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Lo stoicismo del poeta malinconico. Su Valentino Ronchi e le sue poesie
Le poesie di Valentino Ronchi sono spesso dei piccoli racconti in forma di versi. Ce n’è uno in cui il narratore dice di aver sognato che la donna che aveva creduto di vedere alla finestra della casa in cui aveva vissuto Vladimir Jankélevitch – il filosofo prediletto di Ronchi, a cui ha anche dedicato un romanzo, Quasi niente – la faceva salire da lui, benché fosse morto. Il poeta quindi sale e chiacchiera con Jankélevitch redivivo. Il tempo non esiste, la morte è eliminata. Poi però Ronchi si sveglia e non è successo nulla, il sogno non era reale. È una mattina d’inverno come tante e lo assale la fredda quotidianità dei gesti dei vivi. > “Ma poi era mattina dalla finestra del letto > primo dicembre nebbioso, sole sopra la nebbia. > Ho fatto le due caffettiere mi son vestito > sono uscito. Occorre rassegnarsi, muoiono tutti > persino i filosofi che parlano come poeti.” La poesia è tratta dalla raccolta L’epoca d’oro del cineromanzo, edita da Nottetempo nel 2016 e ormai introvabile in cartaceo. Sebbene molte poesie di Valentino Ronchi siano dei momenti strappati alla vita, credo che questo incontro mancato con il filosofo che più ama dica molto della sua poetica. Innanzitutto perché Jankélevitch compare in diverse sue poesie, ma anche perché in questi versi c’è quel malinconico distacco dal reale che traspare in ogni sua raccolta. Ronchi è in cerca dell’effimero, del magico, degli incontri fugaci ma indimenticabili che segnano le nostre vite. E dall’amore, certo, però, come rivela una strofa di Primo e parziale resoconto di una storia d’amore (Nottetempo, 2017), > “quasi inutile che stia qui a dirtelo > tu lo sai, è uno dei nostri segreti da poche > ghinee: quando parlo d’amore sto parlando > d’altro e quando parlo d’altro, s’intuisce > facile sul fondo, sto parlando d’amore.” L’amore per il poeta è sempre qualcos’altro, qualcosa di cui forse non si può parlare se non per caso, e in effetti la poesia di Ronchi sembra spesso affidata al caso, è una poesia vagabonda che danza con i sentimenti e i ricordi per qualche rigo e poi li lascia andare, come se niente in questa vita potesse appartenere veramente a qualcuno, meno che mai al poeta o a chi lo legge. È una poesia fatta di segreti svelati solo in parte, che affronta il quotidiano ma anche la morte, come abbiamo visto con Jankélevitch, e che va letta a bassa voce, non declamando. Infatti Ronchi sussurra, non urla. Anche quando si emoziona. Anche quando è innamorato. E il suo è il sussurro dei malinconici che non disperano, coloro che trovano persino nel morire del tempo e delle stagioni un motivo per stare al mondo e forse per farsene carico (“Tutto quello/ che mi interessa, in fondo, scriveva/ Longanesi, sono le stagioni. E il modo/ loro antico di darsi il cambio/ di passarsi ogni volta il testimone”, da Buongiorno ragazzi, Fazi, 2019). Non c’è angoscia nei suoi versi. C’è invece molta malinconia, anche perché di solito il suo interlocutore non è chi legge bensì un amore imprecisato a cui dà del tu ma che rimane avvolto nel mistero, come se la storia d’amore fosse finita da tempo – e ogni amore che finisce è malinconico. C’è una poesia contenuta nella sua ultima raccolta (Ma tu l’hai letto “Il giovane Holden”?, Graphe Edizioni, 2024) in cui un’amica gli rivela di aver trovato un refuso nel testo greco dell’Iliade, nell’edizione Einaudi. Gli chiede di non dirlo a nessuno, di non rompere il segreto. Anni dopo il poeta dà un’occhiata al libro e il refuso è ancora lì. Allora scrive: > “Almeno questo te lo devo: > ne faccio un piccolo cenno, preservando > il cuore e il centro del segreto.” Il cuore e il centro del segreto delle poesie di Valentino Ronchi sono i sentimenti ma anche il vagabondare, lo scrivere quasi per caso e forse per nessuno in particolare, neanche per se stessi o per il lettore. Si scrive come si passeggia o come si viene al mondo e forse come si muore. Però senza disperarsi, senza gridare, perché quella del poeta è una malinconia stoica, come quando dice che “muoiono tutti, persino i filosofi che parlano come poeti”. Persino i poeti, sì, persino le poesie devono morire. Tuttavia, finché è vivo, il poeta sa della propria finitudine ma non si spaventa. Ha il coraggio dei bambini, che non ignorano la morte ma sanno volgere lo sguardo altrove. Il poeta è la più forte e vigile delle creature umane. Edoardo Pisani *In copertina: un’opera di Anselm Kiefer L'articolo Lo stoicismo del poeta malinconico. Su Valentino Ronchi e le sue poesie proviene da Pangea.
October 2, 2025 / Pangea
Vita tragica di Yambo Ouologuem, il “Rimbaud negro”. Siamo pronti a ripubblicarlo?
Un grande libro scomparso dalle nostre librerie tormenta il mio famelico cuore di lettore. È un romanzo maledetto, scritto da un maliano in lingua francese, Le devoir de violence, Dovere di violenza, di Yambo Ouologuem. Fu pubblicato nel 1968 dall’editore Seuil e tradotto in italiano due anni dopo da il Saggiatore, ma da noi non è mai più stato ristampato.  Non se ne trova una copia nemmeno nei meandri della Rete, a nessun prezzo: in Italia Il dovere di violenza è un libro che sembra non essere mai esistito. Per leggerlo mi sono dovuto procurare la nuova edizione francese, del 2018, sempre dell’editore Seuil. C’è inoltre una bella versione inglese, Bound to violence, pubblicata da uno dei maggiori editori europei, Penguin Books. Eppure in Italia nessuno ha ancora pensato di ripubblicare Il dovere di violenza. Yambo Ouologuem, nato nel 1940 e morto – completamente dimenticato – nel 2017, è riassurto ai dubbi onori delle cronache letterarie francesi dopo la pubblicazione e la consacrazione di un altro grande romanzo di un autore africano, La più recondita memoria degli uomini, di Mohamed Mbougar Sarr, libro vincitore del premio Goncourt nel 2021, edito in Italia da e/o. Il libro di Sarr è dedicato proprio a Yambo Ouologuem, che di fatto è anche un personaggio del romanzo, il misterioso T. C. Elimane, da alcuni chiamato il “Rimbaud négre”, sul quale Diégane Latyr Faye, il protagonista del libro di Sarr, investiga.  Elimane ha scritto un libro ingiustamente (o giustamente?) accusato di plagio, Il labirinto del disumano, che semina morti e misteri intorno a sé. La vicenda ricalca la vita di Yambo Ouologuem, che ebbe un grande successo e vinse addirittura il prix Renaudot ma che poi – tre anni dopo quel clamoroso esordio – fu accusato di plagio e boicottato dai suoi stessi editori. Il suo unico romanzo, fino ad allora considerato un capolavoro, fu mandato al macero. Si insinuava che Ouologuem avesse copiato da André Schwarz-Bart, da Graham Greene e da Maupassant: era un plagiario. Spaventati dal clamore dello scandalo, gli stessi critici che lo avevano osannato ritrattarono i loro articoli e dissero di essere stati imbrogliati. Yambo Ouologuem smise di scrivere. Solo, amareggiato, tornò in Africa e nessuno seppe più niente di lui. Anche per questo T. C. Elimane, il suo alter ego romanzesco inventato da Mohamed Mbougar Sarr, è chiamato il “Rimbaud negro”: perché è scomparso in Africa.  Ci voleva un altro grande romanzo per far risorgere Le devoir de violence dall’oblio. Quando Sarr vinse il premio Goncourt con un libro dedicato a Ouologuem, in molti – me compreso – si chiesero chi fosse questo tale, Yambo Ouologuem. A poco a poco si ricominciò a parlare di lui e così il suo libro conquistò dei nuovi accoliti. Adesso in Francia Le devoir de violence è finalmente considerato uno dei grandi romanzi africani del Novecento, una storia complessa, non sempre scorrevole, che si dipana attraverso i secoli e tratta di amore e di crudeltà, cioè dei grandi temi di sempre, quelli che smuovono la mente e il cuore, fra dinastie di re fratricidi e amori e disillusioni. Yambo Ouologuem è il grande cantore di un continente che la Storia ha sempre maltrattato, eppure nelle sue pagine non c’è traccia di autocompatimento. Ouologuem non piagnucola, racconta.  Ci sarebbe molto da dire su come i critici parigini del dopoguerra rendessero le cose difficili agli autori per loro non del tutto francesi, gli “impuri”, i “bastardi”. Si pensi a Romain Gary, che fu accusato da molti di scrivere in modo assurdo, talmente abborracciato da non poter essere considerato neanche “francese”, sostenevano, almeno finché il grande Gary non si prese la sua vendetta (postuma) pubblicando diversi libri con lo pseudonimo di Émile Ajar e rivincendo persino il prix Goncourt, premio che notoriamente si può ottenere solo una volta nella vita. Gli stessi critici che per anni avevano stroncato Gary ora si sdilinquivano per Ajar, cioè per Gary sotto false vesti.  Il caso di Yambo Ouologuem è meno felice, visto che quando un autore isolato arriva al successo – e Ouologuem era un outsider ed ebbe successo – non manca mai chi si arma di malizia e di infamia e lo accusa di barare. Yambo Ouologuem era un imbroglione. Aveva turlupinato tutti. Tale era l’opinione corrente, che condannò il suo libro al macero e lui stesso all’oblio. Forse per questa ragione in Italia non si trovano più copie di Il dovere di violenza: perché sono state date alle fiamme. Yambo Ouologuem era un plagiario. Non bisognava parlarne, ricordarne l’opera. Doveva essere dimenticato, e con lui il suo libro.  Yambo Ouologuem era uno scrittore. Quando Diégane Latyr Faye, il protagonista di Mohamed Mbougar Sarr, legge Il labirinto del disumano, che nella finzione romanzesca altro non è che il capolavoro di Yambo Ouologuem, Le devoir de violence, scrive (nella traduzione di Alberto Bracci Testasecca):  > “Caro diario, ti scrivo solo per dirti quanto Il Labirinto del disumano mi > abbia impoverito. I grandi libri impoveriscono e devono sempre impoverire. > Rimuovono da noi il superfluo. Dalla loro lettura usciamo sempre privati di > molte cose: arricchiti, ma arricchiti per sottrazione”  Sarr sta evidentemente parlando di Le devoir de violence, libro che lo ha sconvolto.   