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“I poeti non si accontenteranno mai”. L’innocenza del linguaggio e la tensione dell’origine
Origine e confine: Aurore d’autunno In Aurore d’autunno Wallace Stevens porta la sua meditazione sul senso della poesia a risultati estremi. Le ambientazioni inserite nei testi, ad esempio, a partire dal poemetto omonimo, sono una strategia che il poeta usa per rimodulare di continuo la contaminazione tra alto stilistico e basso (il registro ironico) dei contenuti, in una tensione panica che accoglie il reale nel corpo della poesia. Questo bisogno di inclusività fluisce verso un confine poroso che mette in comunicazione gli ambienti concreti di cui si diceva con l’incorporeo, come nella figura che apre il testo, il serpente/aurora, fino all’apparizione estrema dell’angelo tra i contadini, quasi un’epifania dell’idea nella realtà ma anche, nella sua conseguente sparizione, dell’impossibilità della permanenza. Aurore d’autunno, dunque, è la raccolta più “spirituale” di Stevens, un manifesto eretico, il quale rivelando la realtà nel suo essere umile e cruda ne intuisce, attraverso l’immaginazione, il potenziale dinamico e trasfigurativo. Il soffio dell’invisibile è sempre annunciato da oggetti materiali, si diceva, e penso alla capanna bianca che avvia il secondo movimento del poemetto iniziale o alle campane senza “setta” di Le vecchie campane luterane di casa o ancora alla “versione semplice dell’occhio” come “cosa a parte” e “vulgata dell’esperienza” di Una serata ordinaria a New Haven. Il confine, allora, appare come un luogo di attraversamento artificiale e reale insieme, in continuo divenire, necessario perché vero e vero perché necessario. Ed ecco l’eresia: la poesia è “l’occhio angelico” che “definisce”, ponendo il limite all’arbitrio ma spalancando il senso proprio attraverso la nominazione, “assume le grandi velocità dello spazio” attraverso l’immaginazione che è la potenzialità di sublimare il reale riconoscendone l’inconsistenza e la fragilità. Anche la brutalità è traccia di altro, di ciò che è già sfuggito alla nostra comprensione lasciandoci liberi persino di recitare il nostro nome, anche se “non c’è copione” se non il nostro mero “essere qui”. Ma è proprio questo essere de-finiti da una soglia a modificarci come la “nuvola trasformata/ in nuvola di nuovo trasformata” fino alla “distruzione” della parola stessa che può caricarsi, così, del fardello della ferocia umana. “Cabala mistica” è questa immaginazione che cambia “da destino a capriccio leggero”, che cammina nella sua disfatta fino a sfumare in una ben più semplice “comunicazione beffarda sotto la luna”. Eresia, si diceva, perché l’innocenza nega ogni accomodamento, attraversa la soglia pur riconoscendola come inevitabile limite, perché la poesia è questa scelta innocente che è già “oltre l’abitudine del senso”, una “forma anarchica/ infuocata”. * Pellegrinaggio e sublimazione in Pasolini: l’oltreconfine Un’altra esperienza liminare, che parte da altezze diverse ed è connotata da scelte di poetica apparentemente lontanissime, è quella di Pasolini. Nella sua opera multiforme, la poesia è in circolo come esperienza corporea e sensoriale, come necessità di attraversamento di limiti fisici e psichici. La scena del corpo colpito, del dolore che si trasforma in narrazione, assume una funzione simbolica centrale: il confine tra il soggetto e il mondo è anche il luogo in cui si sperimenta la vulnerabilità e la trascendenza. Pasolini esplicita che il limite non è un confine invalicabile, ma un modo di re-imparare a sentire le proprie ferite e di riconoscere l’altro nel dolore, nell’ultima speranza di “trasumanare” attraverso un pellegrinaggio di ricerca assidua e instancabile che, però, ha compreso l’impossibilità di una nuova ascesi. > Jo i soj na viola e un aunàr, > il neri e il rosa ta la ciar. > > (da Dansa di Narcìs II, in La meglio gioventù) Pasolini/Narciso è tutto perché è dentro l’umiltà del mondo, perché “il corpo resta povero” come urla il poeta in Trasumanar e organizzar a vent’anni di distanza dalla serie dei narcisi, perché la necessità panica che lo investe e lo accompagna esprime la ferita dell’unità perduta e accentua in ogni scelta ambivalenze, ambiguità, contraddizioni. Ma è l’aspetto trans-formativo la sua ossessione, giusta come l’osservazione spietata e costante del corpo individuale e sociale martoriato. La riflessione sulla mutazione antropologica è il risultato di un pensiero liminare tra conservazione e progresso che resta tale nonostante i tentativi di ibridazione dell’ultima fase della sua opera, anzi anche grazie a essi.  “Non c’è alcuna ragione/ di scrivere in calce a questi versi la parola// FINE” come per il “discreditato corpo” non c’è alcuna ragione per non rimpiangere la “purezza originaria” e aspirare sempre alla redenzione nella catastrofe. Sineciosi, secondo l’individuazione retorica di Fortini, è scegliere tutta la realtà che vive nelle sue contraddizioni, e l’eresia pasoliniana è proprio la scelta mistica di non scegliere, unica possibilità di accogliere il mondo in potenza, senza abusarne, senza assuefarsi alle logiche di potere, alla predazione. Questa dialettica lacerata disperde ogni possibilità di stabilizzare l’esistenza, fino a portare persino il corpo, sia reale che simbolico (corpo linguistico), alla diaspora, alla disseminazione e, quindi, alla distruzione. Eppure è questa fine che germina qualcosa di ancora illeggibile a non accontentare nessuno perché si fa carico di altro, cioè dell’insoddisfazione e dell’assenza di confine:  > “i poeti, destinati a intravedere nel contrario  > di ciò che fanno, la libertà, sono poeti del bene comune,  > e, senza complicità, sarebbero incomprensibili.  > Essi non vogliono avere diritti –  > nello scherzo o nella superbia essi non fanno altro  > che chiedere pietà a chi, se proprio vogliono, gliela concede;  > ma essi non si accontenteranno mai”. Per il poeta è impossibile la resa, nonostante la scomparsa di un mondo – quello contadino e di un apparato linguistico fatto di pulsione, accensioni e cadute legate al non ragionevole della pura sopravvivenza – di una “terra promessa” che è rappresentazione di un centro ancora illusoriamente umanistico ma già de-caduto a banale artificio. La carne, un tempo presente fino allo scandalo, è ormai merce di scambio dell’omologazione e quindi corpo “fantasmizzato”, obbediente all’unica legge di “essere un bravo americano”, un corpo-uniforme “cheap”, un altro numero che si consuma.  Il poeta “non cadrà per terra” ma opporrà la sua “innocenza” alle “notizie false che la radio dirama” (il medium/potere), continuando a vivere a oltranza, “fino alla fine”, mentre quelle stesse notizie – il che vale sempre – “mostrano il dolore/ che è nella schiena della bestia che fugge”. Il dolore, cioè il disagio sanguinante del “corpo separato” che invoca l’Altro colpevolizzandolo per l’assenza macroscopica di “vie altre” che possano aprire alla pienezza della relazione, contrastando il “vuoto nel cosmo” che mette in scena simbolicamente l’incompletezza della realtà. Per Pasolini, la realtà è linguaggio come in ogni vero poeta, cioè tradizione che si ripete e rinnova, perpetuando la dimensione liminare, sistole e diastole di un versamento del verbale nel reale e viceversa, profondo fino al rigetto. Il poeta può abdicare ma solo per sposare l’eresia, cioè la scelta di ritornare “alla purezza perduta”, anche se questo ritorno è decisamente compiuto da un “pellegrino” che non crede alla “nuova” fede della società dei consumi ma che va comunque avanti guidato da “una strana speranza” di recupero. Così, nonostante “la vita sia [ormai] un mucchio di insignificanti e ironiche rovine” perché il potere consumistico ha “colonizzato l’inconscio”, non può esserci resa: Plantànd chista seconda planta chel che pì i bramavi, a era ch’a fos identica a la prima; e chel che pì a mi scrussiava a era ch’a essi diviersa a no podeva. (da Variante, in La nuova gioventù)    L’atto di abbracciare il reale, anche quello più sconvolgente, era stato un