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“È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive
Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì, a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica. Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon. Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.   Chi era Isacco di Ninive?  Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto: Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa, quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei padri del deserto e di Evagrio Pontico.  Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei, come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di riferimento.  Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca. Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in cosa consiste?  Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle dinamiche interiori: all’interno di queste –  come l’incontro con le passioni, con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco, del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato (questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali, Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto: non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.  Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile. Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?  Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10 Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.  Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza, non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia dell’avvenimento della venuta del Cristo. Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca. È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve “portare” la propria debolezza?  “Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa azione, che poi può scaturire una trasformazione.  Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo “rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge” (dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine “germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò che con esso può venire. Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con ciò che è altro da sé?  Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”, risponde:  > “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli > animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non > può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una > qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche > per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che > gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura > per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore > senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74). E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo? In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama “tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio. È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio” e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione, nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno, scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).  Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un “permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà. D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65). Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il vissuto del sofferente. Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere? È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore. Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un “sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo, cosa desideriamo, dove vogliamo andare. Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici, tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde tanto.  È in questo che consiste l’ascesi?  Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.  Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio, simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato dal mistero, devi lasciarti andare ad esso. Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca. E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?  Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo, “prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio. L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare. Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?  Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi. C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano. Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e le sue dinamiche di oblio. Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente. Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla debolezza, dicendo:  > “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per > lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha > conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora > trattiene la sua anima dal divagare” (I 8). C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di vivere con verità, cercando la verità.  Bianca Cesari * Fonti Prima Collezione P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma: Città Nuova, 1984. S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021. Seconda Collezione S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995. P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990). Terza Collezione S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri, 246-247), Leuven: Peeters, 2011. Studio principale: V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA, 309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022. *In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec. L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive proviene da Pangea.
May 8, 2025 / Pangea
“Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze, in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.  Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di lampi.  I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?  Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera, più vasta del sole.  Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può correre, come una pecora. * Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo. Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in muratura.  Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi. Bosco in lotta con l’angelo.  Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la benedizione.  Glabri morti, grati morti. * Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.  Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha inghiottito? Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende che ti inginocchi.  Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile. Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i morti.  Quando non si venerano i morti, si muore.  Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono, case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al significato della parola bianco.    Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti – una visione, forse.  * Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di terribile spoliazione.  Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine, il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.  Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi, asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera, altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui, specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.  Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé, a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e là.  Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante, l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.   * Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono, all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo: > “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù > sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del > risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare > la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo > incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così > vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo > infinito di tutte le cose, non sono nulla”. Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio – mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e tutto sia un Moby Dick.  * Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala – 20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”; anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso. Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto. Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione – morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto: identità non è l’identico.  Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.  Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.  ** Dal “Salterio dei Poeti” Salmo 42 Lamento del Levita in esilio Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah. Cerva assetata l’anima mia sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio. L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita; quando potrò tornare ed espormi al suo volto?  Mangio lacrime giorno e notte mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio? Ricordo questo, e in me l’anima esala: emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio, tra inni e grida di giubilo di una folla in festa. Perché ti schianti, anima mia, perché in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. L’anima mia è franta poiché mi ricordo di te dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar. Abisso desta abisso  nel turbinio delle tue cascate, i tuoi flutti e i tuoi frangenti irrompono su di me. Di giorno l’Eterno accende il suo amore di notte in me è il suo cantico, supplica del Dio vivente. Interpellerò Dio, mio baluardo: Per quale ragione di me ti dimentichi? Perché vago oppresso dal giogo dei nemici? Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini, irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio? Perché ti schianti, anima mia, e in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo 42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti esperti, smaliziati al plagio della vocazione. La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide, avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà con il fondo di bottiglia di un bambino. Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna anche in un tempo assurdo. Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci opprime. La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole. Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16). Traduzione e commento di Andrea Temporelli * Salmo 51  Porta numero 51 Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio. Spingimi la testa nel tuo amore Spingila verso il mio petto Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo  Per il quale non so baciare la dolcezza  Che hai inalterato nel mio cuore Dunque spingimi verso la vicinanza violenta  Del tuo battito che sono tutta io Tamburellami con la tua grazia Col capo piegato su me stessa Annegami Fammi sbranare dal centro di questo petto  L’iniquità che mi protegge offendendoti Flettimi, spezzami, raschiami Scorzami da questa pelle Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza Smascherami, sì, sfigurami Riportami riconoscibile a misura ripida Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio Perché contro te solo ho peccato Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato Riportami all’aria della tua bocca Respirami profondamente E vietami l’uso della disperazione  Perché non voglio coincidere col mio errore Reincarnati in questo corpo flesso Non farmi morire nel Nessuno Appendimi denocciolata al tuo collo Fammi ciondolare vicino al tuo calore Ristabilisci la violenza non del sacrificio Ma dell’abbandono Abbandonami in te solo Isolami in te solo Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora E torniamo alla neve Rimarginiamo lo sfregio al bianco Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo  Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason Con il suono dell’impatto di un colpo genitale Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora Riconoscimi bianco, spezza ogni osso  Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato Lasciami solo nel sonno, solo con te Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio. Non abbandonarmi, rimani in me. Non guardare la banalità del mio peccato  Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi Sciogli questo ghiaccio irrigidito  Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia Non accatastarmi tra i pesci di una fossa Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare. Riossigenami Spingimi la testa nel tuo polmone di neve Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato Si, scomparire. Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve? Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera E noi sempre bianco davanti dietro di fianco Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca Sulla terra che vibra Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini E vedere appena la terra davanti a noi  Come un prato bianco immenso mietuto di fresco  Senza più corsa dei cani e voci degli abbai Solo la linea di silenzio del ritorno a casa. Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo Fammi risalire Sion, Gerusalemme  Fino al cospetto della montagna orso Fammi sgozzare l’orso E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve Non disprezzare quello che ho da offrirti Non i sacrifici degli uomini Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me. Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto Non affidarmi a questo buio. Guardami, Mio Accecante, denudami  Mio Ipervedente, lavami  Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca Lasciami respirare la pronuncia del mio nome Schiacciami in te, incostolami, spingi Non farmi rimanere mezza viva E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore Nessun prossimo apparente Io sono qui tutta te Riconoscimi dal punto più distante Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa E come un mattino, mio Boreale,  Sarò bianco, vedrai – Sarò più affamato della neve. Traduzione di Tiziana Cera Rosco L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre proviene da Pangea.