Ancora: più avanti Diégane aggiunge una nota di un critico del Mercure de France, tale Léon Bercoff, che fa così:  > “Leggendo certi commenti sul Labirinto del disumano non abbiamo più dubbi: a > dare fastidio è il colore dello scrittore. È la sua razza a fare scandalo. Il > signor Elimane è comparso troppo presto in un’epoca che non è ancora pronta a > vedere i neri eccellere in tutti i campi, compreso quello dell’arte. Forse un > giorno quel tempo arriverà, chi lo sa. Per il momento Elimane dev’essere un > precursore coraggioso, un esempio. Deve farsi vedere, parlare e dimostrare a > tutti i razzisti che un negro può essere un grande scrittore.”  Un nero può essere un grande scrittore. Yambo Ouologuem preferì invece lo sdegno e l’oblio. “Forse la risposta di Elimane fu il silenzio” chiosa Sarr. “Ma cos’è uno scrittore che tace?” Ouologuem se ne era andato e taceva. Era uno scrittore ed era nero e aveva avuto successo, cosa che nessuno era disposto a perdonargli. Sarr ha ribadito più volte che il suo T. C. Elimane è lui, Ouologuem, e che Il labirinto del disumano è Le devoir de violence, Il dovere di violenza, il grande libro dimenticato di un grande autore scomparso.  Forse sarebbe ora di riportare Yambo Ouologuem anche nelle librerie italiane. O non siamo ancora pronti?  Edoardo Pisani L'articolo Vita tragica di Yambo Ouologuem, il “Rimbaud negro”. Siamo pronti a ripubblicarlo? proviene da Pangea.
September 26, 2025 / Pangea
Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del secolo
Don McCullin nasce a Londra nel 1935, crescendo durante la guerra, fra case diroccate e bombardamenti, nel quartiere popolare di Finsbury Park, dove scatterà le prime fotografie, a vent’anni, dopo aver svolto il servizio militare per la Royal Air Force, ritraendo una banda di Teddy Boy, i Guvnors. La sua prima fotografia pubblicata mostra i Guvnors in un palazzetto distrutto dalla guerra. Gliela compra l’“Observer”, stampandola a mezza pagina e chiedendogliene altre. Don McCullin diventa così un fotografo freelance, lavorando per l’“Observer” e il “News Chronicle” e la rivista “Town”, viaggiando per l’Inghilterra in cerca di scatti e abbandonando Finsbury Park, il suo quartiere d’infanzia.  Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca comincia la costruzione del muro di Berlino, e lui decide di andarci a proprie spese, realizzando un portfolio che sarà premiato dalla British PressAward e che gli frutterà il primo contratto da professionista, sempre con l’“Observer”. Intanto si è sposato, e di lì a poco diventerà padre. Ma non rimarrà molto in famiglia, troppo irrequieto per vivere a lungo nello stesso posto. Nel 1964 parte per Cipro, dove copre l’invasione turca; qui farà i suoi primi, grandi scatti di guerra, che l’anno successivo saranno premiati dal World Press Photo. È il suo primo incontro con l’orrore della guerra. In uno scatto un miliziano turco esce da una casa, di corsa, con il fucile fra le mani: un’immagine oggi famosa. In un altro una donna piange due uomini morti, riversi in una pozza di sangue, il marito e il fratello. Don McCullin scoppia in lacrime, muovendosi a fatica intorno ai cadaveri, componendo le fotografie “nella stessa maniera in cui Goya dipingeva o abbozzava i suoi disegni di guerra”, come racconterà anni dopo nella sua autobiografia, Unreasonable Behaviour, Un comportamento irragionevole, scritta con Lewis Chester.  Lui è Don McCullin Le immagini si susseguono. Una donna piange il marito morto, con il figlio accanto, stringendo le mani ossute; degli uomini trascinano il cadavere di un vecchio lungo una strada, di fianco a un carro armato; una ragazza turca cammina imbracciata a un fucile, decisa a vendicare la morte del fratello. Sono scatti in bianco e nero, istantanee della morte e del dolore che testimoniano la ferocia e l’insensatezza della guerra, di ogni guerra. È lo sguardo delle vittime, la loro disperazione e la loro forza, il loro urlo contro gli assassini. > “Speravo di aver catturato nelle mie fotografie un’immagine duratura che si > sarebbe impressa nella memoria della gente” ha detto Don McCullin. “Cercavo un > simbolo – anche se allora non mi sarei espresso in questi termini – che > potesse rappresentare l’intera vicenda e avesse la forza d’impatto dei riti e > delle icone religiose.” Negli anni successivi Don McCullin continua a viaggiare, di guerra in guerra: Vietnam, Congo, la Guerra dei sei giorni a Gerusalemme, ancora Vietnam, dove tornerà oltre quindici volte, Nigeria, per la guerra di secessione del Biafra, di nuovo Vietnam, nella cittadina di Hue, dove scatterà la sua fotografia forse più conosciuta, quella del marine traumatizzato, con le mani strette intorno alla canna del fucile.  