromanzo, edita da
Nottetempo nel 2016 e ormai introvabile in cartaceo.
Sebbene molte poesie di Valentino Ronchi siano dei momenti strappati alla vita,
credo che questo incontro mancato con il filosofo che più ama dica molto della
sua poetica. Innanzitutto perché Jankélevitch compare in diverse sue poesie, ma
anche perché in questi versi c’è quel malinconico distacco dal reale che
traspare in ogni sua raccolta. Ronchi è in cerca dell’effimero, del magico,
degli incontri fugaci ma indimenticabili che segnano le nostre vite. E
dall’amore, certo, però, come rivela una strofa di Primo e parziale resoconto di
una storia d’amore (Nottetempo, 2017),
> “quasi inutile che stia qui a dirtelo
> tu lo sai, è uno dei nostri segreti da poche
> ghinee: quando parlo d’amore sto parlando
> d’altro e quando parlo d’altro, s’intuisce
> facile sul fondo, sto parlando d’amore.”
L’amore per il poeta è sempre qualcos’altro, qualcosa di cui forse non si può
parlare se non per caso, e in effetti la poesia di Ronchi sembra spesso affidata
al caso, è una poesia vagabonda che danza con i sentimenti e i ricordi per
qualche rigo e poi li lascia andare, come se niente in questa vita potesse
appartenere veramente a qualcuno, meno che mai al poeta o a chi lo legge.
È una poesia fatta di segreti svelati solo in parte, che affronta il quotidiano
ma anche la morte, come abbiamo visto con Jankélevitch, e che va letta a bassa
voce, non declamando. Infatti Ronchi sussurra, non urla. Anche quando si
emoziona. Anche quando è innamorato. E il suo è il sussurro dei malinconici che
non disperano, coloro che trovano persino nel morire del tempo e delle stagioni
un motivo per stare al mondo e forse per farsene carico (“Tutto quello/ che mi
interessa, in fondo, scriveva/ Longanesi, sono le stagioni. E il modo/ loro
antico di darsi il cambio/ di passarsi ogni volta il testimone”, da Buongiorno
ragazzi, Fazi, 2019). Non c’è angoscia nei suoi versi. C’è invece molta
malinconia, anche perché di solito il suo interlocutore non è chi legge bensì un
amore imprecisato a cui dà del tu ma che rimane avvolto nel mistero, come se la
storia d’amore fosse finita da tempo – e ogni amore che finisce è malinconico.
C’è una poesia contenuta nella sua ultima raccolta (Ma tu l’hai letto “Il
giovane Holden”?, Graphe Edizioni, 2024) in cui un’amica gli rivela di aver
trovato un refuso nel testo greco dell’Iliade, nell’edizione Einaudi. Gli chiede
di non dirlo a nessuno, di non rompere il segreto. Anni dopo il poeta dà
un’occhiata al libro e il refuso è ancora lì. Allora scrive:
> “Almeno questo te lo devo:
> ne faccio un piccolo cenno, preservando
> il cuore e il centro del segreto.”
Il cuore e il centro del segreto delle poesie di Valentino Ronchi sono i
sentimenti ma anche il vagabondare, lo scrivere quasi per caso e forse per
nessuno in particolare, neanche per se stessi o per il lettore. Si scrive come
si passeggia o come si viene al mondo e forse come si muore. Però senza
disperarsi, senza gridare, perché quella del poeta è una malinconia stoica, come
quando dice che “muoiono tutti, persino i filosofi che parlano come poeti”.
Persino i poeti, sì, persino le poesie devono morire. Tuttavia, finché è vivo,
il poeta sa della propria finitudine ma non si spaventa. Ha il coraggio dei
bambini, che non ignorano la morte ma sanno volgere lo sguardo altrove.
Il poeta è la più forte e vigile delle creature umane.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Anselm Kiefer
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poesie proviene da Pangea.