Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione
con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa
ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi
nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico
siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì,
a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica.
Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto
del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”:
Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in
inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione
critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente
in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e
il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno
internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al
monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon.
Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe
presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la
sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta
di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione
e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una
porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così
come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non
notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per
occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.
Chi era Isacco di Ninive?
Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una
vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa
riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto:
Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca
c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve
tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere
sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa,
quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva
considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia
era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in
oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione
monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il
Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto
autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei
padri del deserto e di Evagrio Pontico.
Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i
discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci
riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un
contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della
mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei,
come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come
Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce
di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di
riferimento.
Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca.
Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in
cosa consiste?
Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle
dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni,
con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di
limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come
una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una
caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con
Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata
solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione
di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza
ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale
per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco,
del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in
riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di
conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la
maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In
Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato
(questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali,
Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto:
non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è
per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la
caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.
Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse
passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi
ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco
invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa
condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come
insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è
inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di
questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di
originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma
di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile.
Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?
Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che
c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla
necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa
condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10
Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli
sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia
forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo
passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa
relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.
Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza,
non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo
elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la
debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho
la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il
mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo
scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche
entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa
alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla
percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della
venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa
trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia
dell’avvenimento della venuta del Cristo.
Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca.
È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve
“portare” la propria debolezza?
“Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere
dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere
una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene
mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del
sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una
relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi
è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa
trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo
fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A
fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a
mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una
posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa
azione, che poi può scaturire una trasformazione.
Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza
tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo
“rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che
non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge”
(dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e
lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine
“germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di
un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il
negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di
conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore
che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio
peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un
soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò
che con esso può venire.
Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con
ciò che è altro da sé?
Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui
normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto
questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e
anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e
sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un
passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”,
risponde:
> “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli
> animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non
> può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una
> qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche
> per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che
> gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura
> per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore
> senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74).
E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo?
In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un
esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama
“tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si
sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio.
È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio”
e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e
si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa
anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni
varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione,
nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno,
scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto
in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora
dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).
Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non
è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si
sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la
speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un
“permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che
trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente
include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due
aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo
che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento
passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà.
D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65).
Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non
toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui
che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il
vissuto del sofferente.
Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa
dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare
di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere?
È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che
schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con
esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende
così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore.
Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un
“sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la
prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui
un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione
cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere
valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella
posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte
persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni
hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il
cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del
soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra
vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere
rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza
quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci
evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo,
cosa desideriamo, dove vogliamo andare.
Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice
che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi
il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il
sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa
nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere
della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in
proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per
la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici,
tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la
vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha
l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita
umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde
tanto.
È in questo che consiste l’ascesi?
Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è
un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si
può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la
ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco
sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare
una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In
questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta
anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la
difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della
disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché
poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.
Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di
tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio,
simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia
mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche
quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si
dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che
se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi
sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato
dal mistero, devi lasciarti andare ad esso.
Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca.
E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?
Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta
di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In
quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo,
“prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la
più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi
misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco
cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un
oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il
pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è
al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo
molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio.
L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella
consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto
causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire
di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su
un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è
anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei
misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare.
Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?
Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi.
C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una
dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il
rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano.
Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata
perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni
indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il
limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai
discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui
incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto
ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come
apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi
individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di
attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e
le sue dinamiche di oblio.
Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del
trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene
comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del
limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente.
Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al
mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in
relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di
conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un
termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla
debolezza, dicendo:
> “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per
> lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha
> conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora
> trattiene la sua anima dal divagare” (I 8).
C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria
debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e
con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il
fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua
individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di
vivere con verità, cercando la verità.
Bianca Cesari
*
Fonti
Prima Collezione
P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma:
Città Nuova, 1984.
S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021.
Seconda Collezione
S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters
IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995.
P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla
conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri
opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990).
Terza Collezione
S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri,
246-247), Leuven: Peeters, 2011.
Studio principale:
V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA,
309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022.
*In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec.
L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a
Isacco di Ninive proviene da Pangea.