Ogni sua immagine è una storia, un momento che si racconta attraverso gli sguardi o i gesti, le posizioni delle mani e delle braccia e le smorfie sui volti. Viene in mente la poesia Torture, di WisławaSzimborska: > “Il corpo si torce, si dimena e divincola,  > fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,  > illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.”  Gli uomini piangono e si disperano o fissano semplicemente l’obiettivo, cioè Don McCullin che fotografa, oppure sono morti, come il soldato vietnamita riverso al suolo, nella cittadina di Hue, con le sue fotografie di famiglia sparse accanto a sé.  Fra una guerra e l’altra, di viaggio in viaggio, Don McCullin trova il tempo di fotografare anche i Beatles, a Londra, e di passare per la Cuba di Fidel Castro, dove conosce la scrittrice Edna O’Brien, che diviene sua amica e gli dedica una poesia, First the lions, then the vultures, Prima i leoni, poi gli avvoltoi. È il 1968. Don McCullin è ormai un fotografo rinomato, fra i migliori fotografi di guerra al mondo, anche se odia quest’espressione, “fotografo di guerra”, dicendo che suona come un’accusa di comportamento mercenario. Le sue immagini, in un chiaroscuro fatto di ombre e luci, sempre composite, ritraggono la miseria, la disperazione, la fame, la malattia, la guerra, ma non solo: alcuni suoi scatti sono momenti di rara bellezza, come il ritratto di Patience, nel Biafra, una ragazza sedicenne denutrita eppure bella, che guarda il fotografo con uno sguardo pieno di dignità e dolcezza.  Nel 1970, in Cambogia, Don McCullin viene ferito alle gambe, da una raffica di mitra. Cerca di salvarsi, trascinandosi con le braccia fra cumuli di cadaveri e soldati in fuga, strisciando nel fango.Finalmente lo caricano su un camion, portandolo via. Riuscirà a tornare in Inghilterra, anche se non vi resterà a lungo, nonostante le ferite, ripartendo quasi subito per il Bangladesh, in India, dove farà un reportage su un’epidemia di colera. Qui le fotografie sono terribili, come nelle guerre. Una famiglia piange la madre morta, in un campo deserto. Dei malati di colera si rigirano sul pavimento, in preda al dolore, come insetti schiacciati. “Nessuna salvezza, in quegli scatti” ha scritto Guido Ceronetti, in Ti saluto mio secolo crudele, “l’uomo è privo di ali, l’uomo è senza il soccorso divino, l’uomo è solo.” L’uomo è solo anche nella guerra. Don McCullin torna in Vietnam e in Cambogia, poi in Medio Oriente, per la guerra del Kippur. È come una droga, dice in un’intervista: non può fare altro che partire, di guerra in guerra, accumulando orrori.  “Quando tornavo in redazione con le mie fotografie” racconta, “il caporedattore esclamava: ‘Che orrore! Sarà una buona doppia pagina!’, o: ‘Povera gente! Che grande copertina!’. E io accettavo il loro gioco, non chiedevo altro che di ripartire per la prossima guerra, era diventata la mia droga.” E poi:  > “Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà un giorno senza questi flashback > nella mia testa. Non posso attraversare una via di Belgrado, o entrare da > Harrods, o passeggiare sulle colline del Somerset, senza che queste immagini > ritornino, come gli spot alla televisione. Delle persone nell’ingresso di un > palazzo di Beirut, in lacrime, mentre i miliziani ricaricano le loro > mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles > Caron e a me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo le palpebre, e non > abbiamo detto una parola per il resto della giornata.”  Gilles Caron era uno dei più cari amici di McCullin, anch’egli fotografo di guerra, scomparso in Cambogia nel 1970, probabilmente ucciso dai Khmer rossi.  Nel 1972, in Uganda, Don McCullin viene arrestato dai soldati del dittatore Idi Amin Dada. Lo rinchiudono in prigione, lo picchiano, lo torturano, per poi espellerlo a vita dal paese. Più tardi, prefaendo un suo libro di fotografie, Hearts of Darkness, John Le Carré scriverà:  > “Don McCullin ha conosciuto tutte le forme di paura e ne è diventato un > esperto. È tornato indietro Dio sa da quanti precipizi, e nessuno assomigliava > all’altro. Le sue esperienze in una prigione ugandese basterebbero a far > perdere per sempre il senno a un uomo, di certo a un uomo come me. Dice di > essersi giocato la vita più volte di quante riesca a ricordare, ma non se ne > vanta.” Seguono altri orrori, specie il massacro dei palestinesi a Beirut, in Libano, a Sabra e Chatila, nel 1982, o la guerra civile in Salvador, dove sarà ferito ancora, cadendo da un tetto. Ma ormai Don McCullin è stanco. Ha visto troppe guerre, troppo dolore, e poi sente che la sua fortuna sta per esaurirsi e non vuole finire come il suo amico Gilles Caron o come Dana Stone o Sean Flynn o il giapponese Kyoichi Sawada, tutti morti o scomparsi; non vuole morire.  