tentativo di riappropriazione, il desiderio ultimo che potesse realizzarsi il contatto con un’autenticità originaria. La poetica di Pasolini, è risaputo, ha sempre invitato a non eludere il limite, ma a viverlo come un modo di aprirsi all’infinito nascosto nel quotidiano. E la poesia è sempre stata il luogo dove si chiarisce un’identità che si può riconoscersi solo nel desiderio sconfinato, tra innocenza primitiva e complessità della storia. L’esperienza poetica, in conclusione, è un attraversamento continuo, nella tensione a un rinnovamento di senso che si nutre di memoria e dolore e quindi di incanto e disincanto. La passione per l’origine in Pasolini, senza dogmatismi, viene rivolta a un’umanità che si riconosce imperfetta e per questo infinita, sempre in cammino tra limiti e possibilità. * La discesa dell’Airone grigio di Alessandro Ceni, uno spazio tra mondi Airone grigio Scenderò su di voi come una tenue trama invernale, una nebbia, per condurvi all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio. «Entra, in questa Lapponia della mente in questa Islanda del cuore, nel pubere esilio di un’infinita prospettiva, nella taiga nella tundra nella muta fornace, un cumulo rossiccio e senza fondo dove puoi imparare a fare a meno di dio e dire ecco uno si sveglia in una stanza d’albergo uno in un’altra, entra ed ascolta lo stantìo di molti in un camerone, il puzzo dentro la scatola, il bambino brutto avvolto in una matassa di fuliggine dipanarsi nel ventre obeso del cielo come una figurina di pasta lievitata – un lontano profumo in cui riconosci il calamo ottuso della vita, la tregua – e il sapido risalire della prediletta nelle sue mutande sporche o il lungo piscio dell’estate all’estuario deforme delle sue gambe, ora prese in prestito dal morto che, con ostinato lento passo di mulo, detto no a cronaca e storia, smarrisce l’unica via di fuga e con disperata calma con forza enigmatica di acrobata torna, entra, ed ascolta i suoi due figli – estranei incomprensibili ma ospiti fissi al banchetto – e la sua ancor giovane moglie – la smarrita – che udendolo rincasare gli tendono l’imboscata di un sogno armando un vascello di specchi ed allodole nel tranello dell’atrio, dove la carne della sua carne, il sangue del suo sangue e la sua con-sorte e metà, credendolo annegato in pensieri – l’identificazione, ad esempio, di un solo granello di felicità per chilometri litoranei arenili – gli pongono in grembo la prova della loro profonda, autentica, incommensurabile gratitudine: perpetrare l’inganno. Entra, come farebbe un bambino nel mattatoio, cioè muggendo, con fiamme implicite e il grave tinnito dei corvi disteso sopra il paesaggio come una fiaba, dove, nella fredda temperatura, nell’impianto disattivato, nel focolare estinto vive ancora, colpo dopo colpo e anni su anni di combattimenti e perdite, un eroe, la morte su una spalla – il frinìo della nube che si posa a indicarlo come una leggenda imperitura – l’amante sull’altra, le entrambe vecchie dal gomitolo turchino o fucsia della permanente sull’occipite arso, la lunga e ritorta pelliccia della passera spiumata, il foro di fumo, il foro d’acqua, l’unghia incarnita del piede giallo, col quale – ascolta – assunte sembianze di ricordo, il racconto della fiaba – astuto come un capo comanche, furtivo come un guerriero apache – discese per la scaletta retrattile dell’orecchio nella camera blindata della mente, e lì, invecchiato soltanto nel volto, mangiò peyotl, fumò, bevve e danzò l’intera notte – la cintura ridente di innumerevoli scalpi, il lastrico del sepolcro diffuso d’ignoti cadaveri, i suoi altri ricordi dispersi in missione: e tutti erano allegri e fiduciosi nella sorte». Scenderò su di voi come una tenue trama invernale, una nebbia, per condurvi all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio. Cosa ci cade addosso nel paradosso della soglia? L’entrata ambigua nel regno e il paradosso dell’esistenza, un racconto di lontananza e carne, di freddi boreali che si consolidano nella mente del soggetto e appiccano