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“Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni
Poesia che va imbracciata – e dunque: predisposta alla lotta.  Che ci sia un duello, da quello che indicano gli aruspici, è certo – che tu ne sia già dentro, a filo, pure.  * È vero: esiste una poesia che va portata a piene braccia, poesia da estendere tra sé e i cieli, come un vello d’oro, un palio, una sacra icona. Lo si fa se quella è poesia che invoca protezione.  C’è, altrove, poesia da tenere in braccio, da stringere in grembo. Devi dargli il seno, devo offrirgli il latte. È poesia mendica, che si nutre del tuo succo, lettore.  * La poesia che si imbraccia diventa tutt’uno con il corpo del lettore, lo imbarbarisce all’eleganza della lotta. Penso allo scudo di Achille, dove sono raffigurati il sole e la luna, le stelle e le vigne, armenti e fanciulli. Quello scudo è un astro, quello scudo è una casa. Chi si avventa su di te deve prima fendere un universo intero, deve aver fondato una casa – chi può raggiungere chi è irradiato da quello scudo, chi ne è iridato fino all’ira? Tutti gli elementi hanno forgiato quello scudo.  * I bracciali dello scudo prende il via da una collusione di immagini: > “All’assassinio del capo o del principe > nella foresta la neve divincola un suo coro, > innalza sulle conifere l’anima di cuoio, > i bracciali dello scudo”. In questa mitografia, i bracciali dello scudo sono strumenti della neve. Imbracciare il crollo – imbracciare il bianco. Bracconiere di sé. Balenieri in un cielo che si fa argolide di angeli.  È l’ultima poesia della raccolta, Passo all’Orso, il cui passo, in fondo, resta iliadico: la caduta di un dio (strabiliante attacco: “Questo vostro unico dio cadrà/ torneranno innumerevoli gli dèi”), l’assassinio del re, transumanza di predatori.  Alessandro Ceni scuce lo scudo di Achille. Le figure, sbalzate da millenni, sono irriconoscibili: l’uomo pare una bestia, la bestia assume fattezze d’uomo; l’astro è un bolide, l’astro è debole; le stelle sono esplose. Quale beneaugurale frase andrà incisa sui bracciali?  * I bracciali dello scudo (Crocetti, 2025) raccoglie, in duecentosessanta pagine, quarant’anni (così si dichiara: “1983-2023”) di poesia di Ceni. Le date sono dadi bugiardi, ultimo baluardo di un tempo orbo; si sa che I fiumi – il libro che apre questa raccolta – esce nel 1985, per Marcos y Marcos, incorporando la prima placca di Ceni, Il viaggio inaudito, che è del 1981.  Da quel che ne sappiamo, Ceni, nell’ormai leggendaria pazienza (o parvenza) – poesie che escono a lui ad ogni rotazione d’astri –, continua a scrivere, a decrittare.  * Credo che nessun poeta come altri pratichi l’autoantologia o la raccolta, come un lied, dei propri versi. C’è qualcosa di ambiguo – mai analogo alla ritrattistica – in questo impratichirsi, in questo tenere in stato d’assedio il libro. Certo, si tratta pur sempre di pubblicazioni, spesso, alla macchia – e cos’altro potrebbe essere se non tale lanceolata latitanza? –, ma c’è, nel processo, la rovina, lo spaccare gli specchi, il fare pasto di sé. Meglio: viaggiare leggeri all’oriente della grande caccia.  Negli anni sono usciti, per dire, Il pieno e il vuoto (Marcos y Marcos, 1996; singolare antologia di un neanche quarantenne); La ricostruzione della casa (Effigie, 2012, raccolta di “Poesie scelte 1976-2006” per la cura di Daniele Piccini, il più fedele e acuto critico di Ceni), Parlare chiuso. Tutte le poesie (puntoacapo Editrice, 2012), 77 (Edizioni Helicon, 2018), poi questo. Quasi: a eludere il libro – a elisione del libro. Negli elisi della fuga – intesa a mo’ di accerchiamento musicale, come si accentra, cerchiandola, la belva di taglio grosso, in seguito a diligente notturna posta.  Che sia indimenticabile – che se ne dimentichi – si direbbe, di tale disciplina.  * D’altronde, la circolarità, il libro sferico, a forma di scudo. Si comincia con Cacciatori sulla neve, carminio, bellissimo nell’attacco: > “Io vorrei saper dire amore > amore amore amore > come fanno i dementi > ed essere infelice infelice > per il troppo bene, > un solvente, che spezza la catena delle vite > per darci la definitiva morte, > simile a Dio in questo, o > al cuore…” E poi l’attracco, Passo all’Orso, con “la neve che carola lieve”, “che nevica neve”. La neve ricorre come nessun altro elemento nei versi di Ceni – La neve (La discesa delle cose sulla terra) è poesia che chiude La natura delle cose, Jaca Book, 1991; nevischio asperge qua e là le poesie in Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, 2002.  A che questo biancheggiare da Moby Dick (libro capodoglio tradotto da Ceni, con estro da Achab, nel 2007), questo ancheggiare senza slitte? Già: nella neve ogni trama si complica in una irrichiesta purezza – si è, si direbbe, pur al massacro, nella camera d’attesa del paradiso. Piuttosto, si va nella neve per cancellare le tracce, per non lasciare di sé altro segno che un capitale di reticenze.  * In Ceni, una continuità che esagera il ragazzino nel capo in armi, con le piume d’aquila sulla corazza. Intendo: Ceni appare alla poesia già compiuto, come un puer, un adolescente nell’oro. Nulla è da adempiere, nessuna crescita, qui, come accade ad altri poeti, per lo più tutti, che crepitano prima di sfoggiare il loro incendio – che crepino nel loro risorgere al rogo. C’è già tutto, qui, subito: poesia da maneggiare come una torcia. Lo sfasare il linguaggio per giungere all’antecedente; il verbo rupestre ma ricollocato, ora, in meraviglia; al contempo: Lascaux e Beato Angelico; i monili degli Sciti e Lucian Freud.  Se possibile, piuttosto, si passa, in Ceni, dallo sguainare immagini e pennuto linguaggio – il che significa: energumena giovinezza – alla poesia come atto, come moto. Né compianto né liturgia in Ceni – la sua, non è poesia-inno, poesia che salmeggia, poesia-simulacro o poesia-ostensorio, come in Luzi, per dire – ma gesto, propiziatorio o meno che sia. Kamlanie, si diceva un tempo: parola che prepara lo sciamano alla caccia ctonia o celeste, in favore dei morti.  Remo Pagnanelli, a proposito di questa poesia, diceva:  > “certa è la volontà di Ceni, non tanto di nascondersi tra le cose, ma di > diventare una di loro, così il desiderio di regredire a stati precedenti > l’umano… di rientrare nell’inorganico prenatale della materia”.  Aggiungo due libri per penetrare nel tono di questa poesia: i Testi dello Sciamanesimo Siberiano e centro asiatico raccolti da Ugo Marazzi e Riti e misteri degli indiani d’America, raccolta di canti-incanti curata da Enrico Comba; entrambi i volumi sono editi da Utet.  * E poi Ceni, a depistaggio, cita Chuang-Tzu e il Kalevala e strani testi tibetani, ma anche brani di lettere anonime e una “scritta monocroma su muro cittadino”. In epigrafe a un suo libro avverte, “Questo inizia ovunque”. Comunque, direi. Quando apri questo libro, a tuo rischio, accade qualcosa.  * Il breve repertorio di inediti, in calce al libro, va sotto il titolo Felo de se. S’intende, compiere atto di fellonia contro di sé. Cioè: uccidersi. Il termine giunge dall’armeria legale della common law. S’acquieti il puro di cuore: qui si tratta di uscire fuori di sé, di scarcerarsi dal sé, di ammazzarsi misticamente. Pratica necessaria, rinnegare se stessi, al poeta. Di lui, a voi resta la crisalide, cristallizzato verbo – il poeta non è più lì, mai è stato, ha segato i garretti del mondo, il suo dio è alla briglia.  * Da decenni – con bruma negli occhi – si dice di Dylan Thomas dicendo di Ceni. Al di là degli innamoramenti – chi non ama DT? – e delle ovvie adunanze di ‘prove’ – Ceni traduce e scotenna gli anglofoni da anni – la prassi, il modo e infine il senso sono affatto diversi.  