Nel 1929, introducendo “Trentatré artisti futuristi”, Filippo Tommaso Marinetti
esulta: “Il futurismo ha vinto su tutta la linea, nelle arti plastiche, nella
poesia, nella musica, nella architettura, nella moda femminile che esprimono con
uguale intensità il ritmo glorioso dei motori volanti della Coppa Schneider”.
Per la cronaca, la Coppa Schneider, gara di idrovolanti ideata da Jacques
Schneider – riccoide, francese, pilota di mongolfiere, amava tutto ciò che con
audacia spiccava il volo per conquistare i cieli –, quell’anno si era svolta in
Inghilterra: avevano vinto – come quasi sempre – gli inglesi; l’Italia si piazzò
seconda, merito dell’asso vicentino Tommaso Dal Molin – che sarebbe morto l’anno
dopo, sul Garda, in volo – a cavallo di un Macchi M.52.
Ad ogni modo, Marinetti aveva ragione. Il Futurismo si dimostrava la più antica,
longeva e attraente delle avanguardie, la più pervicace, in grado di sovvertire
ogni ambito dell’umano essere. Il futurismo nasce come movimento artistico per
diventare sistema ‘civico’, ‘ragione di vita’. Naturalmente, Marinetti sosteneva
che “In politica il Futurismo” era “precursore del fascismo”. L’anno dopo,
Fillia – tra i più talentuosi pittori e poeti futuristi, o meglio pittori-poeti,
nel senso della combustione alchemica delle arti – esplicitò l’assunto
marinettiano in un testo che raccontava i Rapporti tra Futurismo e Fascismo.
Questo l’attacco: “I futuristi, fin dall’avvento del fascismo al potere, hanno
rivelato la necessità di caratterizzare il cambiamento di regime con una
rivoluzione artistica – legare cioè il grande avvenimento sociale con una realtà
spirituale estetica”. I futuristi, scrive Fillia, sono “i soli a tendere verso
la realizzazione di un’autentica e originale ‘Arte Fascista’”, dacché “il
fascismo” si è imposto sulle “forze in decadenza” dopo essersi “nutrito di
principi futuristi”. In sostanza: l’estetica è la matrice della politica. (Per
uno sguardo complessivo sui manifesti futuristi, si guardi qui). Nel testo,
Fillia cita le parole del “Ministro Russo” Anatolij Lunačarskij: “La scenografia
russa è stata influenzata dal futurismo italiano”. Quell’anno, si era sparato al
cuore Vladimir Majakovskij, il grande poeta sovietico, il cantore della
Rivoluzione, nato futurista.
L’anno dopo – nel marzo del 1931 – lo stesso Fillia firma un affascinante
manifesto sulla Spiritualità futurista in cui afferma che “L’Egitto e l’Alto
Medioevo sono per noi gli esempi vivi della Storia: troviamo maggiore sanità nel
respiro di Menfi e di Bisanzio che nel respiro di Atene e di Firenze”. Il
Futurismo mira al futuro – quanto si disse allora ricalcatelo oggi: “La Macchina
genera una nuova spiritualità. È assurdo crederla priva di misteri perché ideata
dall’uomo” – rivoluzionando i canoni della “tradizione”. Nello stesso anno,
Fortunato Depero scrive un testo su Futurismo e arte pubblicitaria.
Insomma, nei Trenta il Futurismo, pur in cravatta, era più pimpante che mai.
Insieme ai “Dieci” – tra cui spiccava il genialissimo Massimo Bontempelli –
Marinetti aveva pubblicato il “Grande romanzo d’avventure” Lo zar non è morto;
nel formidabile Manifesto della cucina futurista intimava “L’abolizione della
pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. In questo contesto, a
Gorizia, Gian Giacomo Menon aderisce al Futurismo. È poco più che un ragazzo,
studia giurisprudenza a Bologna – alla laurea, ottenuta nel ’33, ne fa seguire
un’altra, in filosofia, conseguita per “ripugnanza per il mondo giuridico” –, fa
parte della sezione giuliana futurista, fondata da Sofronio Pocarini, fratello
di Ervino Pocar, il grande traduttore di Hermann Hesse, Thomas Mann, Franz
Kafka, tra i tanti. In particolare, Menon stringe un sodalizio con l’aeropittore
Tullio Crali: hanno la stessa età – sono nati nel 1910 –, moriranno, entrambi,
allo scoccare del nuovo millennio, nel 2000. Insieme, creano Delitto azzurro,
pièce di stirpe futurista, andata in scena al Teatro Petrarca di Gorizia: testo
di Menon, scenografia di Crali, di cui però “non sono state rintracciate prove
documentali” (così Cesare Sartori, infaticabile curatore dell’opera disparata e
dispersa di Menon). Crali ricorda così Menon in blusa marinettiana:
> “scrittore, poeta… piccolo… indemoniato… si firmava ‘Dinamite’… Per lui il
> futurismo era forse una liberazione, una reazione agli studi liceali”.