un sogno che aspira alla realtà e vi rinuncia, che si sposta, cade e si allontana dal mondo. Il linguaggio entra nella dimensione liminare tra sogno e veglia e in quella crepa allarga il suo racconto, un altro μῦϑος. L’affabulazione è a doppia entrata, prima il freddo del pensiero astratto (la Lapponia della mente corrisponde all’Islanda del cuore), poi l’accesso all’immaginazione profonda dove ogni figura incendia la referenza, incenerisce la sua stessa simbologia. Come l’immagine del bambino nel mattatoio sembra suggerire, accedere significa trasformarsi nel luogo in cui siamo immersi, “muggiamo” perché solo in quel modo, e solo nel perpetuo rinnovamento dell’infanzia, possiamo aderire e far sopravvivere “l’eroe”, il sempre nativo, l’allucinato (come i riferimenti ai guerrieri americani e l’utilizzo del peyotl sembrano suggerire). L’airone grigio ci racconta una favola da invasati, ci investe con ciò che di più reale abbiamo: ci avvicina cantando e nel suo fluire ci abbraccia per raccontarci un’apparizione scenica, quella di un sempre possibile sogno. La “trama invernale” dell’airone, per quanto tenue e nebulosa, è l’unica possibilità per attraversare il reale, per essere condotti “all’esaltazione e al regno, alla caduta e all’esilio”, allo spazio tra mondi che la scrittura può invocare, evocare, provocare, come la sua presenza in luoghi liminali suggerisce accompagnandoci nel viaggio tra materia e spirito, quasi rinnovato Virgilio tra le ombre. * Il viaggio sospeso, beyond the border Essere oltre è una questione talmente intima da non poter essere individualizzabile fisicamente e precisabile in luoghi concreti. Questa illusione materialistica è uno dei mali ideologici del secolo appena trascorso e che ha già sconfinato (perché in realtà, è ovvio, non ci sono “secoli” arginabili entro limiti cronologici) nell’attuale. Essere oltre è una resa all’invisibile per accedere a un’altra percezione e poterla raccontare come fosse una leggenda. Reinventare il reale è la sbordatura, è l’arte di sporgersi dall’orlo e lasciarsi cadere fuori dal senso nel tentativo di coglierne il substrato emotivo. Reinventare non è la pagina bianca o l’assenza di senso ma l’inseguimento di una lingua che per quanto nota è sempre sconosciuta, lasciando all’altro (il lettore) la libertà di reinterpretarla. Reinventare ha a che fare con un’onestà radicale nei confronti dell’altro che abbraccia anche l’abbandono, ma non si limita alla fine della relazione, anzi la riattiva nel vederla scomparire, ma solo dopo aver accettato la scomparsa. Reinventare è un ricominciare e non un inizio altro, perché niente è mai iniziato: Leggenda o mito, se vogliamo, che parte sempre dalla privazione e dell’oltranza:  >     Myself to set foot >         That second > In the still sleeping town and set forth. In un istante che rivela l’urgenza dell’autoesilio e dell’eremitaggio, Dylan Thomas, poeta dell’eccesso, si consacra alla natura. Il panteismo di Poesia in ottobre è totalmente volatile, carico di esseri della fuga, psicopompi dell’oltre confine come l’airone che compare due volte e che, come abbiamo visto nella poesia di Ceni, è figura della soglia.Gli “uccelli dell’acqua e gli uccelli degli alberi alati” portano il nome del poeta sul paesaggio, anticipando e anzi stimolando il cammino. Prendere la strada “over the border” è aprire le porte a una nuova visione (la leggenda di cui si diceva), trasformando le stagioni – significativo il passaggio inaspettato, appena iniziato il viaggio, dall’autunno reale alla primavera dell’immaginazione, “il sole d’ottobre” diventa “estivo” – accompagnati ancora da uccelli, allodole e merli fischianti, che introducono a un’allucinazione, a un “cielo azzurro alterato”, a un’aria “other”, altra, a un mutamento fruttifero (e infatti, prima della fine il testo sostituisce gli uccelli con i frutti, “con mele/ Pere e rossi ribes”) che, contemporaneamente, evoca delle “child’s forgotten mornings”, cioè l’origine perduta che solo nell’immaginazione si rinnova, richiamando più antiche leggende (vedi “le leggende delle verdi cappelle” alla fine della quinta strofa).  