Nel 1985 fotografa i riti religiosi dei pellegrini lungo le sponde del fiume Gange, in India, dove si reca da anni, uno scenario di quiete; poi comincia a ritrarre paesaggi e nature morte, in Inghilterra, nel Somerset, nei dintorni di casa sua. “La mia ora preferita è il crepuscolo” spiega, “non posso non desiderare che tutto divenga sempre più scuro.” Passa ore intere nel suo laboratorio, sviluppando immagini. Sono paesaggi cupi, come scattati alla fine del mondo, nei confini dell’animo umano, fatti di silenzio e oscurità. Sembrano un epilogo a tutte le guerre che ha vissuto.  > “Immagina di guardare negli occhi di una persona che sta per essere > giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla” dice Don McCullin, “ma > tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne > vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una > pietra. Non stiamo parlando di fotografia, ma di una responsabilità molto più > grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di > colpa. Per questo cerco di alleggerirmi da quel carico facendo fotografie di > nature morte e di paesaggi. Fotografando i campi allagati, gli alberi spogli, > il paesaggio antico come le leggende di re Artù ai margini del mio villaggio > nel Somerset, ho la sensazione di purificarmi da quella colpa.” Non andrà più in guerra, Don McCullin, con l’eccezione di un breve viaggio in Iraq, nel 1992, a quasi sessant’anni. Le sue fotografie ormai sono esposte nelle gallerie di tutto il mondo, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York; nel 1993 la regina Elisabetta lo nomina commendatore dell’Impero britannico e dottore honoris causa dell’Università di Bradford: una bella rivincita, per uno che non poteva pagarsi gli studi e che è stato bocciato all’esame di fotografia della Royal Air Force.  Nei suoi libri di fotografie (The Destruction Business, Hearths of Darkness, Open Skies, Sleeping With Ghosts, Don McCullin in Africa, Don McCullin in England) si vedono cadaveri trucidati e divelti e volti sfigurati, figli mutilati e deformi e madri in lacrime e manicomi deserti e bambini legati ai letti, a Sabra, sotto i bombardamenti israeliani, oppure la sua Inghilterra – il cimitero della famiglia Brontë avvolto dalla foschia, un collezionista di teschi londinese, un gruppo di skinhead adolescenti che prendono il sole, dei pescatori che giocano a calcio su una spiaggia, un gregge di pecore che si avvia al macello, all’alba, immagine di finitudine, un barbone malinconico e selvaggio, simile a Nettuno, che fissa l’obiettivo con grande dignità.  Don McCullin è uno dei grandi testimoni del nostro tempo, non solo per le fotografie di guerra, immagini dell’orrore e della miseria umana, ma anche per i suoi scatti dell’Inghilterra e per i suoi paesaggi, le terre deserte e cupe del Somerset o i campi di battaglia della Somme, in Francia, una delle sue prime fotografie del nuovo secolo, quasi un monito a ogni guerra presente e futura. Il suo percorso di fotografo, dai sobborghi di Londra al Vietnam al Biafra a Gerusalemme fino alle tribù primitive delle isole Mentawai, esplora le profondità umane e disumane del Novecento, il cuore di tenebra del secolo ventesimo e forse, da ultimo, la nostra colpevolezza, nelle lande desolate di una terra ormai priva dell’uomo, senza più guerre, nel silenzio di ogni cosa, fin dove si spinge lo sguardo – cioè l’obiettivo – di Don McCullin, e forse ancora più oltre.  Edoardo Pisani *In copertina e nel testo: fotografie di Don McCullin L'articolo Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del secolo proviene da Pangea.
September 13, 2025 / Pangea
“Siamo esseri sovrannaturali”. Ritrovare “2666” di Bolaño a pagina 266 del canzoniere di Auden
Filologia spettrale. Qualche mese fa mi è capitato di imbattermi nel fantasma di Ennio Flaiano in una pagina di Philip Roth, e volli scriverne un breve articolo su questo stesso sito. Da allora – ma in realtà da parecchio tempo – nei momenti di svago mi intestardisco a cercare delle tracce del sovrannaturale nei libri che più amo.  C’è una pagina di Roberto Bolaño in cui si accenna agli “inferni che si nascondono sotto le putride o immacolate pagine della letteratura”, e io credo di essere in cerca proprio di questi candidi o spaventosi inferni, di questi buchi neri. Tuttavia occorre muoversi con circospezione, stando attenti a non scambiare la nostra brama di un altrove per qualcosa di fattuale. D’altronde, come scriveva Claudio Magris in Danubio, “un vero critico letterario è un detective, e forse il fascino di questa opinabile attività non consiste nelle interpretazioni sofisticate, bensì nel fiuto da segugio che conduce a un cassetto, a una biblioteca, al segreto di una vita”. Penso che ciò che vale per il critico valga anche per il lettore comune. Questo articolo è dunque un collage di citazioni che intende portare il lettore-detective sulle tracce di un autentico fantasma.  