Poesia che va imbracciata – e dunque: predisposta alla lotta.
Che ci sia un duello, da quello che indicano gli aruspici, è certo – che tu ne
sia già dentro, a filo, pure.
*
È vero: esiste una poesia che va portata a piene braccia, poesia da estendere
tra sé e i cieli, come un vello d’oro, un palio, una sacra icona. Lo si fa se
quella è poesia che invoca protezione.
C’è, altrove, poesia da tenere in braccio, da stringere in grembo. Devi dargli
il seno, devo offrirgli il latte. È poesia mendica, che si nutre del tuo succo,
lettore.
*
La poesia che si imbraccia diventa tutt’uno con il corpo del lettore, lo
imbarbarisce all’eleganza della lotta. Penso allo scudo di Achille, dove sono
raffigurati il sole e la luna, le stelle e le vigne, armenti e fanciulli. Quello
scudo è un astro, quello scudo è una casa. Chi si avventa su di te deve prima
fendere un universo intero, deve aver fondato una casa – chi può raggiungere chi
è irradiato da quello scudo, chi ne è iridato fino all’ira?
Tutti gli elementi hanno forgiato quello scudo.
*
I bracciali dello scudo prende il via da una collusione di immagini:
> “All’assassinio del capo o del principe
> nella foresta la neve divincola un suo coro,
> innalza sulle conifere l’anima di cuoio,
> i bracciali dello scudo”.
In questa mitografia, i bracciali dello scudo sono strumenti della neve.
Imbracciare il crollo – imbracciare il bianco. Bracconiere di sé. Balenieri in
un cielo che si fa argolide di angeli.
È l’ultima poesia della raccolta, Passo all’Orso, il cui passo, in fondo, resta
iliadico: la caduta di un dio (strabiliante attacco: “Questo vostro unico dio
cadrà/ torneranno innumerevoli gli dèi”), l’assassinio del re, transumanza di
predatori.
Alessandro Ceni scuce lo scudo di Achille. Le figure, sbalzate da millenni, sono
irriconoscibili: l’uomo pare una bestia, la bestia assume fattezze d’uomo;
l’astro è un bolide, l’astro è debole; le stelle sono esplose. Quale
beneaugurale frase andrà incisa sui bracciali?
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I bracciali dello scudo (Crocetti, 2025) raccoglie, in duecentosessanta pagine,
quarant’anni (così si dichiara: “1983-2023”) di poesia di Ceni. Le date sono
dadi bugiardi, ultimo baluardo di un tempo orbo; si sa che I fiumi – il libro
che apre questa raccolta – esce nel 1985, per Marcos y Marcos, incorporando la
prima placca di Ceni, Il viaggio inaudito, che è del 1981.
Da quel che ne sappiamo, Ceni, nell’ormai leggendaria pazienza (o parvenza) –
poesie che escono a lui ad ogni rotazione d’astri –, continua a scrivere, a
decrittare.
*
Credo che nessun poeta come altri pratichi l’autoantologia o la raccolta, come
un lied, dei propri versi. C’è qualcosa di ambiguo – mai analogo alla
ritrattistica – in questo impratichirsi, in questo tenere in stato d’assedio il
libro. Certo, si tratta pur sempre di pubblicazioni, spesso, alla macchia – e
cos’altro potrebbe essere se non tale lanceolata latitanza? –, ma c’è, nel
processo, la rovina, lo spaccare gli specchi, il fare pasto di sé. Meglio:
viaggiare leggeri all’oriente della grande caccia.
Negli anni sono usciti, per dire, Il pieno e il vuoto (Marcos y Marcos, 1996;
singolare antologia di un neanche quarantenne); La ricostruzione della
casa (Effigie, 2012, raccolta di “Poesie scelte 1976-2006” per la cura di
Daniele Piccini, il più fedele e acuto critico di Ceni), Parlare chiuso. Tutte
le poesie (puntoacapo Editrice, 2012), 77 (Edizioni Helicon, 2018), poi questo.
Quasi: a eludere il libro – a elisione del libro. Negli elisi della fuga –
intesa a mo’ di accerchiamento musicale, come si accentra, cerchiandola, la
belva di taglio grosso, in seguito a diligente notturna posta.
