“Abbiamo giocato e io ho perso. Esigo la morte”. Sono le ultime parole di Drieu.
Lapidarie, si può dire. La Rochelle le scrive nervosamente su un pezzetto di
carta prima di ammazzarsi.
Non la morte eroica che aveva immaginato. Eppure l’idea di una morte
annichilente, notturna, senza speranza, lo aveva già accarezzato attraverso il
suo alter ego Alain, in Le feu follet (Fuoco fatuo). Nel 1931, Drieu pubblica
con Gallimard una storia di vagabondaggio morale: Alain Leroy, intellettuale
parigino assuefatto alla droga, durante la sua ultima notte, vaga per Parigi
incontrando amici e conoscenti. Nessuno di loro lo salverà da se stesso. Mai
come nella sua ultima notte, così affollata, Alain è solo. Senza le due donne
della sua vita, la moglie Dorothy, ormai stanca di assecondare la sua
dipendenza, e l’amante Lydia, figura fantasmatica che scompare dall’alcova
amorosa col sorgere del sole.
Due anni prima, a suicidarsi era stato Jacques Rigaut, amico di Drieu. La storia
è ispirata al suicidio dello scrittore surrealista, ma prelude al suicidio di
Drieu stesso, tredici anni dopo. È il 1945, Drieu è compromesso col regime
collaborazionista di Vichy. Ha provato ad ammazzarsi due volte nel 1944. Non ce
l’aveva fatta. Come il poeta austriaco Georg Trakl, che, segnato dall’orrore
della Prima Guerra Mondiale, tentò senza successo di uccidersi prima di chiudere
definitivamente con il mondo, anche Drieu è così poeta, così incomprensibilmente
e involontariamente attaccato alla vita da non riuscire a morire. Il 15 marzo
del ’45 i giornali annunciano un mandato di cattura contro di lui, a nulla erano
valse le assicurazioni degli amici André Malraux e Louis Aragon, che gli avevano
promesso salvezza.
Drieu stacca il tubo del gas e si imbottisce di fenobarbital.
Stavolta ce la fa.
1931. Antoine de Saint-Exupéry pubblica Vol de nuit con Gallimard. Ambientato
negli anni pionieristici dell’aviazione postale, nel romanzo prendono forma le
incertezze e le insidie dei cieli notturni. Il pilota Fabien affronta un volo
rischioso sopra le Ande, mentre a terra il direttore Rivière incarna la
disciplina e il rigore del dovere.
Perché leggere parallelamente questi due romanzi, apparentemente così
diversi? Nello stesso anno, schiacciato tra due Guerre, due autori profondamente
compromessi con la realtà politica francese – un devoto fascista e un fautore
dell’umanesimo – elaborano due romanzi brevi che si esauriscono in una notte,
snocciolando, entro la parabola vitale di una falena, l’intera visione del
mondo.
I due testi rispondono alla necessità dei rispettivi autori di scrivere per
offrire una proiezione autobiografica di se stessi. Non sono autobiografie,
però: gli intrecci dei due romanzi prendono le mosse dalla morte di amici dei
rispettivi autori. Jean Mermoz è Fabien e Jacques Rigaut è Alain, ma entrambi i
ritratti di questi due personaggi sono la rappresentazione sformata del pensiero
autoriale. L’intreccio basato sul fatto biografico amicale è quindi maschera di
una volontà di autorappresentazione, nonché il dispositivo che entrambi gli
autori sfruttano per esporre la conflittualità intrinseca delle proprie
posizioni. Se in Vol de nuit, infatti, Saint-Exupéry costruisce sui personaggi
di Fabien e Rivière un’etica rigidissima di dedizione, responsabilità e
umanesimo, in Le Feu follet, La Rochelle tratteggia in Alain il prototipo
dell’esteta decadente, assuefatto alla droga e alla menzogna, privo di
qualsivoglia tensione ideale.
I personaggi di Vol de nuit riflettono con coerenza l’etica dell’autore, pur
senza nascondere, talvolta, voci alternative, dubbi e ripensamenti: l’impronta,
per così dire, dialogica e testimoniale del romanzo è l’opportunità di costruire
per contrasto una visione eroica complessa. Alain è invece il prodotto di uno
specchio deformante entro cui il proprio autore si riflette. Deformante perché,
di fronte al nichilismo spiazzante di Alain, non si può non considerare il
vitalismo politico-intellettuale del Drieu uomo e pensatore, ideologicamente in
aperto contrasto con l’individualismo proclamato dal suo personaggio, ma, di
fatto, praticato dallo scrittore.
Lo stesso rapporto dell’autore con il relativo personaggio speculare è
differente: laddove Saint-Exupéry manifesta un vero e proprio sentimento di
ammirazione per Rivière, La Rochelle oscilla tra l’immedesimazione (soprattutto
nei tratti misantropici, classisti ed estetici) e la condanna («In questo
s’ingannava»). Il suo protagonista è un nichilista totale, disgustato dal suo
tempo e dalla società che lo circonda. Fin qui, il ritratto potrebbe anche
combaciare.