Torniamo a Bolaño. È risaputo che amasse definirsi più un poeta che un romanziere, e infatti uno dei suoi libri a cui teneva di più è L’università sconosciuta, che comprende gran parte del suo travaglio poetico. Si tratta di un libro postumo ma compiuto, che Bolaño sperava di pubblicare in futuro, se vi fosse riuscito. Vi sono incluse anche le due raccolte poetiche che pubblicò in vita, I cani romantici e Tre. Uscì in Spagna nel 2007, con Editorial Anagrama. Nel 2020 arriva invece l’edizione italiana, pubblicata da Sur. Ci sarebbe molto da dire sulla poesia di Bolaño, ma voglio che il pezzo sia breve e quindi passerò subito a ciò che mi sta più a cuore – al fantasma, al sovrannaturale.  Vi prego di seguirmi con attenzione. Una delle sezioni del libro di Bolaño si intitola La mia vita nei tubi di sopravvivenza, e si apre con due versi di W. H. Auden: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” La versione italiana, come il libro in spagnolo, lascia il distico in originale. In Italia Auden è pubblicato da Adelphi, e al momento la sola maniera di procurarsi la maggior parte delle sue poesie è comprare il volume delle Opere scelte nella collana La Nave Argo, che è piuttosto costoso; nelle nostre librerie manca un’edizione economica delle poesie di Auden. Spero che prima o poi Adelphi provveda, come ha fatto recentemente con Autobiografia, di Thomas Bernhard, pubblicata nel 2011 ne La Nave Argo e poi – l’anno scorso, a un prezzo più accessibile – nella collana Gli Adelphi.  Io in ogni caso ho deciso di investire nel volume delle poesie di Auden, e naturalmente appena l’ho avuto fra le mani ho cercato i versi citati da Bolaño ne L’università sconosciuta. Provengono da un poema diviso in tre parti e dedicato a Yeats, In memoria di W. B. Yeats.  L’intera strofa fa così: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night, /With your uncostraining voice/ Still persuade us to rejoice.” Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica traducono:  > “Tu poeta, tu sprofonda,  > Nella notte più profonda,  > Con la voce tua suadente,  > Dacci gioia immantinente.”  In un libriccino sulla traduzione, Lost in translation, proprio Ottavo Fatica scrive che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”, perciò – pur apprezzando la versione italiana – direi di tornare all’originale.  “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” Così si apre dunque la sezione La mia vita nei tubi di sopravvivenza, di Roberto Bolaño, ne L’università sconosciuta. Mi si dirà: e allora? Dov’è il fantasma che ci hai promesso?  Bene, nell’edizione Adelphi delle poesie di Auden questi versi sono a pagina 266, proprio sopra al numero della pagina. Accludo la fotografia. Mi sembra molto più di una coincidenza, perché come tutti sanno 2666 è il grande libro postumo di Bolaño e proprio a pagina 266 sono posti i versi che lo stesso Bolaño ha lasciato in epigrafe a La mia vita nei tubi di sopravvivenza. Perciò il fantasma sarebbe Bolaño? Ma cosa ci fa nell’edizione italiana delle poesie di Auden? No, possiamo scavare più a fondo.  Mi è venuta in mente un’altra presenza spettrale del catalogo di Adelphi, Guido Ceronetti. Anche i suoi libri sono disseminati di fantasmi, soprattutto quando cita o traduce. Così mi sono rivolto a Tra pensieri, uno smilzo volumetto che comprende tutti i pensieri e le citazioni che andava pubblicando su La Stampa nei primi anni Novanta. La citazione numero 266 (ancora, e i numeri significano sempre qualcosa per i morti) è una domanda in latino: “Usque adeone mori miserum est?” Si tratta della risposta che un ufficiale del Pretorio diede a Nerone. Ceronetti la trovò in Vita di dodici Cesari, di Svetonio. La traduce così: “È poi tanto terribile morire?”  È poi tanto terribile la morte? La domanda può far accapponare la pelle, se a porcela è un fantasma. Ma di quale fantasma si tratta? La volta scorsa trovavo una traccia di Flaiano in un romanzo di Philip Roth: possibile che anche ora lo stesso Flaiano…? Dopotutto Ceronetti era un suo grande amico, e Bolaño ha scritto e detto cose che probabilmente lui avrebbe apprezzato, come questa affermazione, a pochi mesi dalla morte:  > “Il mondo è vivo e niente di quel che è vivo si salverà e questa è la nostra > fortuna.”  Forse mi sbaglio. Forse collegare il paragrafo 266 di Ceronetti alla pagina 266 di Auden e infine al romanzo 2666 di Bolaño è una forzatura. Forse voglio solo salvare gli autori che amo e perciò mi ostino a seguire le loro tracce fra un libro e l’altro.  Sono cresciuto a pochi passi dalla casa in cui visse Ennio Flaiano, nel quartiere di Monte Sacro, a Roma, ed è probabile che la sua vicinanza mi suggestioni. Tuttavia un buon lettore deve essere un segugio, come scriveva Claudio Magris, e d’altra parte l’Humboldt di Saul Bellow, autore molto amato da Flaiano, si accomiatava dai suoi amici con queste parole:  > “E da ultimo, ricorda: non siamo esseri naturali, siamo esseri > sovrannaturali.”  Credo di essere d’accordo.  Edoardo Pisani L'articolo “Siamo esseri sovrannaturali”. Ritrovare “2666” di Bolaño a pagina 266 del canzoniere di Auden proviene da Pangea.