Tag - sacro
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.
Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della
lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche
affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto
di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in
un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro
sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?
Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che
esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della
cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si
potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di
fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a
un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo
di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia,
indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in
considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma
a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca
della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente
abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende
reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che
Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» –
bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile,
con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza
approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria,
stilistica, antropologica, politica, storica).
È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della
Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout»,
l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo
scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta
eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue
diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi
differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel
trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.
Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa
critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra
particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare
che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al
contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende
un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non
deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno
storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione
sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non
specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata
sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora
volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione
minimalista si oppone).
Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un
popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare
basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta
di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi
riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un
«fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le
classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione
culturale.
Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655
Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i
primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:
> «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le
> tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile».
E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri
incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick»,
«Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.
Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo
avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti
commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della
traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una
subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da
parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni
Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una
questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia
della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della
Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il
cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione
originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un
principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la
riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a
creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al
di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio
disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste
alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci
troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la
Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le
acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e
negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una
versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il
suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della
post-letteratura piace pensare che sia così.
Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati
nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove
esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi
vengono liquidati in una singola frase:
> «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un
> patto a tutti gli uomini».
Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre
in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo
Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero
tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai
filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i
costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i
suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio
Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con
sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si
avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo
insinuante, e gli chiede:
> «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti
> nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di
> quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il
> giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi
> da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».
Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se
nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il
luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con
il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a
trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:
> «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un
> suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa
> così a Dio».
Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la
prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il
suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo
di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie
all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene
dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è
squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo,
la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un
rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione
occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma
nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un
testo senza osare affondi.
Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca.
Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come
David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo
imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo
l’unico commento su David è questo:
> «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».
Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei
personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale,
poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del
principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi
orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una
delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di
indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:
> «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta
> come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non
> particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide
> talora pensa di potersi permettere tutto».
È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David,
a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze,
in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele
(libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella
moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi
come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal,
sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor
di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta
inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore
si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli
eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si
scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio
dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di
David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre
nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio,
da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso
da tutti, perfino da sé stesso.
Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro
successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta:
l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è
descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che
in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue
silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel
fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più
memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»).
Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi
cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato,
come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo,
geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio
sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice
in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più
semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare
a indagare – mette paura più di ogni altra cosa?
In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio,
il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte,
infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il
caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di
Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico
di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e
di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della
Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino
a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio.
Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione
sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero
necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le
pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande
Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi
ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura
moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul
«Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che
Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un
passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a
partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al
narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:
> «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa,
> quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».
È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in
prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici,
che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili
altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie
innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad
esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto
che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo
di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di
indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto
più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo,
l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la
descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio
babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro,
mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta
la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro,
sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i
costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta
della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento.
Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655
Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue
intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo
circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore
onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco,
attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista
assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio
tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui,
invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia,
che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde,
non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo
che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico
della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella
lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un
tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La
prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io
narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto,
da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo
elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di
Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta
la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di
censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.
L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del
Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma
sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e
anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una
fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo
testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè
come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa
trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a
rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state
donate.
> «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò;
> il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io
> morirò e là sarò sepolta».
Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a
una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a
Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut
è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio,
assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella
sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth
quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con
lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare
indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto
più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione
notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il
testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni
gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di
inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà
femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.
Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono
protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un
silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza
femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste
riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La
risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso
motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro,
spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso
di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della
critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.
L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la
letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un
aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV
Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda
guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e
la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e
malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali,
mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo
pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il
progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in
nome del padre:
> «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il
> popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo
> si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli
> interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro
> nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro
> rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di
> Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di
> aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra
> Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il
> popolo disperso».
La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un
«tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la
sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi
subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah,
come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i
grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla
barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro
nascosto lo stiamo già perdendo.
Fabrizio Coscia
*I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo
crocefisso tra i ladroni”, 1653
L'articolo Il tesoro nascosto. Ovvero: in difesa della Bibbia, per amore della
letteratura proviene da Pangea.
