In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro,
Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero
molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo
maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte.
Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua
evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti.
Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi –
a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a
scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.
Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo
sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi
divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi
paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è
all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora
bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni
hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più
attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato
di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una
sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore
qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert,
Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai
banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono
innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto
implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della
passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per
gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi
consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri
Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.
Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque
lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e
lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e
arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e
poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi
a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un
saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno
riprende una frase di John Cheever:
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un
suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la
ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in
cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla
letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura
didattici.
Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque
dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i
brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un
originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente
frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a
costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai
racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio
alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato),
oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla
fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma
riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e
dunque il bel ricordo che ne conserviamo.
Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe
avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per
camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere,
come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro
che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo
amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:
> “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un
> itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché
> è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi
> sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono
> stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità
> che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”
Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni
maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare,
come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano
le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come
sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con
interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte
davvero.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti
sacrifici”. A lezione da Piperno proviene da Pangea.
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Filologia spettrale. Qualche tempo fa, quando si è saputo che Adelphi sarebbe
divenuto il nuovo editore italiano di Philip Roth, mi è venuta voglia di tornare
ai suoi romanzi in veste Einaudi. Ho riletto integralmenteOperazione Shylock,
poi sono passato a Pastorale americana. Entrambe le traduzioni sono di Vincenzo
Mantovani e mi paiono ottime; mi chiedo se Adelphi le conserverà o se
proporranno delle nuove versioni.Tuttavia qui non si tratta di traduzioni bensì
di fantasmi. Intendo infatti servirmi di un libro di Roth per provare
l’esistenza di un fantasma. Vi prego di seguirmi, perché la dimostrazione vuole
essere – opere alla mano – inconfutabile.
Stiamo leggendo Pastorale americana. Siamo al secondo capitolo della prima
parte, precisamente a pagina cinquantanove. Il narratore del romanzo, Nathan
Zuckerman, è alla riunione degli ex studenti della scuola in cui è cresciuto, in
una scena che è anche una parodia di Proust. D’un tratto gli si presenta davanti
un compagno che non ricorda, Ira Posner. È “un ometto dall’aria severa con una
corta barba bianca, un’orribile cicatrice sotto un occhio e due apparecchi
acustici”. Zoppica. Si appoggia a un bastone. Respira con difficoltà. Dice a
Zuckerman che suo padre è stato molto importante per lui e gli chiede se sia
morto. “Sì” fa Nathan. “E il tuo?” La risposta è: “Il mio non vedeva l’ora di
morire. L’insuccesso gli ha dato alla testa.” E qui mi sono fermato,
riconoscendo una celebre battuta di Ennio Flaiano.
Pare infatti che dopo il fallimento della commedia Un marziano a Roma Flaiano
abbia dichiarato: “L’insuccesso mi ha dato alla testa.” In realtà molti
attribuiscono la frase a Mino Maccari, amico di Flaiano, che gli avrebbe detto:
“L’insuccesso ti ha dato alla testa.” L’attribuzione della boutade è comunque
incerta.
Fin qui non c’è niente di trascendentale. Dubito che Roth avesse letto Flaiano,
quindi sono andato a cercare il testo in originale. La frase esatta di Roth è:
“Failure went to his head in a really big way.” Mantovani la traduce così:
“L’insuccesso gli ha dato alla testa”, forse (mi dissi in un primo momento)
pensando proprio a Ennio Flaiano.
Andiamo avanti. Voltiamo pagina. Ira Posner chiede a Nathan Zuckerman da quanto
tempo sia morto suo padre. La risposta è: “Nel 1969. Da ventisei anni. Molto
tempo.” E Ira Posner ribatte: “Per chi? Per lui? Non credo. Per i defunti, è una
goccia nel mare.”
E qui cogliamo il fantasma in fragrante. O è lui a volersi rivelare, può darsi.
Perché bisogna fare caso ai numeri. Il padre di Nathan Zuckerman è morto da
ventisei anni. American Pastoral viene pubblicato nel 1997, mentre la traduzione
italiana, Pastorale americana, esce l’anno successivo, nel 1998. E quindi?,
direte voi.
E quindi Ennio Flaiano è morto nel 1972, esattamente ventisei anni prima della
pubblicazione della versione italiana di Pastorale americana, nel 1998.
Forse Flaiano mi ha dato alla testa. Forse no. Per i morti ventisei anni sono
una goccia nel mare, dice Ira Posner dopo aver citato inconsapevolmente Flaiano
(“L’insuccesso gli ha dato alla testa”), a ventisei anni esatti dalla sua
morte. Ora – nel 2025 – Flaiano è morto da cinquantatré anni e le gocce nel mare
sono dunque due. Poco tempo, molto tempo: dipende dai punti di vista. Presto
Ennio Flaiano e Philip Roth convivranno nello stesso catalogo. I fantasmi si
divertiranno.
Edoardo Pisani
L'articolo Breve chiosa di filologia spettrale – o dell’incontro postumo fra
Ennio Flaiano e Philip Roth proviene da Pangea.