September 2, 2025 / Pangea
Nonostante la degenerazione del genere horror, ciò che scrive Manuela Maddamma ci turba e ci piace
Non sono tempi d’oro per le oneste storie di fantasmi. Per chi come me è cresciuto con la compagnia dei grandi spettri ottocenteschi è desolante fare un giro nella sezione degli horror contemporanei, fra best-seller o aspiranti tali che si rifanno più a serie televisive di terz’ordine che alla grande letteratura di un Poe o di una Mary Shelley o di un Matthew Gregory Lewis o anche di uno Stevenson. La letteratura di genere ha sempre meno a che fare con la letteratura e sempre di più con il mercato e dunque con il cinema e le serie televisive, perseguendo una pretenziosa narrazione onnisciente e scorrevole che discende dai libri più o meno riusciti di Stephen King (o dai film tratti da quei libri) ma che finisce dritta dritta nel dimenticatoio del già visto o del banale, fra ripetitive scene “a effetto” mal scritte e mal raccontate che procurano sbadigli di tedio piuttosto che brividi di terrore. Sono sempre più rare le meravigliose strutture a incastro che hanno reso indimenticabili romanzi quali Lo strano caso del dr. Jekyll e del sig. Hyde di Stevenson o, più avanti nel tempo, L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares. Eppure la letteratura sa ancora sorprenderci e spaventarci, specie se, come accade a me, non si crede nel maligno ma lo si frequenta spesso.  Quest’estate l’editore Fandango pubblica uno strano romanzo che rientra certamente nella categoria della migliore letteratura horror: L’affascino, di Manuela Maddamma. Mi erano già capitati fra le mani un paio di scritti di Maddamma contenuti in un volume dedicato ai grandi maledetti dell’Ottocento e del Novecento; uno di essi mi aveva fatto scoprire Aleister Crowley, figura orrifica semmai ve ne furono, cultore di Satana e dell’occulto, perciò quando seppi che Maddamma avrebbe pubblicato un romanzo dell’orrore ne fui più che interessato. È infatti una scrittrice molto peculiare, Manuela Maddamma: appassionata di autori dalle vite tormentate e tragiche, studiosa e traduttrice di Giordano Bruno, è una di quelle ottime stiliste che tendono a pubblicare pochissimo e che dunque bisogna seguire con attenzione. Il suo primo romanzo, Lascia che ti guardi, è del 2005. Ora, vent’anni dopo, esce il suo secondo romanzo, L’affascino. Vent’anni sono molti.  L’affascino è un abile gioco a incastri che rende il lettore non più mero spettatore di ciò che legge bensì parte attiva della storia narrata. Emilio Della Torre è un giovane antropologo che viaggia in Salento per fare delle ricerche sul tarantismo, rituale magico-religioso un tempo molto in voga nel Sud Italia. Il racconto comincia in prima persona e, come in ogni vicenda horror che si rispetti, non mancano le chiese e i preti, Dio e Satana, sebbene in seguito, sfogliando dei rosari, Emilio osserverà che le preghiere e le croci non sono altro che “una delle geniali trovate della superstizione, di quella religione cattolica che da duemila anni mastica tutte le superstizioni precedenti”, come a dire che ciò di cui si occupa lui – e di conseguenza la storia raccontata da Maddamma: L’affascino – è ben più misterioso e terribile delle ordinarie liturgie cristiane.  L’affascino è un romanzo che tratta del Male e dei morti e quindi dei fantasmi che ospitano le nostre paure più ancestrali. La struttura del libro è in gran parte binaria, alternando il diario di Irma, una bambina di tredici anni, ai resoconti di Emilio, che dovrebbe prendersi cura di lei ma che è troppo terrorizzato per farlo. C’è il “vecchio tema del doppio”, come lo chiama Borges ne Il libro di sabbia, perché Irma – la bambina – è anche Mira, sua madre, o forse soprattutto l’altra Mira che la perseguita: il bianco spettro di una bambina che compare pure a Emilio e che di fatto regge il pathos dell’intero romanzo.  Ci sarà un esorcismo. Ci sarà un tentato suicidio. C’è una casa infestata e c’è una maledizione. Tuttavia c’è anche molta letteratura, dai grandi modelli ottocenteschi (soprattutto Poe, Stevenson e James) fino a La Tigre Assenza di Cristina Campo, perché a un certo punto Emilio si dice: “Non sono vane le parole della poetessa, quando conia la definizione di Tigre Assenza. Cos’è infatti, l’assenza della persona cara, se non un essere immondo, dal passo leggero e la stretta definitiva?” Ogni fantasma è quindi un essere immondo. Ogni morto non può che essere una Tigre Assenza.  Chi afferra la massima irrealtà plasmerà la massima realtà, recita il titolo di uno dei capitoli del libro, riprendendo Hofmannsthal, quando Emilio si dispera di non poter combattere il Male e la piccola Irma continua a deperire davanti ai suoi occhi. Emilio però non vuole che la bambina fugga la casa maledetta, egoista nel proprio terrore come se fosse anch’egli un fantasma. Così scrive:  > “Ho sbirciato nel Diario che da un bel po’ tiene nascosto sotto il materasso; > nessun piano di fuga per ora. Tracce della piccina sì, non smette di > tormentarla. Ieri non ha potuto dormire perché dal cuscino le arrivava la sua > vocina ad augurarle la malanotte, una voce prima fievole e poi più nitida e > acuta a rivelarle un sortilegio e infine assordante a urlarle: ‘È una strega > malvagia!’ Allora si è tirata su e ha acceso la luce della lampada per > pregare, ma le parole si ingarbugliavano.”  La piccina è il Male, lo spettro che infesta la casa e il funesto doppio di Irma. La bambina si salverà? E Emilio? Cosa vuole dirci la frase di Hofmannsthal? Se i morti non sono reali, in quale malefica irrealtà possono condurci? L’innocente purezza di Irma, come lo spavento del lettore, è destinata a soccombere al Demonio?  L’accavallarsi del diario di Irma e dei resoconti di Emilio portano la tensione narrativa al culmine, in un crescendo emozionale e stilistico che – nel momento della rivelazione del Male, ossia della maledizione e dell’invocazione al Maligno – ci regalerà quel brivido di terrore proprio della grande letteratura gotica di cui tanto sentiamo la mancanza.  Manuela Maddamma scrive e pubblica poco, forse memore della lezione di Cristina Campo (“Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno”), ma ciò che scrive ci turba e ci piace. L’affascino è un romanzo dell’orrore che merita di essere letto e che inquieta anche dopo la lettura. Gli innocui spaventi delle serie tv e dei best-seller di genere sono lontani, per fortuna. Dalle profonde tenebre dei nostri cuori ammaliati dal racconto, Satana sa ancora sorprenderci.  Edoardo Pisani *In copertina: Gerard David, Il giudizio di Cambiase, 1488 L'articolo Nonostante la degenerazione del genere horror, ciò che scrive Manuela Maddamma ci turba e ci piace proviene da Pangea.