Così il mito può essere narrato ancora, un’altra volta ripetendosi e allo stesso tempo mutando per ravvivare l’inconoscibile, l’invisibile: “the mystery/ Sang alive/ Still in the water and singingbirds”, cioè un canto che rinasce attraversando la fine (gli uccelli tornano al termine del componimento nella loro funzione “misterica”, pionieri dell’aldilà, dell’oltranza appunto). A questa lontananza dai giorni della creazione e a questo bisogno di ritorno misterico, occorrerà sposare il quotidiano e la terra nuova, cioè il presente e la speranza che esso possa rinnovarsi. Cicli stagionali e fantasie di ritorno si spogliano delle loro immaginifiche meraviglie ma solo per inoltrarsi in un cammino reale al prossimo stupore:  >      O possa ancora la verità del mio cuore >         Esser cantata > Su quest’alta collina al volgere di un anno. Gianluca D’Andrea L'articolo “I poeti non si accontenteranno mai”. L’innocenza del linguaggio e la tensione dell’origine proviene da Pangea.
November 27, 2025 / Pangea
Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni
La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge – sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa preda che l’alimenta.  Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del creato – per dargli riparo e dimora:  > “le pietre arrotondate indicano un focolare, > presumono persone accerchiantesi in un rito > per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…” Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo, passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici), s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica dizione.  Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica (traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni volta che il poeta la proferisce.  Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto?  Come se da questo potesse definirsene l’atto?    Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria, dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati d’animo…) Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …  In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità, al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole), interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse, col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine, alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori – essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne definisce appieno l’stanza politica.   Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta… Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente. Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo, messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete, leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio: il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire. Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo lavorare il dispositivo della lingua.  Che per tale affidamento si produca qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente contingente, per lo più ignoto e impronosticabile. Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole – o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire, è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile respiro, in cui ritmicamente avvengo. Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione – dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio, quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung, quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un racconto.  Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello straordinario (in cui siamo permanentemente immersi). Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma. L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al silenzio (risonante) dell’infanzia.  L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione – generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle stagioni)… La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto, proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi verbali, l’indulgenza nei vernacoli.  Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione. Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato, nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno, possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.  Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua irresistibile cadenza. Mario Ajazzi Mancini *In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer L'articolo Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
“Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni
Poesia che va imbracciata – e dunque: predisposta alla lotta.  Che ci sia un duello, da quello che indicano gli aruspici, è certo – che tu ne sia già dentro, a filo, pure.  * È vero: esiste una poesia che va portata a piene braccia, poesia da estendere tra sé e i cieli, come un vello d’oro, un palio, una sacra icona. Lo si fa se quella è poesia che invoca protezione.  C’è, altrove, poesia da tenere in braccio, da stringere in grembo. Devi dargli il seno, devo offrirgli il latte. È poesia mendica, che si nutre del tuo succo, lettore.  * La poesia che si imbraccia diventa tutt’uno con il corpo del lettore, lo imbarbarisce all’eleganza della lotta. Penso allo scudo di Achille, dove sono raffigurati il sole e la luna, le stelle e le vigne, armenti e fanciulli. Quello scudo è un astro, quello scudo è una casa. Chi si avventa su di te deve prima fendere un universo intero, deve aver fondato una casa – chi può raggiungere chi è irradiato da quello scudo, chi ne è iridato fino all’ira? Tutti gli elementi hanno forgiato quello scudo.  * I bracciali dello scudo prende il via da una collusione di immagini: > “All’assassinio del capo o del principe > nella foresta la neve divincola un suo coro, > innalza sulle conifere l’anima di cuoio, > i bracciali dello scudo”. In questa mitografia, i bracciali dello scudo sono strumenti della neve. Imbracciare il crollo – imbracciare il bianco. Bracconiere di sé. Balenieri in un cielo che si fa argolide di angeli.  È l’ultima poesia della raccolta, Passo all’Orso, il cui passo, in fondo, resta iliadico: la caduta di un dio (strabiliante attacco: “Questo vostro unico dio cadrà/ torneranno innumerevoli gli dèi”), l’assassinio del re, transumanza di predatori.  Alessandro Ceni scuce lo scudo di Achille. Le figure, sbalzate da millenni, sono irriconoscibili: l’uomo pare una bestia, la bestia assume fattezze d’uomo; l’astro è un bolide, l’astro è debole; le stelle sono esplose. Quale beneaugurale frase andrà incisa sui bracciali?  * I bracciali dello scudo (Crocetti, 2025) raccoglie, in duecentosessanta pagine, quarant’anni (così si dichiara: “1983-2023”) di poesia di Ceni. Le date sono dadi bugiardi, ultimo baluardo di un tempo orbo; si sa che I fiumi – il libro che apre questa raccolta – esce nel 1985, per Marcos y Marcos, incorporando la prima placca di Ceni, Il viaggio inaudito, che è del 1981.  Da quel che ne sappiamo, Ceni, nell’ormai leggendaria pazienza (o parvenza) – poesie che escono a lui ad ogni rotazione d’astri –, continua a scrivere, a decrittare.  * Credo che nessun poeta come altri pratichi l’autoantologia o la raccolta, come un lied, dei propri versi. C’è qualcosa di ambiguo – mai analogo alla ritrattistica – in questo impratichirsi, in questo tenere in stato d’assedio il libro. Certo, si tratta pur sempre di pubblicazioni, spesso, alla macchia – e cos’altro potrebbe essere se non tale lanceolata latitanza? –, ma c’è, nel processo, la rovina, lo spaccare gli specchi, il fare pasto di sé. Meglio: viaggiare leggeri all’oriente della grande caccia.  Negli anni sono usciti, per dire, Il pieno e il vuoto (Marcos y Marcos, 1996; singolare antologia di un neanche quarantenne); La ricostruzione della casa (Effigie, 2012, raccolta di “Poesie scelte 1976-2006” per la cura di Daniele Piccini, il più fedele e acuto critico di Ceni), Parlare chiuso. Tutte le poesie (puntoacapo Editrice, 2012), 77 (Edizioni Helicon, 2018), poi questo. Quasi: a eludere il libro – a elisione del libro. Negli elisi della fuga – intesa a mo’ di accerchiamento musicale, come si accentra, cerchiandola, la belva di taglio grosso, in seguito a diligente notturna posta.  