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“Gli iniziati del cuore”. Vita & morte di Jacques Rigaut, un fuoco fatuo
Meglio un portinaio impiccato che un poeta vivo. Così sentenzia nel suo Sommario di decomposizionequell’apologeta incoerente del suicidio che fu Emil Cioran, le cui parole poste in epigrafe ci introducono agli scritti, editi in Italia per la traduzione e la cura di Arlindo Hank Toska (Sarò un grande morto, ed. Joker), del dandy surrealista morto nel 1929 Jacques Rigaut. Rigaut, l’indolente Alain immortalato da Pierre Drieu La Rochelle – amico di distratte bevute di Martini al Ritz di Parigi – in Fuoco fatuo (Louis Malle, nel 1963, ne farà un film indimenticabile), resoconto delle ultime ore di un trentenne scrittore che cerca di disintossicarsi da alcol e droga mentre medita il da farsi dentro un mondo che pare rigettarlo come un organo non tollerato.  Chiaramente, parlare di Jacques Rigaut vuol dire anche rievocare la Parigi di quei formidabili primi decenni del ’900, teatro di incontri indimenticabili nell’incrocio, peraltro drammatico, di letteratura e Storia. Alain è stato, fino a quando chi l’ha creato non ha emulato in qualche modo nell’epilogo l’amico, lo specchio del fantasma Jacques e del vivo senza troppa convinzione Drieu; entrambi hanno condiviso una pervicace resistenza alla vita, un modo di stare al mondo neppure di passaggio, come turisti distratti da una meta reale e troppo lontana, ma come chi vorrebbe amare una donna sapendo che più che sfiorarla non può e andare fino in fondo si traduce necessariamente in una vocazione al precipizio. Nel gioco delle comparse, nella città con i suoi luoghi diventati di culto per i personaggi straordinari, nel bene e nel male, che li hanno frequentati Rigaut stesso ha vissuto come una comparsa di poca importanza che per nessuna ragione poteva essere trattenuta: “Prova, se riesci, a fermare un uomo che viaggia col suicidio all’occhiello” sicché – nelle parole che prendiamo in prestito da Addio a Gonzague – tra il fango e la morte la decisione per i Jacques, i Drieu e gli Alain è drammaticamente ovvia, laddove la seconda diventa, per dirla sempre con il Gonzague che ci restituisce il dolore mai lenito di Drieu per non aver fatto abbastanza, “ciò che si poteva fare di più bello”.  Qui esplode la questione del rapporto tra estetica e suicidio: non pochi studiosi hanno, in un certo senso, liquidato l’affaire Rigaut ascrivendolo all’atteggiamento in voga in quegli anni, tanto dei dadaisti quanto dei surrealisti, di elevare il suicidio a momento di massima autoaffermazione estetica. Ma è una scorciatoia interpretativa che lascia il tempo che trova. Intanto, in una lettera all’amica Simone Kahn, Rigaut ha scritto di essere assorbito da una noia che definiamo cannibale e che avrebbe potuto pensare di farla finita con la stessa poca convinzione con cui aveva sempre vissuto; neppure avere ragione poteva servire a qualcosa. Coniugando al presente, Rigaut in uno scritto sottolinea l’inutilità del possederla: “Io ho sempre ragione, tu hai sempre ragione” fino a “Loro hanno sempre ragione” e viene quasi da pensare alle parole di quella carogna geniale di Céline che ci esorta ad imparare ad aver torto: il mondo è pieno di gente che ha ragione ed è per questo che marcisce. Inevitabilmente, anche i pensieri e le parole sembrano dimorare sulla carta in modo sbadato, quasi per caso, del resto la scrittura è senza dubbio il coraggio dei deboli.  > […] Per un occhio esperto, non c’è differenza tra perdere > e vincere. Se non c’è nulla da vincere, cosa c’è da perdere? > Il diavolo è passato di qui, si era già notata la sua > traccia, un’ala grigia e molto appuntita all’ora della > grazia. Lord Patchogue è inebriato dalla peggiore vanità > della perdita. Ogni occasione lo trova esatto, è il > suo unico appuntamento. Diminuire, atrofizzarsi – > sempre meno – che ebbrezza. Il segno –, un inno nazionale, > la parola d’ordine degli iniziati del cuore. Ogni > mese, se non ogni giorno, lo trova un po’ più inadatto > a gestire tutto ciò che serve a trovare, a muoversi, a > evadere; attenzione arrugginita.  Rigaut si è guardato allo specchio e nel riflesso è sortito Lord Patchogue, una sensibilità mai realizzata nell’azione, giaciglio di un’irraggiungibile salvezza. Come ha scritto in Evasione, quarto capitolo di Lord Patchogue “non succede niente, o almeno non è mai successo niente.” Tutto quello che rimane è la contemplazione del proprio guscio. “Sorride: “Presto sarò in una sola parola”. Si è rifugiato nella vigliaccheria, a ciascuno la sua dignità”. L’immagine sancisce una distanza, anche quando a fermarla in un istante che ambisce pretenziosamente all’eternità è una fotografia che più che salvare ciò che è stato, sbatte in faccia senza troppi riguardi un’assenza. Come quella di Rigaut che Drieu la Rochelle si fece spedire dalla famiglia e davanti alla quale cominciò a scrivere il suo Fuoco Fatuo. Ma la foto, così come il romanzo, più che l’opera di un testimone, ricordano Hank Toska e Jonathan Bortolotti nelle parole che chiosano il libro, sono lo sforzo di non cedere al tradimento del ricordo, che non è la stessa cosa della memoria. Davanti all’istantanea gli occhi che la guardano sono gli stessi che per un attimo dovranno chiudersi per salvare nel pensiero il suono di una voce, “il peso della sua presenza – i gesti che definivano il suo nome”. La memoria è il luogo di un paradossale e precario equilibrio tra ciò che è stato e ciò che non è che riguarda l’osservato e chi osserva. Poi, anche l’immagine migra in qualche altrove, come misteriosamente migrano le parole nel tentativo impossibile di nominare un’assenza, inchiodando la vita sulla punta della lingua di uomini arruolati alla morte.  Livia Di Vona L'articolo “Gli iniziati del cuore”. Vita & morte di Jacques Rigaut, un fuoco fatuo proviene da Pangea.
March 13, 2025 / Pangea