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Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni
La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge – sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa preda che l’alimenta.  Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del creato – per dargli riparo e dimora:  > “le pietre arrotondate indicano un focolare, > presumono persone accerchiantesi in un rito > per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…” Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo, passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici), s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica dizione.  Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica (traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni volta che il poeta la proferisce.  Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto?  Come se da questo potesse definirsene l’atto?    Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria, dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati d’animo…) Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …  In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità, al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole), interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse, col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine, alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori – essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne definisce appieno l’stanza politica.   Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta… Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente. Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo, messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete, leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio: il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire. Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo lavorare il dispositivo della lingua.  Che per tale affidamento si produca qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente contingente, per lo più ignoto e impronosticabile. Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole – o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire, è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile respiro, in cui ritmicamente avvengo. Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione – dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio, quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung, quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un racconto.  Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello straordinario (in cui siamo permanentemente immersi). Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma. L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al silenzio (risonante) dell’infanzia.  L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione – generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle stagioni)… La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto, proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi verbali, l’indulgenza nei vernacoli.  Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione. Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato, nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno, possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.  Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua irresistibile cadenza. Mario Ajazzi Mancini *In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer L'articolo Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea