Nel 1929, introducendo “Trentatré artisti futuristi”, Filippo Tommaso Marinetti
esulta: “Il futurismo ha vinto su tutta la linea, nelle arti plastiche, nella
poesia, nella musica, nella architettura, nella moda femminile che esprimono con
uguale intensità il ritmo glorioso dei motori volanti della Coppa Schneider”.
Per la cronaca, la Coppa Schneider, gara di idrovolanti ideata da Jacques
Schneider – riccoide, francese, pilota di mongolfiere, amava tutto ciò che con
audacia spiccava il volo per conquistare i cieli –, quell’anno si era svolta in
Inghilterra: avevano vinto – come quasi sempre – gli inglesi; l’Italia si piazzò
seconda, merito dell’asso vicentino Tommaso Dal Molin – che sarebbe morto l’anno
dopo, sul Garda, in volo – a cavallo di un Macchi M.52.
Ad ogni modo, Marinetti aveva ragione. Il Futurismo si dimostrava la più antica,
longeva e attraente delle avanguardie, la più pervicace, in grado di sovvertire
ogni ambito dell’umano essere. Il futurismo nasce come movimento artistico per
diventare sistema ‘civico’, ‘ragione di vita’. Naturalmente, Marinetti sosteneva
che “In politica il Futurismo” era “precursore del fascismo”. L’anno dopo,
Fillia – tra i più talentuosi pittori e poeti futuristi, o meglio pittori-poeti,
nel senso della combustione alchemica delle arti – esplicitò l’assunto
marinettiano in un testo che raccontava i Rapporti tra Futurismo e Fascismo.
Questo l’attacco: “I futuristi, fin dall’avvento del fascismo al potere, hanno
rivelato la necessità di caratterizzare il cambiamento di regime con una
rivoluzione artistica – legare cioè il grande avvenimento sociale con una realtà
spirituale estetica”. I futuristi, scrive Fillia, sono “i soli a tendere verso
la realizzazione di un’autentica e originale ‘Arte Fascista’”, dacché “il
fascismo” si è imposto sulle “forze in decadenza” dopo essersi “nutrito di
principi futuristi”. In sostanza: l’estetica è la matrice della politica. (Per
uno sguardo complessivo sui manifesti futuristi, si guardi qui). Nel testo,
Fillia cita le parole del “Ministro Russo” Anatolij Lunačarskij: “La scenografia
russa è stata influenzata dal futurismo italiano”. Quell’anno, si era sparato al
cuore Vladimir Majakovskij, il grande poeta sovietico, il cantore della
Rivoluzione, nato futurista.
L’anno dopo – nel marzo del 1931 – lo stesso Fillia firma un affascinante
manifesto sulla Spiritualità futurista in cui afferma che “L’Egitto e l’Alto
Medioevo sono per noi gli esempi vivi della Storia: troviamo maggiore sanità nel
respiro di Menfi e di Bisanzio che nel respiro di Atene e di Firenze”. Il
Futurismo mira al futuro – quanto si disse allora ricalcatelo oggi: “La Macchina
genera una nuova spiritualità. È assurdo crederla priva di misteri perché ideata
dall’uomo” – rivoluzionando i canoni della “tradizione”. Nello stesso anno,
Fortunato Depero scrive un testo su Futurismo e arte pubblicitaria.
Insomma, nei Trenta il Futurismo, pur in cravatta, era più pimpante che mai.
Insieme ai “Dieci” – tra cui spiccava il genialissimo Massimo Bontempelli –
Marinetti aveva pubblicato il “Grande romanzo d’avventure” Lo zar non è morto;
nel formidabile Manifesto della cucina futurista intimava “L’abolizione della
pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. In questo contesto, a
Gorizia, Gian Giacomo Menon aderisce al Futurismo. È poco più che un ragazzo,
studia giurisprudenza a Bologna – alla laurea, ottenuta nel ’33, ne fa seguire
un’altra, in filosofia, conseguita per “ripugnanza per il mondo giuridico” –, fa
parte della sezione giuliana futurista, fondata da Sofronio Pocarini, fratello
di Ervino Pocar, il grande traduttore di Hermann Hesse, Thomas Mann, Franz
Kafka, tra i tanti. In particolare, Menon stringe un sodalizio con l’aeropittore
Tullio Crali: hanno la stessa età – sono nati nel 1910 –, moriranno, entrambi,
allo scoccare del nuovo millennio, nel 2000. Insieme, creano Delitto azzurro,
pièce di stirpe futurista, andata in scena al Teatro Petrarca di Gorizia: testo
di Menon, scenografia di Crali, di cui però “non sono state rintracciate prove
documentali” (così Cesare Sartori, infaticabile curatore dell’opera disparata e
dispersa di Menon). Crali ricorda così Menon in blusa marinettiana:
> “scrittore, poeta… piccolo… indemoniato… si firmava ‘Dinamite’… Per lui il
> futurismo era forse una liberazione, una reazione agli studi liceali”.
