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“Lasciati andare, buttati, dimentica”. Per un omaggio a James Joyce
Non sono molte le fotografie in cui Joyce guarda dritto di fronte a sé. Quasi sempre si offre di profilo, in una posa a tre quarti che ricorda i ritratti rinascimentali. Lo sguardo vaga verso misteriose zone del pensiero. Ne nasce l’impressione di trovarsi davanti a un predone del futuro, un contrabbandiere d’infinito. Chi osserva ne riceve una scossa segreta. Joyce è un campione d’eleganza: veste sempre in modo impeccabile, con cravatte raffinate sulle camicie inamidate, talvolta un papillon più svolazzante, la bombetta calata sul capo da cui, con timidezza combattuta, spuntano orecchie appena a sventola. Non fosse per la sua graduale cecità – negli ultimi anni era costretto a indossare una benda nera sull’occhio sinistro, da pirata – nel mio bestiario affettivo di scrittori e poeti Joyce sarebbe un falco. Come un rapace, irrompe nel cielo squarciando il velo del presente, lanciato in una forsennata ricerca del futuro. Meglio allora accostarlo a un rapace notturno, un barbagianni capace di volteggiare silenziosamente nelle tenebre. Nell’antichità gli àuguri scrutavano gli uccelli per cogliervi presagi divini: il futuro si rivelava attraverso la direzione e la provenienza del volo. Allo stesso modo, leggere Joyce è presagio di futuro: lo schiudersi delle infinite possibilità del reale nell’orizzonte della vita. D’altronde, in un passo magnifico del suo Ritratto, libro-amuleto da tenere sempre in tasca contro le trappole della maturità, Joyce affida a Dedalus queste parole: > “…e per secoli gli uomini hanno guardato in alto come lui ora guardava gli > uccelli in volo. Il porticato sopra di lui gli ricordava vagamente un tempio > antico e il bastone al quale si appoggiava stancamente gli ricordava quello > ricurvo di un augure.” Poche pagine prima di questa epifania, dall’avamposto di Howth, Dedalus contempla la spuma proteiforme delle nuvole che solcano il mutevole cielo irlandese. Sono in viaggio verso il Continente, verso quell’Europa misteriosa fatta di idiomi stranieri, valli e cittadelle cinte di boschi, da cui sembra levarsi una musica confusa, prefigurazione dell’esilio di Joyce. Da qui inizia una delle più grandi e radicali avventure creative dei nostri tempi, che non ha ancora esaurito – e forse non esaurirà mai – la sua dirompente carica rivoluzionaria. Grandi, anche grandissimi scrittori, una volta letti danno l’impressione di aver detto fino in fondo ciò che avevano da dire. Con Joyce, questo non accade: la partita resta sempre aperta. Negli anni Venti del Novecento, Arthur Power, un altro dublinese trapiantato in Francia, lo incontra per caso al Bal Bullier di Parigi. Nasce così un rapporto d’amicizia destinato a durare oltre un decennio. Power ne ha lasciato testimonianza in Conversations with Joyce, apparso nel 1974 e oggi introvabile in italiano. In un passaggio del libro, parlando di John Donne e degli elisabettiani, Joyce finisce in realtà per tracciare uno dei ritratti più luminosi di sé stesso e della propria poetica. > “Con Donne si entra in un labirinto di pensiero e sentimento. Ogni sua poesia > è un’avventura nella quale non sai dove andrai a finire, che è esattamente > quello che dovrebbe essere un’opera d’arte. Quando vivi non sai dove ti > condurrà esattamente un’esperienza, e così con la letteratura. È proprio > questo che la rende così folgorante”. Si è detto che il Dedalus è la testimonianza di una precoce formazione intellettuale. Senza dubbio, ma c’è molto di più. Forse, solo nelle pagine conclusive de Il dono di Nabokov, si avverte con uguale intensità l’emozione di un’energia creativa pienamente cosciente di sé stessa, pronta a spiccare il volo verso un orizzonte sconfinato. Da quelle scogliere di Howth, che in primavera si ricoprono di fiori di campo, si leva il grido interiore di un giovane che vuole essere il primo artista sulla terra. Attraverso “silenzio, esilio e astuzia”, un ragazzo di neanche vent’anni diventerà il più grande demiurgo della parola.  