Che sia indimenticabile – che se ne dimentichi – si direbbe, di tale
disciplina.
*
D’altronde, la circolarità, il libro sferico, a forma di scudo. Si comincia
con Cacciatori sulla neve, carminio, bellissimo nell’attacco:
> “Io vorrei saper dire amore
> amore amore amore
> come fanno i dementi
> ed essere infelice infelice
> per il troppo bene,
> un solvente, che spezza la catena delle vite
> per darci la definitiva morte,
> simile a Dio in questo, o
> al cuore…”
E poi l’attracco, Passo all’Orso, con “la neve che carola lieve”, “che nevica
neve”.
La neve ricorre come nessun altro elemento nei versi di Ceni – La neve (La
discesa delle cose sulla terra) è poesia che chiude La natura delle cose, Jaca
Book, 1991; nevischio asperge qua e là le poesie in Mattoni per l’altare del
fuoco, Jaca Book, 2002.
A che questo biancheggiare da Moby Dick (libro capodoglio tradotto da Ceni, con
estro da Achab, nel 2007), questo ancheggiare senza slitte? Già: nella neve ogni
trama si complica in una irrichiesta purezza – si è, si direbbe, pur al
massacro, nella camera d’attesa del paradiso. Piuttosto, si va nella neve per
cancellare le tracce, per non lasciare di sé altro segno che un capitale di
reticenze.
*
In Ceni, una continuità che esagera il ragazzino nel capo in armi, con le piume
d’aquila sulla corazza. Intendo: Ceni appare alla poesia già compiuto, come
un puer, un adolescente nell’oro. Nulla è da adempiere, nessuna crescita, qui,
come accade ad altri poeti, per lo più tutti, che crepitano prima di sfoggiare
il loro incendio – che crepino nel loro risorgere al rogo. C’è già tutto, qui,
subito: poesia da maneggiare come una torcia. Lo sfasare il linguaggio per
giungere all’antecedente; il verbo rupestre ma ricollocato, ora, in meraviglia;
al contempo: Lascaux e Beato Angelico; i monili degli Sciti e Lucian Freud.
Se possibile, piuttosto, si passa, in Ceni, dallo sguainare immagini e pennuto
linguaggio – il che significa: energumena giovinezza – alla poesia come atto,
come moto. Né compianto né liturgia in Ceni – la sua, non è poesia-inno, poesia
che salmeggia, poesia-simulacro o poesia-ostensorio, come in Luzi, per dire – ma
gesto, propiziatorio o meno che sia. Kamlanie, si diceva un tempo: parola che
prepara lo sciamano alla caccia ctonia o celeste, in favore dei morti.
Remo Pagnanelli, a proposito di questa poesia, diceva:
> “certa è la volontà di Ceni, non tanto di nascondersi tra le cose, ma di
> diventare una di loro, così il desiderio di regredire a stati precedenti
> l’umano… di rientrare nell’inorganico prenatale della materia”.
Aggiungo due libri per penetrare nel tono di questa poesia: i Testi dello
Sciamanesimo Siberiano e centro asiatico raccolti da Ugo Marazzi e Riti e
misteri degli indiani d’America, raccolta di canti-incanti curata da Enrico
Comba; entrambi i volumi sono editi da Utet.
*
E poi Ceni, a depistaggio, cita Chuang-Tzu e il Kalevala e strani testi
tibetani, ma anche brani di lettere anonime e una “scritta monocroma su muro
cittadino”. In epigrafe a un suo libro avverte, “Questo inizia
ovunque”. Comunque, direi. Quando apri questo libro, a tuo rischio, accade
qualcosa.
*
Il breve repertorio di inediti, in calce al libro, va sotto il titolo Felo de
se. S’intende, compiere atto di fellonia contro di sé. Cioè: uccidersi. Il
termine giunge dall’armeria legale della common law. S’acquieti il puro di
cuore: qui si tratta di uscire fuori di sé, di scarcerarsi dal sé, di ammazzarsi
misticamente. Pratica necessaria, rinnegare se stessi, al poeta. Di lui, a voi
resta la crisalide, cristallizzato verbo – il poeta non è più lì, mai è stato,
ha segato i garretti del mondo, il suo dio è alla briglia.