La nota non è inesatta. Nel maggio del 1930, per le Edizioni di ‘Pagine blu’,
Menon esordisce alla poesia con il nottivago: ad avvolgere la copertina – di
marziale eleganza –, la fascetta griffata da Marinetti,
> “Vengo da un giro: Alessandria d’Egitto Cairo Parigi Siracusa e trovo
> finalmente il tempo di leggere con attenzione i versi di Gian Giacomo
> Menon. Ingegno indiscutibile. Sensibilità futurista. Immagini audaci”.
In realtà, il patriarca futurista non aveva voluto firmare la prefazione al
libro del giovanotto. “Non faccio prefazioni tiepide né le solite due parole
dell’uomo illustre che non servono a nulla. Spero che Gian Giacomo Menon
giungerà presto a un’opera potente sintetica e tipica che io prefazionerò allora
con entusiasmo”. Nelle sue memorie, Crali sottolinea che Menon “quando Marinetti
non gli fece la presentazione alle sue poesie… si spense come poeta”. Al
contrario: esplose. Fu, per così dire, esaudito e nel modo più pieno: ebbe in
dono la possibilità di scoprire la propria voce, scorporandola dall’epoca.
Ma torniamo al nottivago. Il libro, dedicato “A Mary/ che ha i capelli troppo
bruni/ e l’anima troppo bionda…”, nato sotto l’astro di Eraclito (così uno dei
frammenti: “Ai nottivaghi ai maghi posseduti da Dioniso alle menadi agli
iniziati”), con estro da filastrocca crepuscolare (a tratti pare un Corazzini
corazzato, a tratti va a Bontempelli poeta), esce in poche copie, a spese
dell’autore. Il libro diventerà “leggenda” perché Menon “quasi a voler
sconfessare quella prima ingenua e giovanile prova, rastrellò, facendole
sparire, tutte le copie in circolazione”, pur regalandone, negli anni, qualcuna,
sopravvissuta al massacro, “a pochi eletti o elette” (così Sartori). Ora il
nottivago ritorna tra noi in eccezionale riproduzione anastatica per
Bibliohaus, con un testo di Sartori che ricostruisce la biografia di Menon e uno
studio di Rienzo Pellegrini su Menon futurista. È un tassello importante per la
comprensione di uno dei più ineffabili e remoti poeti del Novecento italiano,
che si aggiunge alle raccolte più importanti (cito, tra tutte, Geologia di
silenzi, edita da Anterem nel 2018 e Qui per me ora blu stampata da KappaVu nel
2013).
Il Futurismo costituisce il ‘campo di addestramento’ di Menon, è il modo in cui
impara a sgranchirsi le ossa liriche e ad allargare l’orizzonte poetico. Il
Futurismo, in fondo, infonde in Menon l’originaria energia della giovinezza.
“Convinto antimilitarista e antifascista” (Sartori), Menon si dà
all’insegnamento – storia & filosofia, allo ‘Stellini’ di Udine –, si sposa –
con l’ex allieva Silvia Sanvilli –, vive da viveur, collezionando amori
passeggeri, coltivando una ruvida diffidenza verso il regno dell’ufficialità
culturale italiana. Scrisse tantissimo, lasciando ai posteri l’implacabile mole
dei suoi testi – oltre centomila poesie, oltre un milione di versi. Nel 1966 “La
Fiera Letteraria” gli pubblicò un mannello di poesie; la nota autobiografica
tradisce una scelta di metodo, una ‘via’, più che un risentimento:
> “Nato in Austria, non lontano dal fiume che segnava il confine del
> Sessantasei, presto redento dai portatori delle carte rosse (mia nonna fece in
> tempo a confermare la vecchia delle uova), profugo in Stiria nella grande
> guerra, ho studiato a Gorizia e a Bologna. Da molti anni vivo e insegno a
> Udine. Dopo un breve esperimento giovanile, non ho pubblicato nulla di quanto
> sono venuto, foglio dopo foglio, scrivendo per una decisione di assenza
> consumata in un’amara invenzione che l’improvvisa novità dei tempi pare voglia
> sostituire”.
