Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
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tragico proviene da Pangea.
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Meglio un portinaio impiccato che un poeta vivo. Così sentenzia nel suo Sommario
di decomposizionequell’apologeta incoerente del suicidio che fu Emil Cioran, le
cui parole poste in epigrafe ci introducono agli scritti, editi in Italia per la
traduzione e la cura di Arlindo Hank Toska (Sarò un grande morto, ed. Joker),
del dandy surrealista morto nel 1929 Jacques Rigaut. Rigaut, l’indolente Alain
immortalato da Pierre Drieu La Rochelle – amico di distratte bevute di Martini
al Ritz di Parigi – in Fuoco fatuo (Louis Malle, nel 1963, ne farà un film
indimenticabile), resoconto delle ultime ore di un trentenne scrittore che cerca
di disintossicarsi da alcol e droga mentre medita il da farsi dentro un mondo
che pare rigettarlo come un organo non tollerato.
Chiaramente, parlare di Jacques Rigaut vuol dire anche rievocare la Parigi di
quei formidabili primi decenni del ’900, teatro di incontri indimenticabili
nell’incrocio, peraltro drammatico, di letteratura e Storia. Alain è stato, fino
a quando chi l’ha creato non ha emulato in qualche modo nell’epilogo l’amico, lo
specchio del fantasma Jacques e del vivo senza troppa convinzione Drieu;
entrambi hanno condiviso una pervicace resistenza alla vita, un modo di stare al
mondo neppure di passaggio, come turisti distratti da una meta reale e troppo
lontana, ma come chi vorrebbe amare una donna sapendo che più che sfiorarla non
può e andare fino in fondo si traduce necessariamente in una vocazione al
precipizio.
Nel gioco delle comparse, nella città con i suoi luoghi diventati di culto per i
personaggi straordinari, nel bene e nel male, che li hanno frequentati Rigaut
stesso ha vissuto come una comparsa di poca importanza che per nessuna ragione
poteva essere trattenuta: “Prova, se riesci, a fermare un uomo che viaggia col
suicidio all’occhiello” sicché – nelle parole che prendiamo in prestito da Addio
a Gonzague – tra il fango e la morte la decisione per i Jacques, i Drieu e gli
Alain è drammaticamente ovvia, laddove la seconda diventa, per dirla sempre con
il Gonzague che ci restituisce il dolore mai lenito di Drieu per non aver fatto
abbastanza, “ciò che si poteva fare di più bello”.
Qui esplode la questione del rapporto tra estetica e suicidio: non pochi
studiosi hanno, in un certo senso, liquidato l’affaire Rigaut ascrivendolo
all’atteggiamento in voga in quegli anni, tanto dei dadaisti quanto dei
surrealisti, di elevare il suicidio a momento di massima autoaffermazione
estetica. Ma è una scorciatoia interpretativa che lascia il tempo che trova.
Intanto, in una lettera all’amica Simone Kahn, Rigaut ha scritto di essere
assorbito da una noia che definiamo cannibale e che avrebbe potuto pensare di
farla finita con la stessa poca convinzione con cui aveva sempre vissuto;
neppure avere ragione poteva servire a qualcosa. Coniugando al presente, Rigaut
in uno scritto sottolinea l’inutilità del possederla: “Io ho sempre ragione, tu
hai sempre ragione” fino a “Loro hanno sempre ragione” e viene quasi da pensare
alle parole di quella carogna geniale di Céline che ci esorta ad imparare ad
aver torto: il mondo è pieno di gente che ha ragione ed è per questo che
marcisce. Inevitabilmente, anche i pensieri e le parole sembrano dimorare sulla
carta in modo sbadato, quasi per caso, del resto la scrittura è senza dubbio il
coraggio dei deboli.
> […] Per un occhio esperto, non c’è differenza tra perdere
> e vincere. Se non c’è nulla da vincere, cosa c’è da perdere?
> Il diavolo è passato di qui, si era già notata la sua
> traccia, un’ala grigia e molto appuntita all’ora della
> grazia. Lord Patchogue è inebriato dalla peggiore vanità
> della perdita. Ogni occasione lo trova esatto, è il
> suo unico appuntamento. Diminuire, atrofizzarsi –
> sempre meno – che ebbrezza. Il segno –, un inno nazionale,
> la parola d’ordine degli iniziati del cuore. Ogni
> mese, se non ogni giorno, lo trova un po’ più inadatto
> a gestire tutto ciò che serve a trovare, a muoversi, a
> evadere; attenzione arrugginita.
Rigaut si è guardato allo specchio e nel riflesso è sortito Lord Patchogue, una
sensibilità mai realizzata nell’azione, giaciglio di un’irraggiungibile
salvezza. Come ha scritto in Evasione, quarto capitolo di Lord Patchogue “non
succede niente, o almeno non è mai successo niente.” Tutto quello che rimane è
la contemplazione del proprio guscio. “Sorride: “Presto sarò in una sola
parola”. Si è rifugiato nella vigliaccheria, a ciascuno la sua dignità”.
L’immagine sancisce una distanza, anche quando a fermarla in un istante che
ambisce pretenziosamente all’eternità è una fotografia che più che salvare ciò
che è stato, sbatte in faccia senza troppi riguardi un’assenza. Come quella di
Rigaut che Drieu la Rochelle si fece spedire dalla famiglia e davanti alla quale
cominciò a scrivere il suo Fuoco Fatuo. Ma la foto, così come il romanzo, più
che l’opera di un testimone, ricordano Hank Toska e Jonathan Bortolotti nelle
parole che chiosano il libro, sono lo sforzo di non cedere al tradimento del
ricordo, che non è la stessa cosa della memoria. Davanti all’istantanea gli
occhi che la guardano sono gli stessi che per un attimo dovranno chiudersi per
salvare nel pensiero il suono di una voce, “il peso della sua presenza – i gesti
che definivano il suo nome”. La memoria è il luogo di un paradossale e precario
equilibrio tra ciò che è stato e ciò che non è che riguarda l’osservato e chi
osserva. Poi, anche l’immagine migra in qualche altrove, come misteriosamente
migrano le parole nel tentativo impossibile di nominare un’assenza,
inchiodando la vita sulla punta della lingua di uomini arruolati alla morte.
Livia Di Vona
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fatuo proviene da Pangea.