La nota non è inesatta. Nel maggio del 1930, per le Edizioni di ‘Pagine blu’,
Menon esordisce alla poesia con il nottivago: ad avvolgere la copertina – di
marziale eleganza –, la fascetta griffata da Marinetti,
> “Vengo da un giro: Alessandria d’Egitto Cairo Parigi Siracusa e trovo
> finalmente il tempo di leggere con attenzione i versi di Gian Giacomo
> Menon. Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”.
In realtà, il patriarca futurista non aveva voluto firmare la prefazione al
libro del giovanotto. “Non faccio prefazioni tiepide né le solite due parole
dell’uomo illustre che non servono a nulla. Spero che Gian Giacomo Menon
giungerà presto a un’opera potente sintetica e tipica che io prefazionerò allora
con entusiasmo”. Nelle sue memorie, Crali sottolinea che Menon “quando Marinetti
non gli fece la presentazione alle sue poesie… si spense come poeta”. Al
contrario: esplose. Fu, per così dire, esaudito e nel modo più pieno: ebbe in
dono la possibilità di scoprire la propria voce, scorporandola dall’epoca.
Ma torniamo al nottivago. Il libro, dedicato “A Mary/ che ha i capelli troppo
bruni/ e l’anima troppo bionda…”, nato sotto l’astro di Eraclito (così uno dei
frammenti: “Ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli
iniziati”), con estro da filastrocca crepuscolare (a tratti pare un Corazzini
corazzato, a tratti va a Bontempelli poeta), esce in poche copie, a spese
dell’autore. Il libro diventerà “leggenda” perché Menon “quasi a voler
sconfessare quella prima ingenua e giovanile prova, rastrellò, facendole
sparire, tutte le copie in circolazione”, pur regalandone, negli anni, qualcuna,
sopravvissuta al massacro, “a pochi eletti o elette” (così Sartori). Ora il
nottivago ritorna tra noi in eccezionale riproduzione anastatica per
Bibliohaus, con un testo di Sartori che ricostruisce la biografia di Menon e uno
studio di Rienzo Pellegrini su Menon futurista. È un tassello importante per la
comprensione di uno dei più ineffabili e remoti poeti del Novecento italiano,
che si aggiunge alle raccolte più importanti (cito, tra tutte, Geologia di
silenzi, edita da Anterem nel 2018 e Qui per me ora blu stampata da KappaVu nel
2013).
Il Futurismo costituisce il ‘campo di addestramento’ di Menon, è il modo in cui
impara a sgranchirsi le ossa liriche e ad allargare l’orizzonte poetico. Il
Futurismo, in fondo, infonde in Menon l’originaria energia della giovinezza.
“Convinto antimilitarista e antifascista” (Sartori), Menon si dà
all’insegnamento – storia & filosofia, allo ‘Stellini’ di Udine –, si sposa –
con l’ex allieva Silvia Sanvilli –, vive da viveur, collezionando amori
passeggeri, coltivando una ruvida diffidenza verso il regno dell’ufficialità
culturale italiana. Scrisse tantissimo, lasciando ai posteri l’implacabile mole
dei suoi testi – oltre centomila poesie, oltre un milione di versi. Nel 1966 “La
Fiera Letteraria” gli pubblicò un mannello di poesie; la nota autobiografica
tradisce una scelta di metodo, una ‘via’, più che un risentimento:
> “Nato in Austria, non lontano dal fiume che segnava il confine del
> Sessantasei, presto redento dai portatori delle carte rosse (mia nonna fece in
> tempo a confermare la vecchia delle uova), profugo in Stiria nella grande
> guerra, ho studiato a Gorizia e a Bologna. Da molti anni vivo e insegno a
> Udine. Dopo un breve esperimento giovanile, non ho pubblicato nulla di quanto
> sono venuto, foglio dopo foglio, scrivendo per una decisione di assenza
> consumata in un’amara invenzione che l’improvvisa novità dei tempi pare voglia
> sostituire”.