In effetti, stando alle parole di Louis Aragon, che La Rochelle lo conosceva
bene, Drieu in politica era «ambiguo, inaffidabile». La solitudine esistenziale
tradita anche dal suo personaggio, oltre a un’assenza di fede unita alla
necessità di praticare una ‘religione laica’, lo conduce all’adesione al
fascismo. Solo nel ’36 propende per il Partito popolare di Doriot. Durante la
guerra collabora con Vichy, sentendosi al contempo vicino alla Russia
stalinista. Teorizza il socialismo fascista. Il protagonista di Fuoco fatuo,
invece, non crede in nulla. Il rovesciamento e al contempo la conferma di quel
vitalismo decadente che La Rochelle incarna nella vita, nei romanzi e nella
poesia. Mitizza il fallimento, ne definisce un culto, scolpisce un altare
profano. Un antieroe a tutti gli effetti, che si crogiola nel disprezzo per il
mondo e che trova nella droga il compimento del suo potere sulla terra e al
tempo stesso l’annullamento di sé. Ma Drieu è un individualista che odia il
proprio individualismo e vede la decadenza dell’Europa proprio nell’individuo
come fine.
Da rilevare anche come l’idea dell’impotenza dei piloti durante il volo di notte
(«Sulle rive di quella notte gli uomini si agitavano impotenti») trovi una forte
somiglianza con l’impotenza (che è anche, invero, indolenza) di Alain, che
durante il giorno è già consapevole che quella stessa notte dovrà drogarsi.
> «Ma quella stessa sera, poiché aveva diecimila franchi, si sarebbe drogato di
> nuovo».
Un senso di predestinazione e ineluttabilità che, se per Fabien e Rivière è un
rischio calcolato, un’assunzione di responsabilità, per Alain è passiva
accettazione della propria natura in virtù di un generale disprezzo per il mondo
circostante. Una condizione esistenziale che sembra non poter essere piegata da
nessuna delle figure che gravitano intorno ad Alain. Quegli affetti della vita
stanziale agognate ma inarrivabili per Fabien e Rivière – così concentrati sulla
loro impeccabile etica del dovere – e possedute ma inutili per Alain, che
esaspera la stanzialità fino alla stagnazione, alla monotonia scandita solo dal
rito liturgico della droga. La santa messa dell’Europa delle cattedrali vuote.
Si rovescia la figura paradigmatica del concetto di responsabilità incarnata dal
Rivière autoritario e «responsabile di un cielo intero», sostituito in Fuoco
fatuo da un medico indulgente, che fa appello alla sola (e debolissima, se non
inesistente) volontà individuale, che sceglie di non esercitare alcuna autorità
sul paziente, provando disagio, incapace di spronare il drogato e di dirgli che,
in fondo, «la vita era bella». Magra consolazione: meglio un’altra dose.
Annullarsi fino a scomparire. Ministro di un culto oscuro e indemoniato.
D’altro canto, Alain stesso incarna l’antitesi a qualsivoglia senso di
responsabilità: nel rapporto con le donne della sua vita, nel continuo ricadere
nel tunnel della tossicodipendenza senza mai sentire davvero la volontà di
uscirne. Ma anche nell’approccio fin troppo sarcastico e scanzonato alla sua
condizione e alle sue relazioni, nonché nel suo volontario distacco da
impalcature ideologiche e strutture sociali. Ogni suo comportamento lo allontana
da quelle assunzioni di responsabilità che rendono maturo un uomo. O che rendono
uomo un uomo. In effetti, rifiuta l’idea di giustizia e il concetto di verità e
crede solo nel corpo solido: d’acciaio, magari, la pistola. Puro materialismo.
Quasi sessuale.
E poi c’è lei, ovviamente. La morte. Sembra un fatto inevitabile. Per il
protagonista di Saint-Exupéry è il compimento della grandezza dell’eroe, il
sacrificio necessario per accedere a una dimensione superomistica. Per Alain la
morte è solo la «notte definitiva», è il morire un po’ per volta, giorno dopo
giorno, mantenendo sempre vicine la siringa e la pistola, vincolando l’atto del
bucarsi a un perpetuo memento mori (e forse anche un cupio dissolvi). La scelta
di Alain è quindi tra “crepare” e “suicidarsi”:
> «Preferirei morire anziché crepare».
Cioè: lasciarsi uccidere lentamente dalla droga, o ammazzarsi, sparandosi, in un
atto mosso da quella che in un primo momento considera «una forza estranea e
idiota», ma che sempre di più gli sembra l’unica via di fuga. Un’esplosione di
vitalità che si concreta in una «morte tardiva». Superomismo zoppicante:
> «La vita non andava abbastanza in fretta in me, devo accelerarla. La curva
> cedeva, la raddrizzo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo
> dimostro».
(Abbiamo giocato e io ho perso. Esigo la morte). Questo è Drieu. Il perdente –
il delicato – che esige la morte.
Chi è allora questo dandy piegato dalla monotonia della droga e dall’erotica
noia borghese? Un anti-eroe tragico, la cui volontà individuale risulta sempre
sopraffatta dal peso di un destino già segnato, da un mondo in cui trova solo
«forme vuote». Non l’antitesi del suo autore, dunque, ma la manifestazione
epifanica di ciò che La Rochelle più di ogni altra cosa odiava di sé.
Giulio Solzi Gaboardi
*Le citazioni dai romanzi sono tratte da “Volo di notte”, Bompiani, 2020, e
“Fuoco fatuo, Passigli, 2016. Si ringrazia Valeria Vitali per la preziosa
collaborazione.
In copertina: immagine tratta da “Fuoco fatuo”, film di Louis Malle del 1963,
con Maurice Ronet e Jeanne Moreu come protagonisti
L'articolo Accelerare la vita. Drieu vs. Saint-Exupéry: intorno a due romanzi
“notturni” proviene da Pangea.