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“Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia
In poesia accade come in pittura. Potremmo dire: il privilegio del volto, il principio del ritratto – o dell’autoritratto –, bracconiera priorità dell’io.  L’arte europea eccelle nell’investigare l’uomo. Negli sguardi smaliziati di Antonello, nei corpi-molosso di Michelangelo, nei volti regali e atterriti di Tiziano intuiamo il ribollio dell’anima, i labirinti dell’interiore. La resa dei volti, pur perfetta, non è mai realistica – o encomiastica – ma arresa. Il corpo è ritratto, in realtà, per ritrarre l’interiorità: il corpo ritratto è un corpo rivelato, identifica un’indole – che sia: ferina e ambiziosa o umile e benevola, sottomessa al fato o fatale.  Il ritratto reca un meccanismo opposto a quello dello specchio, oggetto demoniaco perché riduce il corpo alla sua superficie corruttibile – alla sua disonestà. Il ritratto ambisce ad essere la riproduzione di un corpo già risorto, eletto ai cieli.    La ragione del predominio dell’umano nell’arte europea è ovvia: da un lato l’armonia greca – l’universo è proporzionato alla sproporzione del corpo umano; il tutto è commisurato all’uomo – dall’altro lo schianto del Dio-fatto-a-somiglianza-d’uomo (ribaltamento della prospettiva ebraica espressa in Genesi). Tutto è lì, in quel Dio-corpo appeso alla Croce. Le innumerevoli raffigurazioni del trafitto, dell’innocente ucciso, hanno per scopo lo spiraglio, la stimmate di luce, uno stillare d’altro mondo. Non si ritrae il Cristo: gli si fa, devotamente, lo scalpo – che mi attraversi, mentre lo dipingo, che mi folgori mentre prego Lui attraverso la Sua raffigurazione.  Dalla pittura europea l’animale è bandito.  Certo, l’animale c’è. Di solito, a decorazione – la stessa funzione che ha il paesaggio. I cani – cagnetti o levrieri che siano – fanno parte dell’oggettistica di un principe, ne costituiscono il paesaggio domestico: come la sua pelliccia, l’anello, il bastone – indicano uno status.  Altrimenti, l’animale assurge a simbolo. Il pavone, lo scorpione, il pellicano, il serpente – per non dire gli emblemi cristici o evangelici, dal leone al toro – non sono raffigurati per ciò che sono ma per ciò che rappresentano in uno zodiaco dei sensi, in un bestiario umano, troppo umano. È una dinamica tipica, di cui abbiamo dimestichezza leggendo Dante, ad esempio, quando appaiono, quasi bave d’oltremondo, la lonza e la pantera, l’aquila e il veltro. I bestiari, in effetti, non sono un repertorio zoologico di bestie: l’animale, spesso ferino, spesso immaginario, s’insinua in un senso, in un sentire, umani, come la pietra incastonata nella chioma di ferro di un anello.  Esempi sparsi – chessò, la lepre e il rinoceronte di Dürer – afferiscono a un’area del singolare che riguarda la sapienza zoologica, il primo vagire della ‘scienza’ – ma l’animale, come l’animale uomo, non è semplicemente la sua pur perfetta raffigurazione fisica. Le scene di caccia del Settecento, i leoni di Delacroix o le vacche di Segantini – pur nella diversità di intenti e di talenti – non deviano dalle schema: la bestia è co-protagonista, è lì a illuminare certi aspetti della vita umana. La bestia esiste perché c’è un uomo che la agisce. Anche i pittori statunitensi, storditi dalla vastità dello sconosciuto continente in cui sono atterrati, restano alieni all’animale: i loro quadri – pompier più che pionieristici – raffigurano, alla meglio, vaste vallate, monti abissali, un verdeggiare infinito (quando non inquietante); l’uomo, in scala, ridotto, è pur sempre lì, frastornato Adamo pronto a modellare il mondo secondo il suo spirito.  