C’è un momento, nel poema Il preludio di William Wordsworth, in cui l’esperienza
più semplice – una passeggiata intorno a un laghetto – diventa rivelazione
assoluta: «Se mai felicità ha visitato l’uomo,/ quel giorno una perfetta
felicità fu mia,/ distesa, continua, calma, contemplativa». È la registrazione
poetica di una calma che nasce dal contatto con il presente, dalla pura adesione
al fluire dell’esistenza. Questi versi sono citati in Elogio della vita
ordinaria. Contro un’idea di falsa grandezza (il Saggiatore, 2025), il nuovo
libro di Filippo La Porta, che ricorre a Wordsworth (il Wordsworth letto dal
grande critico americano Lionel Trilling) per intessere un elaborato, fascinoso
percorso culturale e letterario sulla felicità da rintracciare nelle forme
minime, nella passività elementare, contro la smania competitiva e l’ossessione
dell’eccezionale che contagia i nostri tempi.
Se a proposito di Wordsworth, infatti, Trilling stila un elenco di personaggi
letterari «di umile status e di umile cuore» imparentati con il grande poeta
inglese, collocandoli in una costellazione che va dai camerieri di Hemingway ai
neri di Faulkner, La Porta si collega a sua volta idealmente a questa
genealogia, proponendo un suo atlante dell’ordinario che è anche una
contro-narrazione alla mitologia della grandezza. La parola-chiave di questo
percorso è «quiete», intesa non come inerzia, bensì come forma della misura,
ostinazione a sottrarsi alla logica binaria della grandezza e del fallimento,
del successo e della rovina.Quiete, dunque, come categoria etica ed estetica
dell’amabilità, della mediocritas, parola che originariamente, in latino, non
aveva nulla di dispregiativo. Anzi. Orazio la definiva aurea, alludendo a un
ideale di equilibrio e saggezza; Aristotele, in greco, parlava di mesótes, il
giusto mezzo, ovvero il principio che permette di esaltare ciò che di più umano
esiste nell’uomo, la sua capacità di controllo delle passioni, la sua facoltà di
evitare gli estremi. Ma con l’età moderna qualcosa si incrina: da un lato il
Romanticismo con l’invenzione del genio e del sublime, la figura titanica che si
oppone al mondo, il culto del dolore trasformato in gloria; dall’altro il
capitalismo industriale, che innalza il mito dell’efficienza, della
produttività, del successo come imperativo categorico.
L’aurea mediocritas diventa, allora, la prerogativa per nulla attraente e
invidiabile di chi si accontenta miseramente. Eppure la misura consisteva,
originariamente, nel resistere all’eccesso, nel difendere l’umano
dalla hybris. Oggi, invece, la parola «mediocre» è stata sostituita da un
termine ancora più feroce e odioso: «sfigato». È l’epiteto che equivale alla
condanna sociale per chi non si adegua, non contribuisce al ritmo produttivo e
spettacolare che la società dei consumi pretende. Lo «sfigato» è colui che non
corre e non concorre. Ma proprio per questo è – anche – il granello di sabbia
che inceppa l’ingranaggio. La Porta ribalta pertanto, con la sua attenzione
all’umiltà e al quotidiano, una weltanschauung radicata nella nostra «civiltà»,
svelandone la fallacia, l’illusoria connessione tra tragicità e valore, che è
sempre a rischio di sfociare nel kitsch del sublime. Un ribaltamento che nasce
anche dalla sua esperienza biografica. Nei suoi ricordi del Sessantotto e degli
anni Settanta, la politica appare come un universo totalizzante: la scuola
trasformata in campo di battaglia, le assemblee interminabili, la convinzione
giovanile che chi rifiutava l’impegno politico fosse «inutile». In quella
stagione «calda», tutto sembrava dover passare dalla militanza, ogni gesto
misurato sulla scala della Storia. Ma è proprio dalla memoria di
quell’assolutismo morale che matura, col tempo, una presa di distanza. L’autore
riconosce in quell’atteggiamento il germe di una prepotenza etica, di una
visione che, basata sull’idea astratta di Rivoluzione, rischia di rendere
invisibili le persone concrete. Un caso emblematico – citato nel libro – è
Rossana Rossanda, figura alta e rispettabile, eppure esemplare di una politica
che sapeva guardare alla Storia rischiando di ignorare i singoli individui.
