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“Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi. Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità umana dell’abbandono. Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda, incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice, può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!  Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso. Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento, di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede? A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa, inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo lo spessore dei maestri.  Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione. Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto, niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre. Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto, insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo, si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo, come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un infinito. Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda, gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito. Oggi è più grave? La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta, un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci sorprende.  Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani, risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso. Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso. Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo. Ricominciamo, leggiamo l’inizio: > “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona > gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al > viaggio”.  L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole, realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe, si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di seguito si legge:  > “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare > il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una > mappa”.  Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:  > “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e > tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”. Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e così pure il lettore:  > “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed > ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì, > rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini > dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a > svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e > capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che > dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e > desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro > corpi avvinti”. Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue, allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo nell’Ora denominata occidentale orientale:  > “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e > arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre > ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati > nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e > slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni > si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.  Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri all’incontrario”). Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:  > “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a > un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di > fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su > materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione > delle ore ti dà misura di te”. Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte. L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva, attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.  > “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su > quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi > dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo > quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si > avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia > gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al > tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per > dare chiarore alla notte”.  Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne. “La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:  > “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume > senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e > capoversi”.  Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo. Vincenzo Gambardella *In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916) L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
“Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove
Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri. Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.  Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che “ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti, di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103: > “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg > Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con > cui Trakl si tolse la vita”.  Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl, “La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.  Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla schiena. In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò Rilke.  Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano, trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.  I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a carapace, le zanzare.  Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.  Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove: > “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti > della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro > scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto. > > Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio > degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per > la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle > quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato > biologico”. Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer. Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.  Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di Melicuccà, Calabria.  Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno credi.  Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico. Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la sprezzante indifferenza verso il denaro”.  Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo. Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro e congioire dei fiori, un rogo.   Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa significa? La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente: la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del  linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia. Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal mondo – è mondo o immondo? Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto è fare narrazione… i fatti… esistono? Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica? Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San Remo. Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato? Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali. Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere? “Trasumanar per verba non si poria”. Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine la poesia? La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene. Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re? Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei, insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e ovviamente Dante. E i Salmi…  La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare? Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova. Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta ‘cultura’? Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti. L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove  proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea
Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William S. Burroughs, un ottimista
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso, William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto del sottosuolo; il Principe della morfina.  La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.  E da una leggenda bugiarda.  Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac McCarthy.  Burroughs in delirio lisergico.  Piglia la pistola.  Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola. William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le spara in faccia.  > “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un > revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un > colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi > cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo > Tell. Una cosa assurda e falsa”.  Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947, e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.  Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack Kerouac il suo profeta. > “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la > scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso, > naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli > rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato > piuttosto tardi”.  Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della droga.  Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,  > “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che > sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.  Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì questa didascalia:  > “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un > illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse > possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso, > inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.  Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un drogato”.  L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia, farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie cose non interessano i testi”).  Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui, registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:  > “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai > sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica. > Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno > dei miei preferiti”.  Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”), non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo. In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:  > “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano > simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un > diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso > che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.  Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).  Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.  Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno all’ottimismo.  L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.
April 4, 2025 / Pangea