*
Da decenni – con bruma negli occhi – si dice di Dylan Thomas dicendo di Ceni. Al
di là degli innamoramenti – chi non ama DT? – e delle ovvie adunanze di ‘prove’
– Ceni traduce e scotenna gli anglofoni da anni – la prassi, il modo e infine il
senso sono affatto diversi.
Ceni, per l’azzardo nella lingua, per quell’azzannare, è il poeta italiano,
forse, più italiano di tutti. Al di là dei savi maestri – in particolare, Piero
Bigongiari – la sua traduzione alberga in una sorta di araldica che tiene
insieme il lupo dell’Assisiate e la pantera di Dante, i bestiari medievali e gli
emblemi cinquecenteschi. Il tutto, però, non ha la statuaria entità di un
simbolo: si sprigiona; non è un diorama che abbellisce i versi, ma cosa che
morde.
*
Ceni realizza l’etica lirica sintetizzata da Hugo von Hofmannsthal
in Lebenslied:
> “Va come colui che nessuna forza
> alle spalle minaccia.
> Sorride, se le pieghe
> della vita sussurrano: morte.
> A lui offre ogni luogo
> piena di mistero la soglia;
> s’affida ad ogni onda
> il senza patria”.
Giunto come un prodigio, Hofmannsthal smette la poesia, poco più che ragazzo.
Resta prossimo e impenetrabile, come un vaticinio. Pari aristocrazia arrischia
Ceni.
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Da I Fiumi
Il traguardo della pioggia 3
Qui era la gioia del mondo, era la terra.
Resta immobile
ritta in piedi negli angoli,
tra i re che domandano:
“Piove ancora fuori?” o ti sorprenderò
a parlarmi, pochi grammi dal volto
e presso il fiume, dove gli uccelli informano
un’ansa e ascendono e s’impiccano
con un suono straniero di sorpresa
alla vista:
questa non è la patria è il pianeta,
l’anima permane dopo la corruzione dopo
l’ombra rimane dopo il corpo.
*
Da La natura delle cose
Tracciato d’una abitazione
Dedica
Chissà se ancora esistono
gli stessi boschi, se ancora
vi rugano le stesse acque
e gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi,
se ancora esiste la casa
e se la neve di allora ancora non si è sciolta,
se ancora rovinano per le foglie
sui sentieri i medesimi sassi e
il caldo della fiamma nella casa
è tuttora acceso non riacceso e la neve
ch’era discesa in eterno in eterno
ha allungato il segno di minio
sulla pertica, se ancora non si è tolta
a quell’altezza il primato e
sulla pertica per il peso della neve
non ha ceduto il cigno,
anche se voci presenti
mi dicono contro ogni evidenza
che l’intero monte ed ogni suo abete
mai sono stati.
*
Da Mattoni per l’altare del fuoco
XXXIII
Io sto qui e da qui
vedo collassare le stelle, implodere i volatili,
cabrare verso il loro dio le nubi
per poi precipitare in lacrime e piogge;
vedo cadere tutto e tutto
ininterrottamente
la foglia, l’ala, il vento
che incitano il bambino giù dal tetto
e la polvere dalla tasca buona del cadavere,
persino volare in aria per un momento
l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò
ma senza che mai nulla
giunga mai veramente al suolo,
così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella sua nube.
Io, dalle volute di fimo umide e
dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo
siano venuti degli uomini, credo,
ad ardere i campi e con essi la mia vita;
sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta:
i figli cessano di crescere i genitori non muoiono
in ogni frutto traspare la sua gemma:
rivedo mio padre quando aprì la botola
e discese nel buio e nulla seppe mai più di me,
riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che non torna,
ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico
negli abissi del mare o perché gli uccelli credono
col loro canto di far sorgere il sole.
Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il proprio amore
e non perdonano e sono spietati
e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode
a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro esistenza
e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza
fino alla follia, covone dopo covone, con metodo,
contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della vita
per abituarti a guardare ogni cosa
come da dietro una vampa.
Alessandro Ceni
*In copertina: Anthony Van Dyck, Caccia al lupo e alla volpe, 1616 ca.
L'articolo “Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni
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