Il percorso biografico, dunque, funziona qui come un rovesciamento di sguardo,
che permette all’autore di passare dall’ossessione per l’azione all’elogio della
discrezione, dall’eroico al quotidiano. È in questo passaggio che La Porta
riconosce il valore sapienziale della mediocritas come modo di abitare il mondo
senza schiacciarlo sotto il peso di un’idea. E lo fa attraverso la letteratura,
costruendo un canone personale di personaggi della «vita ordinaria», a partire
da Lady Bertram sdraiata sul sofà in Mansfield Park di Jane Austen – vera icona
anti-eroica – e nello stesso romanzo, dalla protagonista Fanny Price con la sua
ostinata riservatezza, per proseguire con Oblomov nella sua vestaglia lisa,
quasi una sindone dell’inazione, nel capolavoro di Gončarov, i «ragazzini sempre
sconfitti» di Elsa Morante, i «non illustri» di Pontiggia, il dantesco Belacqua
che affascinò Beckett, e molti altri (perfino organismi come i licheni nelle
poesie di Camillo Sbarbaro, simbolo delle forme neglette della vita). Tutti
marginali, tutti apparentemente votati a un orizzonte ridotto, «del soprasuolo»
verrebbe da dire, contrapposti ai «profondi» Amleto e Raskolnikov. Eppure,
questi personaggi sono latori di una conoscenza, di un’acquisizione altrettanto
epifanica, se solo riuscissimo a concepire come valori cruciali – come viatico
di sopravvivenza – la loro disponibilità, la capacità di adattamento, di
comprensione, di relativismo.
Si tratta di una sapienza umile basata sull’attitudine ad apprendere la non
giudicabilità della vita – la sua irriducibilità a qualsiasi formula definitoria
– e a cercare gli interstizi per abitarla. Una sapienza che si traduce nella
pratica della mediazione, come ricorda Camus ne L’uomo in rivolta, opponendo la
«misura» alla «dismisura» che conduce al nichilismo. L’intreccio di riferimenti
che il libro propone è ricco e mai ornamentale: si va dalla citata Austen a
Manzoni, da Kafka a Orwell, da Chesterton a Hannah Arendt. Non manca la memoria
ebraica: la schiera invisibile dei «giusti nascosti» del Talmud, coloro che con
la sola esistenza impediscono la catastrofe. È un’idea che dialoga con l’elogio
della vita ordinaria: figure senza clamore, ma necessarie al mondo.
La Porta dunque smaschera il mito performativo che alimenta il presente, diffida
della retorica del «merito», denuncia l’ossessione per il successo da
talent-show. E al tempo stesso rivendica la giustizia minima di chi vive senza
clamore, la dignità di chi non si separa dalla comunità, la possibilità di amare
le creature – per riprendere il rabbino Hillel – proprio nella loro fragilità e
limitatezza.
La conclusione del libro è affidata a un ricordo personale: il suocero discreto,
amante dell’opera lirica e dei viaggi, che seppe seguire il suo ritmo senza
farsi sedurre dalle fanfare della Storia. È il volto concreto di quell’elogio:
la vita che non aspira all’eccezionalità, ma che custodisce nel suo stesso passo
la verità di un’esistenza riuscita. In fondo, nonostante il suo tono allocutorio
e affabile, la domanda che ci consegna questo libro è molto più radicale della
tesi che vuole sostenere: siamo ancora capaci di vedere, di riconoscere, di
amare l’invisibile che ci vive accanto?
Fabrizio Coscia
*In copertina: una scultura di Franz Xaver Messerschmidt
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