Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in
quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi.
Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della
maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per
descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che
non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello
spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si
scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo
corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di
fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla
necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e
del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per
trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in
superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità
umana dell’abbandono.
Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore
incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il
Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola
diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme
alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire
che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del
testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e
l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare
un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda,
incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di
racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice,
può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E
pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!
Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una
pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra
Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate
sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso.
Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in
quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo
neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento,
di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della
creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo
la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo
delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in
atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede?
A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa,
inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare
mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci
sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche
se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro
divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e
Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei
pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo
lo spessore dei maestri.
Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un
libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il
sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione.
Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta
magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto,
niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in
mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico
sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si
salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per
raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il
quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre.
Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura
che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto,
insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca
dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della
propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora
quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire
l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo,
si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero
assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo,
come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche
il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un
infinito.
Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad
avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda,
gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare
come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a
fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito.
Oggi è più grave?
La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque
cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in
una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed
esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della
parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede
forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità
della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma
senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la
pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa
riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta,
un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La
parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al
chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è
personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci
sorprende.
Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore
insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra
gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani,
risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la
sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei
si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman
non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la
vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è
persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è
capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso.
Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso.
Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo.
Ricominciamo, leggiamo l’inizio:
> “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona
> gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al
> viaggio”.
L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole,
realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a
cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe,
si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di
seguito si legge:
> “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare
> il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una
> mappa”.
Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:
> “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e
> tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”.
Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e
così pure il lettore:
> “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed
> ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì,
> rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini
> dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a
> svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e
> capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che
> dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e
> desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro
> corpi avvinti”.
Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole
sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto
inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue,
allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua
immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che
gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo
nell’Ora denominata occidentale orientale:
> “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e
> arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre
> ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati
> nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e
> slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni
> si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.
Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo
sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai
contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e
di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo
nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine
di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al
piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale
sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri
all’incontrario”).
Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che
siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non
a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:
> “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a
> un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di
> fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su
> materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione
> delle ore ti dà misura di te”.
Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò
anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola
che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella
che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte.
L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che
uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva,
attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.
> “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su
> quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi
> dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo
> quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si
> avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia
> gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al
> tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per
> dare chiarore alla notte”.
Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne.
“La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:
> “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume
> senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e
> capoversi”.
Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un
indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza
saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo.
Vincenzo Gambardella
*In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916)
L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di
Silvio Perrella proviene da Pangea.
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Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le
briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a
becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri.
Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.
Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni
versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il
sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a
tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di
tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che
“ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti,
di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103:
> “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg
> Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con
> cui Trakl si tolse la vita”.
Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl,
“La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un
libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.
Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è
certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla
schiena.
In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di
Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio
Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha
parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di
un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare
la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le
arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò
Rilke.
Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano,
trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi
baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se
può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente
fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né
aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.
I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso
di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come
l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a
carapace, le zanzare.
Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede
per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue
poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.
Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo
assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati
alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre
menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove:
> “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti
> della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro
> scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto.
>
> Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio
> degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per
> la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle
> quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato
> biologico”.
Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer.
Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.
Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di
Melicuccà, Calabria.
Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare
il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non
supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo
alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno
credi.
Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico.
Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale
incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso
tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la
sprezzante indifferenza verso il denaro”.
Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo.
Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro
e congioire dei fiori, un rogo.
Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa
significa?
La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni
Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una
sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente:
la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del
linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di
attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia.
Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal
mondo – è mondo o immondo?
Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello
spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto
è fare narrazione… i fatti… esistono?
Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la
sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica?
Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque
etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke
in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San
Remo.
Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato?
Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni
Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali.
Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere?
“Trasumanar per verba non si poria”.
Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del
quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine
la poesia?
La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla
sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne
vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene.
Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re?
Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei,
insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e
Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e
ovviamente Dante. E i Salmi…
La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare?
Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si
conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova.
Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta
‘cultura’?
Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo
in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si
dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone
come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si
deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma
buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti.
L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero:
sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove proviene da Pangea.
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso,
William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto
del sottosuolo; il Principe della morfina.
La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.
E da una leggenda bugiarda.
Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura
sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei
meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da
Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac
McCarthy.
Burroughs in delirio lisergico.
Piglia la pistola.
Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola.
William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo
sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le
spara in faccia.
> “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un
> revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un
> colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi
> cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo
> Tell. Una cosa assurda e falsa”.
Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante
narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947,
e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello
del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del
tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse
cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la
tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la
stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.
Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack
Kerouac il suo profeta.
> “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la
> scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso,
> naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli
> rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato
> piuttosto tardi”.
Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente
Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero
fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è
il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della
droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,
> “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che
> sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.
Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì
questa didascalia:
> “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un
> illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse
> possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso,
> inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.
Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi
e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un
drogato”.
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava
rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che
raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di
monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs
stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in
quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a
monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il
Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia,
farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto
sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un
pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte
al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie
cose non interessano i testi”).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui,
registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che
piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:
> “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai
> sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica.
> Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno
> dei miei preferiti”.
Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”),
non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente
crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande
racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e
tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è
molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno
dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo.
In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte
analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:
> “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano
> simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un
> diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso
> che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.
Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già
allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale
del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo
tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni
diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo
di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi
annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I
Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di
aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un
ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima
distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).
Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con
educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata
alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali
spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto
nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua
vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.
Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno
all’ottimismo.
L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William
S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.