Era dionisiaco, leggeva Michelstaedter; nel 1998 Carlo Sgorlon cura, per
Campanotto, una sua raccolta, I binari del giallo: in questo caso, la nota
dell’autore porta lo stigma di un’aura di avverate cose: “Nella sua infanzia ha
respirato aria contadina e cristiana”. Spesso le poesie di Menon hanno una
avvenenza aurorale:
> averti come i lunghi odori della terra
> nell’alba degli aratri
> quando l’allodola scrive la sua prima parola
> come il fresco sapore del pane
> quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
> averti intatta nell’infanzia
> quando il campanile divide
> il giorno della locusta dal giorno del grillo
> a tessere i soli e le stelle
Nell’agosto del 1968, tornando, in una lettera a un’amica, al primo, avventato,
avventuroso libro (“piccolo libro” lo chiama), Menon riferisce un’esistenza
votata alla poesia, di serrate letture. La precocità da ‘eletto’ (“ti dicevo del
mio principio a undici anni”), la scelta del silenzio, un noviziato sostenuto da
esempi titanici (“pensavo, senza confronti irriverenti, ai diciassette anni
dell’assenza poetica di Valéry”) e poi le letture: Baudelaire (“trovato presto e
globale”), Rimbaud (“bevuto… sino all’ultima goccia”), Mallarmé, Sergej Esenin,
“definitivo”. “E tu alla fine, sigillo e scudo. Ogni riga, ogni insistere di
sillaba una situazione di te. Sempre e soltanto”. Anche le lettere di Menon (per
lo più disperse, nascoste, passate per diversi roghi; qui citiamo dalle
rarissime raccolte in: Gian Giacomo Menon, Poesie inedite 1968-1969, Aragno,
2013), per ritmo e per ispirazione, dicono di una vita kafkiana, cioè ancorata,
fin nei più puri approdi dell’oscuro, alla scrittura. Non ho detto letteratura –
che è già una funzione dell’evo presente, è già un soggiacere all’intenzione,
alla pulsione di massa, è già cosa da antologia scolastica, non più sangue ma
esangue – ma scrittura. Scrittura-scrittura. Scrittura.
In fondo, nonostante il ripudio – pratica comune al poeta, che nel rifiuto di sé
trova sempre la pratica dell’altrove –, Menon è rimasto un nottivago. Vaga nella
notte della poesia – rigorosamente senza lanterna, perché la luce, a volte,
impedisce alle cose di rivelarsi.
***
Da “il nottivago”
Buio
Sluccioli con veemenza,
piccola macchina
di duralluminio,
il palpito dei tuoi occhi,
che non comprendono
il meandro
della mia anima.
Come io non lo comprendo.
Triste destino:
non essere ciechi
e non vedere.
*
Sull’arcobaleno
Mi arrampicai
su per il rosso
di un arcobaleno
con l’agilità
di un gatto.
Da lassù,
con le gambe
penzolanti
nel vuoto
contemplai
il mondo.
Come è bello
il mondo
visto
dall’alto
di un arcobaleno!
*
In lontananza
Lontano lontano
sull’orizzonte
un vulcano,
innamorato
come il mio cuore,
fuma
tenacemente
solitariamente.
Le volute opaline
del fumo
si dipanano
sul lividore del cielo:
bambagia.
*
Nebbia
Hanno abbassato
un velario grigiastro
su di un frammento
della scena del mondo.
*
Il sole
Un bottone
di ottone
lucente.
Gian Giacomo Menon
*In copertina: Fortunato Depero, Grammofono, 1923
L'articolo “Scrittore, poeta, indemoniato”. Menon il Futurista, ovvero: intorno
a un libro leggendario proviene da Pangea.