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“Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno. La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile, infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione: così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.  La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione: l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo. Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima – Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione (forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine). Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?  Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale per l’artista e la sua riconoscibilità. Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo? L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.  Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al suo tempo. Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967. In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva come rifiuto della superficialità materialista. Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo? Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni, ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914), possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una sua rilevante legittimità nell’opera. Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali. Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata scelta di vita dell’artista. Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà, sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso. Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale, riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.  Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia. L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento; ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”, nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali, riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su altro.  Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto, oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate, evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo percorso è stato definito dal caos al cosmo. Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi “Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo? Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi – come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza, nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove alimentare altre parti di sé.  Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica, impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore: le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione, dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione e poi la luce oltre le tenebre. Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la possibilità di trasformazione. Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità. Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.  a cura di Luigi Codemo L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
April 4, 2025 / Pangea
“Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori
Caro Giovanni Testori, ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora (fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero, mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di te.  Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale, bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.  Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi, sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto, convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale, d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!), ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara. Ecco che l’arte potenzia la vita. Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti, che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi, in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa. In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici, quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene prima della fine. La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro. L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione, impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata. La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno, in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste. Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.  Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):  > “[…] così come si fondono, qui, in me  > le gioie dei tuoi occhi  > e in te  > le adulte mestizie  > e dolorose  > dei miei anni  > e andando poi così  > e disfacendo sé,  > nube ed amante,  > e l’una e l’altro sempre,  > insieme nel dolore  > d’una vita che vivere  > bisogna  > nell’attesa d’una più grande  > ombra  > che in sé ridisferà  > l’amarsi della vita  > nella sera  > e della sera nella vita,  > immensa e sacra sera  > che ormai s’è fatta ombra  > e si farà, tra poco, anche per noi  > più lunga e sacra luce”.  Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime, soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire. > “Va la carcassa atavica;  > s’aggrappa sanguinante  > ai templi,  > alle rovine millenarie,  > la spinata testa  > cancerosa”.  La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:  “Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate, si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente ricerca”. Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore, anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo). Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso? Vincenzo Gambardella *In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro, Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori). L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori  proviene da Pangea.
March 22, 2025 / Pangea