Allo stesso modo, l’aquila di Hölderlin, il passero solitario di Leopardi, il nightingale di Keats, l’albatros di Baudelaire e l’upupa di Montale sono funzioni – geniali – dello stato d’animo del poeta: sono simboli. La pratica è antichissima: già Efrem il Siro, nel IV secolo, in uno dei suoni inni, celebra la familiarità tra uomo e bestia (“noi siamo loro”), pur nella differenza: “attraverso gli animali/ l’uomo scoprì se stesso”. Gli animali in elenco rappresentano, appunto, dei ‘caratteri’ umani: il lupo è vorace, la iena assassina, la serpe infida, lo scorpione traditore, il cane fedele; la volpe è figura di Erode, il sovrano ingordo e codardo che “profana la tana altrui” e “per vanità” uccide il Battista. L’animale, in sé – troppo attonito al terreno –, è niente. La ‘continuità’ con l’uomo ne annienta l’irriducibile alterità, l’irriducibile nobiltà.  Altre culture, al contrario – quella estremo orientale, quella dei nativi americani o degli sciamani dell’area uralica e siberiana, ad esempio – fanno dell’animale il centro della loro attività rituale e artistica. La tigre e l’airone, la gru e il granchio, il pesce e la scimmia riempiono le opere dei pittori giapponesi e cinesi: il loro intento non è realistico né simbolico; semmai anagogico. Come il pittore occidentale tenta, attraverso il ritratto, di avverare l’anima di colui che ritrae, così il pittore orientale vuole conquistare la ‘forza’, l’energia della bestia che dipinge. Il corvo e il coyote, la volpe e l’orso, nelle culture sciamane, non sono bestie simboliche, bensì autentiche; sono figure regali che aiutano il sapiente nell’operazione di guarigione, nell’operare il viaggio negli altri mondi. Tranne rari casi, la poesia italiana è embricare l’ombelico: sprofondare in sé, specchiarsi nel mondo; ambire – o aderire – alla belva in quanto araldica lirica. Naturalmente, le eccezioni sono diverse, diversamente singolari – dal Bove di Pascoli agli aironi di Alessandro Ceni e di Antonio Porta, dalla Capra di Saba (nel cui “viso semita”, però, scorgiamo lo scalpitio dell’emblema, di una fraternità che va al di là dell’animale, di cui l’animale non è parte) ai bestiari di Bellintani – io preferisco Il cervo di D’Annunzio, che rimane il solo poeta ‘panico’ della nostra tradizione:  Non odi cupi bràmiti interrotti di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera si sépara dal branco delle femmine e si rinselva. Dormirà fra breve nel letto verde, entro la macchia folta, soffiando dalle crespe froge il fiato violento che di mentastro odora. Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma, sai tu?, del cor purpureo balzante. Ei di tal forma stampa il terren grasso; e la stampata zolla, ch’ei solleva con ciascun piede, lascia poi cadere. Ben questa chiama “gran sigillo” il cauto cacciatore che lèggevi per entro i segni; e mai giudizio non gli falla, oh beato che capo di gran sangue persegue al tramontare delle stelle, e l’uccide in sul nascere del sole, e vede palpitare il vasto corpo azzannato dai cani e gli alti palchi della fronte agitar l’estrema lite! Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti noi tra le canne fluviali assisi. Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo fiume non solcherà suplice solco del tuo braccio e del tuo predace riso, fieri guizzando i muscoli nel gelo. Inermi siamo e sazii di bellezza, chini a spiare il cuor nostro ove rugge, più lontano che il bràmito del cervo, l’antico desiderio delle prede. Or lascia quello il branco e si rinselva. Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso. Ei più non vessa col nascente corno le scorze. Già la sua corona è dura; e il suo collo s’infosca e mette barba, e fra breve sarà gonfio dal molto bramire. Udremo a notte le sue lunghe muglia, udremo la voce sua di toro; sorgere il grido della sua lussuria udremo nei silenzii della Luna. È vero: nel mondo anglofono – complici, soprattutto, le novelle mitologie dei preromantici, Blake su tutti, le vertigini di Gerard Manley Hopkins, la forza concettuale di Yeats – la bestia ritrova il suo estro-cuspide, il posto che le spetta. Eppure, anche qui – il libro germinale è La Dea Bianca di Robert Graves – si tratta, per lo più, di un regesto di simboli, di dissotterrare antiche, druidiche immagini – malinconia di un tempo trascorso. Il solo poeta che sistematicamente abbia messo al centro l’animale nel suo discorrere lirico è Ted Hughes; fin da subito, fin dal primo libro, The Hawk in the Rain, fin da quelle prime poesie-fossili, giunte da un mondo ulteriore, The Jaguar, The Thought-Fox, The Horses. Non è un caso se una delle antologie postume più belle di Hughes – a cura di Alice Oswald – s’intitoli Bestiary. Il bestiario, però, contempla l’inganno: il termine rimanda, ancora, all’animale-effigie, alla bestia come gioiello nell’immaginario umano – alla bestia spoglia di sé, mero alambicco d’intelletto.  Il punto più profondo del legame tra Ted Hughes e l’animale, tra il poeta e l’anima animalesca accade in libro considerato secondario nell’opera di quel grande poeta. Under the North Star viene pubblicato da Faber nel 1981 in edizione di pregio, con gli acquerelli di Leonard Baskin, già compagno di imprese poetico-pittoriche di Hughes. Il libro dà voce a diversi animali: il gufo delle nevi e l’orso, la lince e l’airone, la volpe artica, l’aquila e il puma. Dedicato To Lucretia, la figlia di Baskin, il libro ha il ritmo di una filastrocca: in realtà, Hughes – lo consegna alla prima, straniante, poesia, Amulet – impone un rito. Il poeta indossa la stola lirica – dunque: gli attributi sciamanici –, industria la danza e diventa civetta e airone, grizzly e puma, lince e luccio e bue. Guarda con i loro occhi, tenta di registrare il loro linguaggio; non è fratello né artefice della bestia, ma scriba. Poesia, qui, allora, è verbo di neve: bianco testimone di tracce, aneliti, sangue. Non conta tanto – non conta più – che la poesia sia bella (categoria astratta, che pertiene al mondo, per lo più ingannevole, del letterario, dunque dell’illetterato quanto a mondo), ma autentica; l’autorialità del poeta, qui, è nel suo sacrificio: l’io, ora, vola, galoppa, fluttua e sgrana arti e artigli.  Che siano poesie ‘per bambini’, queste – così dicono gli adulti, decrepiti nella loro origine – rientra nella pratica dell’autore. Va addestrato alla bestia, il bimbo, che sappia – piccolo Mowgli espropriato del primigenio bosco – i suoni e le voci animali, che riconosca il punto di parentela e quello dell’intoccabile. A tale distanza occorre ascendere – il resto, non ormeggia più, è gioco di ombreggiatura; e, certo, la poesia è piena di straordinari caratteristi, i caricaturisti della realtà.  *** Da Under the North Star Amuleto  Nelle fauci del Lupo, una montagna di erica. Nella montagna di erica, la pelle del Lupo. Nella pelle del Lupo, la frantumata foresta. Nella frantumata foresta, la zampa del Lupo. Nella zampa del Lupo, l’orizzonte pietrificato. Nell’orizzonte pietrificato, la lingua del Lupo. Nella lingua del Lupo, le lacrime della Cerva.  Nelle lacrime della Cerva, la palude di ghiaccio. Nella palude di ghiaccio, il sangue del Lupo. Nel sangue del Lupo, vento di neve. Nel vento di neve, l’occhio del Lupo. Nell’occhio del Lupo, la Stella Polare.  Nella Stella Polare, le fauci del Lupo.  * Civetta delle nevi  Occhio Giallo, Occhio Giallo giallo perché è gialla la Luna.  Esce dal Buco Nero del Nord un’Era Glaciale in volo! La Luna vola bassa –  la Luna incombe, caccia la sua Lepre –  La Luna cala, grossa di brina affamata come la fine del mondo.  Il Polo Nord ha la gola roca ruggisce e ne trema il globo –  Gli occhi del pianeta serrati di paura eppure le stelle tremano di gioia.  Guarda! Lepre ha il suo splendido monumento! Si impenna una bufera Ciclope su zampe di ferro nero! Gioiamo insieme alla Lepre! Civetta delle nevi, Civetta delle nevi sei immobile e fissi l’immobile globo.  