Fino a poco tempo fa, tutto risplendeva – tutto aveva un senso visibile e
chiaro, come un fuoco: ogni fiamma, pur tentacolare, aveva un volto, contraeva
un patto. Il mondo era una famiglia. Il grano riguardava l’astro che ne
garantiva la crescita e la mano, a stella, che lo raccoglieva; l’albero era
imparentato al corvo che vi atterrava sopra, della specie di Saturno; il fiume,
a leggerne i sussurri, a strologare la cifra delle strolaghe, garantiva figli
dai capelli corvini, agilità nel corpo. Nutrirsi di alcune piante permetteva
certe qualità; necessario era apprendere i poteri della vasta famiglia dei
rettili e degli anfibi. Il volo degli uccelli, lassù, interferiva sulla nostra
sorte, quanto l’opera magnetica dei pianeti.
Anche la volpe che ieri notte ha attraversato la strada, trasfigurata dai fari
della mia macchina, cucendo bosco a bosco, quella volpe Mercurio, partecipa
della mia vita, ha un senso.
L’era della misura ha tolto lo spazio dello smisurato: la sapienza,
parcellizzata in saperi, è mutilata; all’osservazione e alla speculazione
astrologica si è sostituito l’osservatorio astronomico, il tempio è sottomesso
all’accademia. È vero: la chirurgia ha soppiantato le erbe curative, i maghi e i
mestatori di formulari – vivremo tutti, tiepidamente felici, grigi pingui
pinguini, fino a centocinquant’anni – sia gloria al dio della salute; la
salvezza resta altrove.
Fino a poco tempo fa, intendo, il mondo non era costellato di ‘corrispondenze’ o
di ‘segni’: il mondo aveva un significato. Interpretare i segni è già il sintomo
di un’era insignificante. L’era del simbolo teneva insieme l’uomo, la terra, il
cielo – corrispondenza significava corresponsabilità.
Di questo mondo – che è poi, autenticamente, il nostro, quello di Dante e di
Francesco – Rabano Mauro è l’enciclopedia vivente, l’esegeta sommo. Abate di
Fulda, arcivescovo di Magonza – dove muore nell’856, il 4 febbraio, il giorno in
cui la Chiesa fa memoria della sua santità – Rabanus Maurus Magnetius fu
istruito da Alcuino, visse gli incerti che seguirono agli anni di Ludovico il
Pio, scrisse tantissimo, investigò il tutto. Del suo libro ‘totale’, il De rerum
naturis, “una cosmologia… ovvero una descrizione della realtà nel quadro di una
visione unitaria del mondo”, in cui l’abate di Fulda “descrive ogni cosa che
riguarda il mondo conosciuto, dall’umile chicco di grano alla costellazione di
Boote, nel tentativo di abbracciare la totalità dello scibile in una
rappresentazione del micro e del macrocosmo coerente con la dottrina cristiana”,
Claudia Gualdana (da cui ho tratto le citazioni) traduce, con talento
sgargiante, devota al culto dei libri assoluti che ora passano per eccentrici
(va ricordato il suo Rosa. Storia culturale di un fiore, Marietti 1820,
2019), il libro IX come Il mondo e gli astri (La Vita Felice, 2025). Il libro –
che è poi un manuale, un tascabile che si snoda per centocinquanta pagine, un
universo in miniatura – è straordinario perché ci orienta agli elementi primi,
riporta – secondo sintesi mirabile – ‘il tutto nel frammento’, conduce dal caos
– di cui si nutre un certo cristianesimo esagitato, in adorazione del buio – al
cosmo. Così, scopriamo che
> “il cielo è stato chiamato così, proprio come se fosse un vaso caelatum, ossia
> cesellato, perché reca incise le luci delle stelle come se fossero sigilli”.
Della luna è detto che “rappresenta le avversità del mondo”, ma anche la Chiesa
(perché – intuite l’introibo da raffinato polemista di Rabano – “essendo stata
creata nella dimensione temporale, come la luna talora si fa più piccola,
talaltra cresce, ma sebbene essa sia soggetta a calare, diminuisce in modo tale
da essere sempre restituita alla sua integrità originaria”) e “l’era presente,
perché è in costante mutamento”. I corpi celesti non sono geroglifici: come ogni
corpo – compreso quello umano, che dell’universo è mappa vivente, in calligrafia
di vene, ossa, arterie –, hanno diversi sensi – letterale; allegorico; anagogico
– e sensibilità; l’abate sviscera tutti i significati con dovizia di citazioni
bibliche. Il compito di Rabano Mauro è titanico: egli va risignificando il mondo
alla luce della rivelazione di Cristo. Così, alle enciclopedie ‘pagane’ – il
mito classico, che armonizzava l’antico mondo – sostituisce il nuovo codice
cristiano. Rabano offre la chiave per interpretare ogni minuta cosa: il tuono –
“che è stato chiamato così perché il suo suono terreat, ovvero atterrisce” – e
le braci – “indicano le concupiscenze illecite dell’animo” – il vento “violento
e veemente” e le Pleiadi, “l’annuncio della comunità dei santi che, nella
tenebra della vita presente, ci illuminano con la luce della grazia dello
Spirito septiforme”. Di Lucifero, “la stella del mattino”, è detto che “può
alludere al Salvatore o alla luce della vera conoscenza”; nel suo “significato
malefico” marca il senso della “caduta dallo splendore eterno fino alle tenebre
infernali”.
L’opera di Rabano Mauro serve a sanare, tra l’altro, l’impropria affermazione di
Robert Graves, il geniale poeta de La Dea Bianca. A suo dire, una “frattura…
separa il cristianesimo dalla poesia”, tanto che “è ormai impossibile combinare
le funzioni un tempo identiche di sacerdote e di poeta senza fare violenza
all’una o all’altra vocazione”. Allo stesso modo, l’indole “crudele,
capricciosa, sfrenata” della Dea Bianca contrasta con il culto della Vergine.
Graves – che sognava di rifondare un ordine ‘bardico’ della poesia e di
ricondurre la parola poetica al suo ancestrale potere magico, teurgico, e che di
fatto ha avuto un unico, straordinario allievo: Ted Hughes – ha, come sempre,
ragione. Proviene, però, da un regno in cui la “rivoluzione puritana” ha
sistematicamente cacciato dal tempio i druidi e i bardi, ha disonorato i boschi
considerandoli mero ornamento quando non materia prima per imprese di
falegnameria. In realtà, al netto di un semplicistico ‘romanticismo’ – che fa
del poeta il ribelle, l’eresiarca costi quel che costi, mentre è da sempre il
custode dell’ordine, il suo cardine; e non mi riferisco certo all’ordine
mondano, alla viltà del potere terreno, infine impotente se non sostenuto da
armi di assassinio di massa –, il poeta, come gli apostoli, parla le lingue e
guarisce dal male; la sequela Christi è fonte di infinita opera.
“Decifrare il linguaggio sacro”, come scrive Rabano Mauro, è compito dello
studioso e dell’artista. Così, nel formidabile Liber de laudibus Sanctae Crucis,
lirico laudario costellato di calligrammi, la parola è la cosa, la forma è la
formula, ciò che è nominato, d’improvviso, vive, con ferina evidenza – ulula
l’io e l’Iddio. San Paolo insegna che si prega “in modo conveniente” dando in
“gemiti inesprimibili” (stenagmois alatetois; Rm 8, 26). Si prega verseggiando
come fanno le creature: secondo il ronzio della mosca, l’adulare dei lupi, il
fruscio degli astri.
*Le immagini in copertina e nel testo sono tratte dal “Liber de laudibus Sanctae
Crucis” di Rabano Mauro
L'articolo “Decifrare il linguaggio sacro”. Rabano Mauro: dal caos al cosmo
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