April 26, 2025 / Pangea
Il tesoro nascosto. Ovvero: in difesa della Bibbia, per amore della letteratura
Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?  Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia, indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» – bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile, con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria, stilistica, antropologica, politica, storica).  È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout», l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.  Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione minimalista si oppone).  Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un «fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione culturale.  Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655 Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:  > «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le > tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».  Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile». E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick», «Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.  Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della post-letteratura piace pensare che sia così.  Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi vengono liquidati in una singola frase:  > «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un > patto a tutti gli uomini».  Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo insinuante, e gli chiede:  > «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti > nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di > quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il > giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi > da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».  Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:  > «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un > suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa > così a Dio».  Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo, la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un testo senza osare affondi. Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca. Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo l’unico commento su David è questo: > «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».  Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale, poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:  > «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta > come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non > particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide > talora pensa di potersi permettere tutto». È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David, a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze, in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele (libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal, sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio, da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso da tutti, perfino da sé stesso.  Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta: l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»). Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato, come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo, geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare a indagare – mette paura più di ogni altra cosa? In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio, il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte, infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio. Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul «Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:  > «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa, > quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».  È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici, che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo, l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro, mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro, sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento. Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655 Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco, attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui, invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia, che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde, non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto, da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.  L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state donate.  > «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò; > il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io > morirò e là sarò sepolta».  Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio, assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.  Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro, spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.  L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali, mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in nome del padre:  > «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il > popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo > si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli > interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro > nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro > rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di > Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di > aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra > Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il > popolo disperso».  La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un «tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah, come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro nascosto lo stiamo già perdendo. Fabrizio Coscia  *I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo crocefisso tra i ladroni”, 1653 L'articolo Il tesoro nascosto. Ovvero: in difesa della Bibbia, per amore della letteratura proviene da Pangea.
April 21, 2025 / Pangea
“Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno. La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile, infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione: così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.  La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione: l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo. Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima – Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione (forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine). Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?  Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale per l’artista e la sua riconoscibilità. Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo? L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.  Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al suo tempo. Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967. In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva come rifiuto della superficialità materialista. Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo? Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni, ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914), possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una sua rilevante legittimità nell’opera. Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali. Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata scelta di vita dell’artista. Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà, sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso. Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale, riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.  Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia. L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento; ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”, nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali, riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su altro.  Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto, oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate, evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo percorso è stato definito dal caos al cosmo. Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi “Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo? Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi – come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza, nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove alimentare altre parti di sé.  Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica, impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore: le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione, dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione e poi la luce oltre le tenebre. Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la possibilità di trasformazione. Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità. Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.  a cura di Luigi Codemo L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
April 4, 2025 / Pangea
“Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori
Caro Giovanni Testori, ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora (fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero, mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di te.  Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale, bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.  Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi, sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto, convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale, d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!), ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara. Ecco che l’arte potenzia la vita. Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti, che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi, in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa. In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici, quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene prima della fine. La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro. L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione, impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata. La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno, in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste. Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.  Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):  > “[…] così come si fondono, qui, in me  > le gioie dei tuoi occhi  > e in te  > le adulte mestizie  > e dolorose  > dei miei anni  > e andando poi così  > e disfacendo sé,  > nube ed amante,  > e l’una e l’altro sempre,  > insieme nel dolore  > d’una vita che vivere  > bisogna  > nell’attesa d’una più grande  > ombra  > che in sé ridisferà  > l’amarsi della vita  > nella sera  > e della sera nella vita,  > immensa e sacra sera  > che ormai s’è fatta ombra  > e si farà, tra poco, anche per noi  > più lunga e sacra luce”.  Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime, soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire. > “Va la carcassa atavica;  > s’aggrappa sanguinante  > ai templi,  > alle rovine millenarie,  > la spinata testa  > cancerosa”.  La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:  “Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate, si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente ricerca”. Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore, anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo). Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso? Vincenzo Gambardella *In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro, Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori). L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori  proviene da Pangea.
March 22, 2025 / Pangea