August 18, 2025 / Pangea
“Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro, Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte. Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti. Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi – a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.  Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert, Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.  Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno riprende una frase di John Cheever:  > “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.”  Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura didattici.  Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato), oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e dunque il bel ricordo che ne conserviamo.  Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere, come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:  > “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un > itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché > è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi > sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono > stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità > che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”  Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare, come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte davvero.  Edoardo Pisani *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno  proviene da Pangea.
May 7, 2025 / Pangea
Breve chiosa di filologia spettrale – o dell’incontro postumo fra Ennio Flaiano e Philip Roth
Filologia spettrale. Qualche tempo fa, quando si è saputo che Adelphi sarebbe divenuto il nuovo editore italiano di Philip Roth, mi è venuta voglia di tornare ai suoi romanzi in veste Einaudi. Ho riletto integralmenteOperazione Shylock, poi sono passato a Pastorale americana. Entrambe le traduzioni sono di Vincenzo Mantovani e mi paiono ottime; mi chiedo se Adelphi le conserverà o se proporranno delle nuove versioni.Tuttavia qui non si tratta di traduzioni bensì di fantasmi. Intendo infatti servirmi di un libro di Roth per provare l’esistenza di un fantasma. Vi prego di seguirmi, perché la dimostrazione vuole essere – opere alla mano – inconfutabile.  Stiamo leggendo Pastorale americana. Siamo al secondo capitolo della prima parte, precisamente a pagina cinquantanove. Il narratore del romanzo, Nathan Zuckerman, è alla riunione degli ex studenti della scuola in cui è cresciuto, in una scena che è anche una parodia di Proust. D’un tratto gli si presenta davanti un compagno che non ricorda, Ira Posner. È “un ometto dall’aria severa con una corta barba bianca, un’orribile cicatrice sotto un occhio e due apparecchi acustici”. Zoppica. Si appoggia a un bastone. Respira con difficoltà. Dice a Zuckerman che suo padre è stato molto importante per lui e gli chiede se sia morto. “Sì” fa Nathan. “E il tuo?” La risposta è: “Il mio non vedeva l’ora di morire. L’insuccesso gli ha dato alla testa.” E qui mi sono fermato, riconoscendo una celebre battuta di Ennio Flaiano.  Pare infatti che dopo il fallimento della commedia Un marziano a Roma Flaiano abbia dichiarato: “L’insuccesso mi ha dato alla testa.” In realtà molti attribuiscono la frase a Mino Maccari, amico di Flaiano, che gli avrebbe detto: “L’insuccesso ti ha dato alla testa.” L’attribuzione della boutade è comunque incerta.  Fin qui non c’è niente di trascendentale. Dubito che Roth avesse letto Flaiano, quindi sono andato a cercare il testo in originale. La frase esatta di Roth è: “Failure went to his head in a really big way.” Mantovani la traduce così: “L’insuccesso gli ha dato alla testa”, forse (mi dissi in un primo momento) pensando proprio a Ennio Flaiano.  Andiamo avanti. Voltiamo pagina. Ira Posner chiede a Nathan Zuckerman da quanto tempo sia morto suo padre. La risposta è: “Nel 1969. Da ventisei anni. Molto tempo.” E Ira Posner ribatte: “Per chi? Per lui? Non credo. Per i defunti, è una goccia nel mare.”  E qui cogliamo il fantasma in fragrante. O è lui a volersi rivelare, può darsi. Perché bisogna fare caso ai numeri. Il padre di Nathan Zuckerman è morto da ventisei anni. American Pastoral viene pubblicato nel 1997, mentre la traduzione italiana, Pastorale americana, esce l’anno successivo, nel 1998. E quindi?, direte voi.  E quindi Ennio Flaiano è morto nel 1972, esattamente ventisei anni prima della pubblicazione della versione italiana di Pastorale americana, nel 1998.  Forse Flaiano mi ha dato alla testa. Forse no. Per i morti ventisei anni sono una goccia nel mare, dice Ira Posner dopo aver citato inconsapevolmente Flaiano (“L’insuccesso gli ha dato alla testa”), a ventisei anni esatti dalla sua morte. Ora – nel 2025 – Flaiano è morto da cinquantatré anni e le gocce nel mare sono dunque due. Poco tempo, molto tempo: dipende dai punti di vista. Presto Ennio Flaiano e Philip Roth convivranno nello stesso catalogo. I fantasmi si divertiranno.     Edoardo Pisani L'articolo Breve chiosa di filologia spettrale – o dell’incontro postumo fra Ennio Flaiano e Philip Roth proviene da Pangea.
March 31, 2025 / Pangea