Ceni, per l’azzardo nella lingua, per quell’azzannare, è il poeta italiano, forse, più italiano di tutti. Al di là dei savi maestri – in particolare, Piero Bigongiari – la sua traduzione alberga in una sorta di araldica che tiene insieme il lupo dell’Assisiate e la pantera di Dante, i bestiari medievali e gli emblemi cinquecenteschi. Il tutto, però, non ha la statuaria entità di un simbolo: si sprigiona; non è un diorama che abbellisce i versi, ma cosa che morde.  * Ceni realizza l’etica lirica sintetizzata da Hugo von Hofmannsthal in Lebenslied: > “Va come colui che nessuna forza > alle spalle minaccia.  > Sorride, se le pieghe > della vita sussurrano: morte. > A lui offre ogni luogo > piena di mistero la soglia; > s’affida ad ogni onda > il senza patria”.  Giunto come un prodigio, Hofmannsthal smette la poesia, poco più che ragazzo. Resta prossimo e impenetrabile, come un vaticinio. Pari aristocrazia arrischia Ceni.  ** Da I Fiumi Il traguardo della pioggia 3 Qui era la gioia del mondo, era la terra. Resta immobile ritta in piedi negli angoli, tra i re che domandano: “Piove ancora fuori?” o ti sorprenderò a parlarmi, pochi grammi dal volto e presso il fiume, dove gli uccelli informano un’ansa e ascendono e s’impiccano con un suono straniero di sorpresa alla vista: questa non è la patria è il pianeta, l’anima permane dopo la corruzione dopo l’ombra rimane dopo il corpo. * Da La natura delle cose Tracciato d’una abitazione Dedica Chissà se ancora esistono gli stessi boschi, se ancora vi rugano le stesse acque e gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi, se ancora esiste la casa e se la neve di allora ancora non si è sciolta, se ancora rovinano per le foglie sui sentieri i medesimi sassi e il caldo della fiamma nella casa è tuttora acceso non riacceso e la neve ch’era discesa in eterno in eterno ha allungato il segno di minio sulla pertica, se ancora non si è tolta a quell’altezza il primato e sulla pertica per il peso della neve non ha ceduto il cigno, anche se voci presenti mi dicono contro ogni evidenza che l’intero monte ed ogni suo abete mai sono stati. * Da Mattoni per l’altare del fuoco XXXIII Io sto qui e da qui vedo collassare le stelle, implodere i volatili, cabrare verso il loro dio le nubi per poi precipitare in lacrime e piogge; vedo cadere tutto e tutto ininterrottamente la foglia, l’ala, il vento che incitano il bambino giù dal tetto e la polvere dalla tasca buona del cadavere, persino volare in aria per un momento l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò ma senza che mai nulla giunga mai veramente al suolo, così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella sua nube. Io, dalle volute di fimo umide e dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo siano venuti degli uomini, credo, ad ardere i campi e con essi la mia vita; sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta: i figli cessano di crescere i genitori non muoiono in ogni frutto traspare la sua gemma: rivedo mio padre quando aprì la botola e discese nel buio e nulla seppe mai più di me, riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che non torna, ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico negli abissi del mare o perché gli uccelli credono col loro canto di far sorgere il sole. Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il proprio amore e non perdonano e sono spietati e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro esistenza e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza fino alla follia, covone dopo covone, con metodo, contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della vita per abituarti a guardare ogni cosa come da dietro una vampa. Alessandro Ceni *In copertina: Anthony Van Dyck, Caccia al lupo e alla volpe, 1616 ca. L'articolo “Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni proviene da Pangea.
March 28, 2025 / Pangea