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves
Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di
Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è
l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni
e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno.
La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è
un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile,
infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange
Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando
la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione:
così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme
riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso
di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano
di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima
realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al
nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del
materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la
mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte
Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.
La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando
anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di
Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti
dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di
Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo
in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione:
l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo.
Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la
tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai
tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo
Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di
Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca
l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima –
Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un
crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui
l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione
(forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine).
Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?
Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono
riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale
per l’artista e la sua riconoscibilità.
Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del
contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e
storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo?
L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito
all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni
astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale
declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di
Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di
Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet
Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della
materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.
Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al
suo tempo.
Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista
del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di
quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967.
In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione
di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva
come rifiuto della superficialità materialista.
Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità
longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua
capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad
una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e
volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine
estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo?
Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni,
ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi
quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno
sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914),
possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero
Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto
innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al
resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una
sua rilevante legittimità nell’opera.
Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del
mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità
che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro
prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali.
Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le
conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale
dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata
scelta di vita dell’artista.
Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non
può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel
divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà,
sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e
molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso.
Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che
l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta
attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in
posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con
chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza
dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale,
riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando
quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai
flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a
comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che
sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per
convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso
l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.
Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia.
L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di
essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione
sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento;
ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la
rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”,
nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali,
riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso
la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda
in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà
all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su
altro.
Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non
pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza
peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di
una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto,
oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate,
evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità
principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che
prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia
cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le
cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo
percorso è stato definito dal caos al cosmo.
Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef
Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi
“Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta
fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica
forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e
singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più
si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può
che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche
questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a
misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo?
Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi
– come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa
quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se
attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza,
nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se
attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove
alimentare altre parti di sé.
Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo
per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al
subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha
tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica,
impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio
caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore:
le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un
ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione,
dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte
sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione
e poi la luce oltre le tenebre.
Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la
possibilità di trasformazione.
Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della
bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La
trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico
della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi
delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità.
Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica
che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa
dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.
a cura di Luigi Codemo
L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai
social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
Caro Giovanni Testori,
ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo
dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora
(fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una
mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e
scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia
impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero,
mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di
te.
Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul
Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide
Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso
dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e
perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita
giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le
porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da
malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale,
bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno
ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche
senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il
Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.
Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di
reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione
che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua
condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente
interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi,
sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto,
convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale,
d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!),
ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in
misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso
tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che
cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per
perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita
e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara.
Ecco che l’arte potenzia la vita.
Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene
rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in
niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti,
che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei
innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi,
in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso
male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come
testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa.
In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte
alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in
malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici,
quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene
prima della fine.
La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che
scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro.
L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da
dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci
abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo
cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione,
impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia
non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo
organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata.
La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno,
in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la
maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che
il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è
silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro
cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con
Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono
di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono
ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste.
Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.
Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente
di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come
spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi
siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a
Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):
> “[…] così come si fondono, qui, in me
> le gioie dei tuoi occhi
> e in te
> le adulte mestizie
> e dolorose
> dei miei anni
> e andando poi così
> e disfacendo sé,
> nube ed amante,
> e l’una e l’altro sempre,
> insieme nel dolore
> d’una vita che vivere
> bisogna
> nell’attesa d’una più grande
> ombra
> che in sé ridisferà
> l’amarsi della vita
> nella sera
> e della sera nella vita,
> immensa e sacra sera
> che ormai s’è fatta ombra
> e si farà, tra poco, anche per noi
> più lunga e sacra luce”.
Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime,
soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto
altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire.
> “Va la carcassa atavica;
> s’aggrappa sanguinante
> ai templi,
> alle rovine millenarie,
> la spinata testa
> cancerosa”.
La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller
nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno
della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di
dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in
segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro
immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino
all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:
“Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno
degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli
uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano
nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate,
si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere
nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si
dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione
catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione
verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente
ricerca”.
Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la
vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che
non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore,
anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo).
Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua
malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di
comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere
per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso?
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per
i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro,
Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori).
L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori proviene da
Pangea.