Che sia indimenticabile – che se ne dimentichi – si direbbe, di tale disciplina.  * D’altronde, la circolarità, il libro sferico, a forma di scudo. Si comincia con Cacciatori sulla neve, carminio, bellissimo nell’attacco: > “Io vorrei saper dire amore > amore amore amore > come fanno i dementi > ed essere infelice infelice > per il troppo bene, > un solvente, che spezza la catena delle vite > per darci la definitiva morte, > simile a Dio in questo, o > al cuore…” E poi l’attracco, Passo all’Orso, con “la neve che carola lieve”, “che nevica neve”. La neve ricorre come nessun altro elemento nei versi di Ceni – La neve (La discesa delle cose sulla terra) è poesia che chiude La natura delle cose, Jaca Book, 1991; nevischio asperge qua e là le poesie in Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, 2002.  A che questo biancheggiare da Moby Dick (libro capodoglio tradotto da Ceni, con estro da Achab, nel 2007), questo ancheggiare senza slitte? Già: nella neve ogni trama si complica in una irrichiesta purezza – si è, si direbbe, pur al massacro, nella camera d’attesa del paradiso. Piuttosto, si va nella neve per cancellare le tracce, per non lasciare di sé altro segno che un capitale di reticenze.  * In Ceni, una continuità che esagera il ragazzino nel capo in armi, con le piume d’aquila sulla corazza. Intendo: Ceni appare alla poesia già compiuto, come un puer, un adolescente nell’oro. Nulla è da adempiere, nessuna crescita, qui, come accade ad altri poeti, per lo più tutti, che crepitano prima di sfoggiare il loro incendio – che crepino nel loro risorgere al rogo. C’è già tutto, qui, subito: poesia da maneggiare come una torcia. Lo sfasare il linguaggio per giungere all’antecedente; il verbo rupestre ma ricollocato, ora, in meraviglia; al contempo: Lascaux e Beato Angelico; i monili degli Sciti e Lucian Freud.  Se possibile, piuttosto, si passa, in Ceni, dallo sguainare immagini e pennuto linguaggio – il che significa: energumena giovinezza – alla poesia come atto, come moto. Né compianto né liturgia in Ceni – la sua, non è poesia-inno, poesia che salmeggia, poesia-simulacro o poesia-ostensorio, come in Luzi, per dire – ma gesto, propiziatorio o meno che sia. Kamlanie, si diceva un tempo: parola che prepara lo sciamano alla caccia ctonia o celeste, in favore dei morti.  Remo Pagnanelli, a proposito di questa poesia, diceva:  > “certa è la volontà di Ceni, non tanto di nascondersi tra le cose, ma di > diventare una di loro, così il desiderio di regredire a stati precedenti > l’umano… di rientrare nell’inorganico prenatale della materia”.  Aggiungo due libri per penetrare nel tono di questa poesia: i Testi dello Sciamanesimo Siberiano e centro asiatico raccolti da Ugo Marazzi e Riti e misteri degli indiani d’America, raccolta di canti-incanti curata da Enrico Comba; entrambi i volumi sono editi da Utet.  * E poi Ceni, a depistaggio, cita Chuang-Tzu e il Kalevala e strani testi tibetani, ma anche brani di lettere anonime e una “scritta monocroma su muro cittadino”. In epigrafe a un suo libro avverte, “Questo inizia ovunque”. Comunque, direi. Quando apri questo libro, a tuo rischio, accade qualcosa.  * Il breve repertorio di inediti, in calce al libro, va sotto il titolo Felo de se. S’intende, compiere atto di fellonia contro di sé. Cioè: uccidersi. Il termine giunge dall’armeria legale della common law. S’acquieti il puro di cuore: qui si tratta di uscire fuori di sé, di scarcerarsi dal sé, di ammazzarsi misticamente. Pratica necessaria, rinnegare se stessi, al poeta. Di lui, a voi resta la crisalide, cristallizzato verbo – il poeta non è più lì, mai è stato, ha segato i garretti del mondo, il suo dio è alla briglia.  * Da decenni – con bruma negli occhi – si dice di Dylan Thomas dicendo di Ceni. Al di là degli innamoramenti – chi non ama DT? – e delle ovvie adunanze di ‘prove’ – Ceni traduce e scotenna gli anglofoni da anni – la prassi, il modo e infine il senso sono affatto diversi.  Ceni, per l’azzardo nella lingua, per quell’azzannare, è il poeta italiano, forse, più italiano di tutti. Al di là dei savi maestri – in particolare, Piero Bigongiari – la sua traduzione alberga in una sorta di araldica che tiene insieme il lupo dell’Assisiate e la pantera di Dante, i bestiari medievali e gli emblemi cinquecenteschi. Il tutto, però, non ha la statuaria entità di un simbolo: si sprigiona; non è un diorama che abbellisce i versi, ma cosa che morde.  * Ceni realizza l’etica lirica sintetizzata da Hugo von Hofmannsthal in Lebenslied: > “Va come colui che nessuna forza > alle spalle minaccia.  > Sorride, se le pieghe > della vita sussurrano: morte. > A lui offre ogni luogo > piena di mistero la soglia; > s’affida ad ogni onda > il senza patria”.  Giunto come un prodigio, Hofmannsthal smette la poesia, poco più che ragazzo. Resta prossimo e impenetrabile, come un vaticinio. Pari aristocrazia arrischia Ceni.  ** Da I Fiumi Il traguardo della pioggia 3 Qui era la gioia del mondo, era la terra. Resta immobile ritta in piedi negli angoli, tra i re che domandano: “Piove ancora fuori?” o ti sorprenderò a parlarmi, pochi grammi dal volto e presso il fiume, dove gli uccelli informano un’ansa e ascendono e s’impiccano con un suono straniero di sorpresa alla vista: questa non è la patria è il pianeta, l’anima permane dopo la corruzione dopo l’ombra rimane dopo il corpo. * Da La natura delle cose Tracciato d’una abitazione Dedica Chissà se ancora esistono gli stessi boschi, se ancora vi rugano le stesse acque e gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi, se ancora esiste la casa e se la neve di allora ancora non si è sciolta, se ancora rovinano per le foglie sui sentieri i medesimi sassi e il caldo della fiamma nella casa è tuttora acceso non riacceso e la neve ch’era discesa in eterno in eterno ha allungato il segno di minio sulla pertica, se ancora non si è tolta a quell’altezza il primato e sulla pertica per il peso della neve non ha ceduto il cigno, anche se voci presenti mi dicono contro ogni evidenza che l’intero monte ed ogni suo abete mai sono stati. * Da Mattoni per l’altare del fuoco XXXIII Io sto qui e da qui vedo collassare le stelle, implodere i volatili, cabrare verso il loro dio le nubi per poi precipitare in lacrime e piogge; vedo cadere tutto e tutto ininterrottamente la foglia, l’ala, il vento che incitano il bambino giù dal tetto e la polvere dalla tasca buona del cadavere, persino volare in aria per un momento l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò ma senza che mai nulla giunga mai veramente al suolo, così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella sua nube. Io, dalle volute di fimo umide e dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo siano venuti degli uomini, credo, ad ardere i campi e con essi la mia vita; sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta: i figli cessano di crescere i genitori non muoiono in ogni frutto traspare la sua gemma: rivedo mio padre quando aprì la botola e discese nel buio e nulla seppe mai più di me, riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che non torna, ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico negli abissi del mare o perché gli uccelli credono col loro canto di far sorgere il sole. Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il proprio amore e non perdonano e sono spietati e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro esistenza e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza fino alla follia, covone dopo covone, con metodo, contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della vita per abituarti a guardare ogni cosa come da dietro una vampa. Alessandro Ceni *In copertina: Anthony Van Dyck, Caccia al lupo e alla volpe, 1616 ca. L'articolo “Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni proviene da Pangea.
March 28, 2025 / Pangea