Era dionisiaco, leggeva Michelstaedter; nel 1998 Carlo Sgorlon cura, per
Campanotto, una sua raccolta, I binari del giallo: in questo caso, la nota
dell’autore porta lo stigma di un’aura di avverate cose: “Nella sua infanzia ha
respirato aria contadina e cristiana”. Spesso le poesie di Menon hanno una
avvenenza aurorale:
> averti come i lunghi odori della terra
> nell’alba degli aratri
> quando l’allodola scrive la sua prima parola
> come il fresco sapore del pane
> quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
> averti intatta nell’infanzia
> quando il campanile divide
> il giorno della locusta dal giorno del grillo
> a tessere i soli e le stelle
Nell’agosto del 1968, tornando, in una lettera a un’amica, al primo, avventato,
avventuroso libro (“piccolo libro” lo chiama), Menon riferisce un’esistenza
votata alla poesia, di serrate letture. La precocità da ‘eletto’ (“ti dicevo del
mio principio a undici anni”), la scelta del silenzio, un noviziato sostenuto da
esempi titanici (“pensavo, senza confronti irriverenti, ai diciassette anni
dell’assenza poetica di Valéry”) e poi le letture: Baudelaire (“trovato presto e
globale”), Rimbaud (“bevuto… sino all’ultima goccia”), Mallarmé, Sergej Esenin,
“definitivo”. “E tu alla fine, sigillo e scudo. Ogni riga, ogni insistere di
sillaba una situazione di te. Sempre e soltanto”. Anche le lettere di Menon (per
lo più disperse, nascoste, passate per diversi roghi; qui citiamo dalle
rarissime raccolte in: Gian Giacomo Menon, Poesie inedite 1968-1969, Aragno,
2013), per ritmo e per ispirazione, dicono di una vita kafkiana, cioè ancorata,
fin nei più puri approdi dell’oscuro, alla scrittura. Non ho detto letteratura –
che è già una funzione dell’evo presente, è già un soggiacere all’intenzione,
alla pulsione di massa, è già cosa da antologia scolastica, non più sangue ma
esangue – ma scrittura. Scrittura-scrittura. Scrittura.
In fondo, nonostante il ripudio – pratica comune al poeta, che nel rifiuto di sé
trova sempre la pratica dell’altrove –, Menon è rimasto un nottivago. Vaga nella
notte della poesia – rigorosamente senza lanterna, perché la luce, a volte,
impedisce alle cose di rivelarsi.
***
Da “il nottivago”
Buio
Sluccioli con veemenza,
piccola macchina
di duralluminio,
il palpito dei tuoi occhi,
che non comprendono
il meandro
della mia anima.
Come io non lo comprendo.
Triste destino:
non essere ciechi
e non vedere.
*
Sull’arcobaleno
Mi arrampicai
su per il rosso
di un arcobaleno
con l’agilità
di un gatto.
Da lassù,
con le gambe
penzolanti
nel vuoto
contemplai
il mondo.
Come è bello
il mondo
visto
dall’alto
di un arcobaleno!
*
In lontananza
Lontano lontano
sull’orizzonte
un vulcano,
innamorato
come il mio cuore,
fuma
tenacemente
solitariamente.
Le volute opaline
del fumo
si dipanano
sul lividore del cielo:
bambagia.
*
Nebbia
Hanno abbassato
un velario grigiastro
su di un frammento
della scena del mondo.
*
Il sole
Un bottone
di ottone
lucente.
Gian Giacomo Menon
*In copertina: Fortunato Depero, Grammofono, 1923
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a un libro leggendario proviene da Pangea.
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Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo
Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una
storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto
critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e
Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del
secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è
infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari
evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una
rivoluzione, di un bivio più che di una conversione.
Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare
abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a
volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante,
questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa,
solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo
rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza
riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si
lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del
secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è
tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una
specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre
(l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni
Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’,
praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo
stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi
poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le
fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata –
come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla
tragedia.
Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero,
di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da
Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo
Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre,
l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un
anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a
nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese –
Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora
austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe,
in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue
spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile…
Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire,
tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire
legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe
Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva
Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon:
dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo
10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in
vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99,
cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di
poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I
binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo
Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco
dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva
Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita
inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano,
aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul
terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma,
l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato
nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di
Paul Celan.
Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che
spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un
bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio:
> dentro di noi come uova di mosca
> dileguarsi con i congegni per le madri astrali
> stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento
> sbarrati e neri nei sai
> quando il tempo delle città apre le sue botole
> un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici
> profilo di cifre marginali
> e l’uomo con le ascelle fiorite
> esperto di addii al livello dei grani
> abbandonato alla legge
> piomba nelle orine animali impastate di erba
> e altri dopo con ossature di tela
> il cuore sospeso all’aperto
> un chilometro più lungo della vita
> scattano oltre i canali sui denti della neve
> a risvegliare le controcorrenti dei pesci
> la contesa dei corni
> e altri azzurri di punta con occhi di metallo
> annotano la fuga ostile dei giorni
> al seguito dei cani gonfiati dalla luna
> dentro di noi covare la nostra profezia
> spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra
> all’orlo dei cieli domestici
> insicuri sui nettari sulle croste del sangue
> predatori da gioco
> barattare con le lacrime l’insolenza delle parole
Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa…
accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté
sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è
riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da
anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di
formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo
chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa
mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite
1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di
silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un
bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante,
2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.
Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di
essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono
il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle
antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto.
Pretendono l’audacia chiamata dedizione.
La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale,
compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di
spudorato pudore?
Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di
essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele,
immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma
coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale
presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori)
non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche
consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse
nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo
quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica
cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza
dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago,
il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha
pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come
lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di
aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione
di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione
sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario
Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60,
tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico
antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due
anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta
di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era
andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se
non ricordo male, a Marsilio.
Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava
della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di
Menon?
Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i
simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito»
ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo
Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali
dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato
soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco)
Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con
ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i
due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le
copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando,
che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come
un ‘fratello gemello separato alla nascita’.
«Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna
preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione
delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti,
tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla
memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le
caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica
principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di
altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e
inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo,
la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti
dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan
(poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una
lingua «a nord del futuro». E ancora:
> «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non
> crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna,
> poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità;
> è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per
> sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio
> la poesia».
Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:
> «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre.
> Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un
> disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito».
Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica
di Menon?
Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era
l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in
scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in
lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso
(credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso
di
un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva
(o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo
di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi
irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce,
elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non
ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno
avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali
è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue
stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare
sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli
occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore,
godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che
fa».
Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il
‘personaggio’ Menon.
Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per
capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando,
sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la
posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano
cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno
preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime
hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è
ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior
ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di
non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e
stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido.
Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon.
Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli
infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così,
citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo
«pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie:
«nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere
(…)
coltivatore di ansie
uomo solo
vado con bagagli di vento,
speranze di infanzia,
i segni lasciati sul cuore
dalla tua mano
(…)
terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo».
Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci
resta da scoprire di Gian Giacomo Menon?
Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni
(“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio
non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come
poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di
gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del
“fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo
fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di
lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei
maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni
doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα),
quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina,
saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non
ce l’ha difficilmente se lo può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola,
discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito;
ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici;
quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a
Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un
costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul
mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia
udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza
erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui
non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che
poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che
Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale
del Simposio.
Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a
contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i
suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto
costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che
l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è
un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti
di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero
né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti
dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a
balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere
‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche
Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato
epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a
lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua
carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e
prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione
contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi
allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori
(quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e
magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella
loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia
Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo
classico ‘Stellini’ di Udine.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza
età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando
tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti
vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che
debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga
soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un
terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e
a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico
allievo.
I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono
lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come
si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che
si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza
e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi,
promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro
mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso,
prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il
suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.
A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa
manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del
nostro paese?
Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza
per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è
un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di
te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo.
Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte
sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi
a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad
accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e
attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a
livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto
competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire,
provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo!
L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è
poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.