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“Arriverai – e sarò il solo ancora vivo”. Intorno alla poesia di János Pilinszky
La vita di János Pilinszky – per quel po’ di briciole – converge in un punto. Il ragazzo nato a Budapest nel 1921, studi in legge e in storia dell’arte, rampollo di bella famiglia di intellettuali, viene arruolato durante la Seconda guerra. Dal 1944 insegue i tedeschi in ritirata, attraversa diversi campi di concentramento, resta in quello di Ravensbrück. L’esperienza lo disintegra. Ammutolito, János Pilinszky si scopre poeta per poter dire l’orrore, lo sradicamento umano. La sua parola, però, è scotennata: scandita da una semplicità che, spesso, deraglia in allucinazione. Come di labbra che dicano nostante cerniera di filo spinato. Del verbo, János Pilinszky mostra il lato inerte, il roveto, la corona d’ossa. Nel 1946 pubblicò la prima raccolta, Trapéz és korlát, che lo elegge, d’improvviso, tra i massimi poeti ungheresi dell’epoca. Fece vita ritirata, János Pilinszky, geloso della propria scintillante solitudine. L’Ungheria sovietizzata lo accusò di “pessimismo”: per anni gli fu interdetto il pubblicare. Si sposò con una francese, poco prima di morire – morì nel maggio del 1981. Insieme a Attila József e a Miklós Radnóti, è ritenuto il massimo poeta ungherese del Novecento, di certo il più influente: di lui, in Italia, esiste una antica raccolta di Poesie edita da Cseo nel 1983 – null’altro. Eppure, János Pilinszky fece facile breccia nella poesia europea: piacque a molti, per motivi a tratti contrapposti. Ted Hughes – che ha curato una sua raccolta di Selected Poems per Carcanet, nel 1976 – amava l’immaginario di János Pilinszky, scabro, fitto di asserzioni, fatto di metafore che ti arrivano in faccia come una pietra, come un glifo. Amava la sua tensione per l’assoluto in sé: benché molti riassumano tale postura con l’aggettivo “cristiano”, Hughes specifica che “la parola Dio, nei suoi poemi, indica qualcosa di indefinito e senza dominio, di innominabile – il carattere della Creazione stessa. E la sua inclinazione verso questa è tutto fuorché semplice”. Pierre Emmanuel – con cui strinse una forte amicizia –, al contrario, fu avvinto dall’umanità di Pilinszky, da quel dettato senza mutilazioni, che sa dire le cose nella loro purezza, senza infingimenti retorici o bendaggi lirici. In Francia, l’opera di János Pilinszky ha trovato un congeniale traduttore nel poeta Loránd Gáspár. Introducendo una selezione di Poèmes choisis di Pilinszky per Gallimard (era il 1983) Gáspár scrive: > “La poesia di Pilinszky sorprende, sconvolge, lascia attoniti, sprofonda. > Emerge dalle profondità del nostro universo come la Verità dal proprio pozzo, > fragile, nuda – invulnerabile – e avanza sonnambula lungo i bordi del baratro. > Nessun passo falso, la precisione del bisturi. Una disperazione che sorride. > Ogni suo testo spalanca in noi un sentiero infinito e tortuoso, singolarmente > ostinato. Ostinatamente singolare”.  Pilinszky opera una continua ribellione al silenzio – il silenzio che a volte tumula, a volte santifica. Come da una tana, con un coltellino, scava: verrà la luce che boccheggia; mai più a mandrie ma nel singolo volto. Di questo spiraglio – spazientito da tiranti nel sangue – egli è il re. Chi pensa alla poesia come ornamento – e non come oracolo –, come consolazione – e non come: consuonare al grido di lotta degli angeli-farfalla – sia detto pure blasfemo. ** La preghiera di Van Gogh Battaglia persa nei campi ma in cielo splende la vittoria. Uccelli, sole, ancora uccelli. Di notte, cosa resta di me? Di notte, una fila di lanterne il muro di argilla bianca, brilla, e nel giardino, dopo gli alberi, come candele in fila, i vetri; ho abitato lì, una volta, per poco –  non posso più vivere dove vivevo allora: allora, mi copriva un tetto. Allora mio Signore, eri tu a coprirmi.  * Scritto sul muro di un campo di concentramento Dove sei crollato, resti.  In tutto l’universo, questo posto è l’unico posto che è davvero tuo.  I campi corrono ovunque.  Casa, mulino, pioppo – ogni  cosa lotta ed è qui, con te,  come se fosse mutilata dal nulla.  Ma sei tu che non ti arrendi. Ti abbiamo saccheggiato? Ora sei ricco. Ti abbiamo accecato? Ci fissi ancora.  Futile testimone senza più verbo.  * Quando arriverai  Sono solo. Arriverai  e sarò il solo ancora vivo. Piume in un nido vuoto. Stelle che hanno divorato il cielo.  L’orfanotrofio resiste: come in una discarica invernale rovisto tra i suoi rifiuti per trovare frammenti  della mia vera vita. Sarà una pace impareggiabile. Inaudita perfino per il mio cuore.  Intorno a me, le estatiche muraglie del silenzio.  Nuda eternità.  Ed è tua, è impotente e tua.  Un regale candore creato per te, fin dal primo giorno.  Il tempo siede, non ha  più parole, come un manichino di corde. Il desiderio  ha perso le braccia, non è che un tronco che ansima.  Quando sarai qui, avrò perso tutto. Nessuna casa – neanche  un letto. Potremo abitare  indisturbati nella pura estasi.  Non fare razzia di me – ti chiedo soltanto questo: non abbandonarmi.  Se sei debole, morirò.  È terribile svegliarsi  tra i cuscini quando non c’è altro che il rumore della strada.  * Amore, deserto Un ponte, poi una strada di cemento, calda –  il giorno svuota le tasche e mostra a tutti i suoi rari averi. Sei solo nel catatonico crepuscolo.  Panorama pari al greto di un letto: cicatrici che brillano, brilla l’oscurità. La sera si fa bosco. La luce del cieco sole mi intorpidisce. Non lascerò l’estate.  Estate. Caldo bulimico.  I galli immobili come cherubini nell’aia dai recinti rovinati.  Le loro ali non tremano.  Sete. Chiedo acqua.  Ancora oggi sento quel febbrile muovere la bocca: impotente come una pietra metto a tacere i miraggi. Gli anni passano. Ancora anni. La speranza è una tazza di latta rovesciata sulla paglia.  * Parafrasi Così è scritto: sei il cibo di tutti. Per questo, mi dono al mondo, carne viva  da sfamare. Tutti i vivi sono  famelici: sei l’amante di tutti perché tutto termina nel sangue. Mi rigiro nel letto e tremo: voglio vedere chi divora il mio cuore.  Questo letto  è una mangiatoia. Eppure, il desiderio  mi sottomette  ed è immacolato il suo splendore.  Il mio cuore arriva ed è divorato dalla mandria.  Sono carne viva che balbetta, confusa. Sono il tuo vivo cibo che non riposa mai: la tua fame consumerà la mia essenza.  Chi non appartiene a nessuno è morso da tutti. Quindi, distruggimi orribile Amore. Uccidimi. Non lasciarmi solo.  Janos Pilinszky L'articolo “Arriverai – e sarò il solo ancora vivo”. Intorno alla poesia di János Pilinszky  proviene da Pangea.
November 14, 2025 / Pangea