Tra i lungosenna di Parigi, le piazze triestine percorse dalla Bora e i vicoli dell’incompresa Roma si compirà una memorabile parabola esistenziale e letteraria, alla fine della quale la paura dell’ignoto si trasformerà nella tavoletta su cui Thoth, il dio degli artisti, scrive con una canna di palude, reggendo sulla stretta testa di ibis la luna falcata. L’etimologia della parola “avventura”, d’altronde, ci insegna che lo spostamento nello spazio coincide anche con quello nel tempo. E nella curva di un’emozione – come l’ha definita Franca Cavagnoli – trova spazio anche l’amore. Alla fine del quarto capitolo del Ritratto, l’apparizione di una ragazza sola e immobile nell’acqua suscita in Dedalus una vera epifania, decisiva per la coscienza della sua vocazione. Il giovane scrive versi, versi d’amore. Rievoca un colloquio sommesso con Emma a bordo di un tram, nella notte limpida e ricca di promesse. I capelli della ragazza profumano di pioggia. Il suo corpo emana un odore selvatico e languido, distilla afrori e rugiada. In Stephen Hero, altra incantevole primizia joyciana, la lettura della Vita Nuova di Dante suggerisce al protagonista di comporre una raccolta di versi d’amore. Non c’è posto per l’avarizia del cuore: in amore – dice Daedalus – si deve dare tutto. La creazione si fonde con la biografia. Il primo libro di Joyce appare nel 1907 – Music Chamber –, una raccolta di trentasei poesie di ispirazione amorosa. “Go seek her out all courteously”, recita il primo verso di una lirica che ricorda la fiera e appassionata ritrosia di Guido Cavalcanti. Un 6 aprile di inizio Novecento, nel suo diario esplosivo, Dedalus-Joyce scrive: > “Desidero stringere tra le braccia la grazia che non è ancora venuta al mondo” Parole che potrebbero stare a epigrafe dell’intera opera joyciana. Esiste una definizione più esatta della giovinezza, o un antidoto migliore alla senescenza interiore? Joyce ci salva, come ha scritto Borges nella chiusa della bellissima Invocazione a Joyce. > “Io sono gli altri. Tutti coloro > Che il tuo ostinato rigore ha riscattato > Sono coloro che non conosci e salvi.” Proviamo allora a misurare insieme al grande argentino la vastità dell’opera joyciana: la dispersione e l’esilio nel mondo, il battesimo delle parole – di ogni parola – per riscrivere la Genesi verbale del creato, cercare l’ispirazione nei declivi e nelle feritoie della vita, rigenerare le consuetudini dell’uomo affinché dall’umile esercizio del quotidiano affiorino frammenti di meraviglia. Soprattutto, riscaldarci al fuoco ardente della sua fede, trattenere almeno un poco l’oro della sua ombra e gli attimi sparuti di felicità, addestrarci a inseguire la fiera biforme o la rosa nei dedali della memoria e delle città, aggrapparci ai nostri talismani esercitando l’arte del coraggio.   Un altro grande irlandese, Seamus Heaney, nel dodicesimo frammento di Station Island, si lascia visitare dal fantasma di Joyce. L’incontro avviene in un paesaggio di impronta dantesca: non a caso l’autore di Ulisse assume quasi le sembianze di Virgilio, diventando a sua volta “duca, signore e maestro”. Joyce raggiunge una statura shakespeariana: la sua voce, dal timbro liquido, sembra racchiudere in sé le vocali di tutti i fiumi. Avanza con passo solenne, tastando il terreno con il bastone di frassino. Poi prende a parlare, e dalle pagine di Heaney ci raggiungono versi memorabili: > “Il tuo dovere > non viene assolto da nessun rito comune. > Quello che fai lo devi fare da solo. > L’essenziale è scrivere > per la gioia di farlo. Coltiva la brama del lavoro > che immagina il suo porto come le tue mani di notte > sognano il sole nella macchia solare di un seno. > Ora tu sei digiuno, stordito, pericoloso. > Parti da qui. E non esser così zelante, > così pronto al saio e alle ceneri. > Lasciati andare, buttati, dimentica. > Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota”. Poco importa che Joyce appaia illuminato dalla sensibilità di un grande poeta. Ciò che resta è l’esuberanza, la gioia, la fiera gagliardia. Sposare l’ispirazione al fuoco che arde nel petto e tra le mani. Scrivere come si ama: percorrere il corpo di una donna come le strade del mondo. Assecondare il vortice, le maree, la corrente che travolge. Dare voce a “scandagli sonori, esplorazioni, sonde, allettamenti, luccichi d’anguilla nel buio del mare aperto”. Scalpare il già detto, smettere una volta per tutte di rimestare fuochi spenti, rimasticare vecchi mugugni. Quando Joyce si allontana, un attimo dopo aver pronunciato quelle parole, il cielo si squarcia in un biblico nubifragio. Il giorno dopo, l’alba si leva su un mondo nuovo. Lorenzo Giacinto L'articolo “Lasciati andare, buttati, dimentica”. Per un omaggio a James Joyce proviene da Pangea.
October 8, 2025 / Pangea