La Luna vola alto.  La bianca montagna è in volo.  Lepre diventa un angelo! * Airone  Sole è un iceberg nel cielo. In un’alcova di gelo giacciono i pesci. Il fiume è condannato Morte si muove su di lui. Ma l’Airone in posa di caccia è diventato di ferro e non può muoversi.  * Volpe artica Nessuna traccia. Neve.  Orecchio – resto stellare.  Cristalli di silenzio.  Il mondo ti fissa, attonito.  Fauci fradice di ghiaccio perforano la brina: qualcosa di impalpabile –  nevischio di piume.  La foresta sussurra.  Respiro furetto vuoto come il chiarore lunare ha un’ombra blu.  Il sogno smuove il muso addormentato della terra folgorata dalla neve.  Quando verrà il giorno sarà impossibile per il sole rintracciare ciò che la notte  ha registrato di nascosto.   * Lince Le zampe silenti della foresta, delle nuvole, delle montagne hanno il loro meritato riposo sotto l’orecchio di Lince.  Dormono del suo sonno – come  in un profondo – profondo – lago. Non disturbare la belva o le nuvole apriranno gli occhi, la foresta, in silenzio, sposterà tutti i boschi e le montagne, arse di nebbia, svaniranno tra le loro pietre. * Puma  Dio mise il Puma sulla Montagna: sarai l’organista  degli echi cattedrale.  Delle sue urla risuona la cava rupe la soglia e l’abisso.  La sua musica sorprende per vastità. Sul pinnacolo del suo gridare solleva la gelida vetta e ascende, alla ricerca del Creatore. Sacerdotessa delle caverne dall’occhio folle –  per tutta la notte cerca di assalire il cielo: il suo canto è come un missile e la Luna gli gela il muso.  Il giorno dopo, esausta dorme al sole.  A volte – spezzata da un silenzio che fiammeggia –  indossa un gioiello.   Ted Hughes *In copertina: Leonard Baskin, Frightened Boy and His Dog, 1955; nel testo, disegni di Leonard Baskin L'articolo “Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia proviene da Pangea.
December 4, 2025 / Pangea
“Umanità annientata – annegata”. Ovidio, il poeta fondamentale
Le metamorfosi sono il libro-zenit della cultura occidentale. Il ‘tono’ di Ovidio, allo stesso tempo, spalanca la via alla novellistica, alla fiaba – da Boccaccio a Basile al fantasy odierno – come alla rinascita della sapienza ‘pagana’ – dalla festosa corte medicea orientata da Ficino e da Poliziano a Robert Graves. Dalla radice ovidiana – egualmente ironica e mistica, un pullulare di maschere che, in fondo, smaschera la nudità del dio – si dipartono Giordano Bruno e Lord Byron, Cesare Pavese e Oscar Wilde. Le metamorfosi – che hanno al contempo la proprietà del libro sacro e del libro dissacrante – sono la bussola intorno a cui Ezra Pound ha orientato i Cantos (secondo una formula ripetuta e tritata, la traduzione delle Metamorfosi a cura di Arthur Golding, edita a metà del Cinquecento, è, a dire di ‘Ez’, The most beautiful book in the English language) e Norman O. Brown – in opposta marcia politica – ha forgiato la propria idea di una completa trasmutazione dello spirito (si legga, almeno, Apocalypse And/or Metamorphosis).  A differenza di altri ‘classici’, differentemente capitali – Eschilo, Lucrezio, Lucano – Le metamorfosi è un libro che attecchisce, con metamorfica levità, in ogni tradizione. È un libro-camaleonte, un libro-salamandra che non si studia per mera curiosità culturale o per tributare un culto alla bellezza – cosa che accade, per dire, ai “lirici” greci o ai “tragici” – ma perché, leggendolo, ci pare che squaderni un segreto, che squarci un velo. Che a compiere quest’opera di svelamento sia, in fondo, un esteta, un giocoliere del linguaggio, un poeta teso, sempre, tra la burla e il bolide, tra l’inganno e l’intrigo, un poeta carnale più che un uomo ‘pneumatico’, è uno scherzo della provvidenza.   A dire della sempiterna ‘novità’ di Ovidio – e della necessità di ‘massacrare’ i classici fino al punto supremo di esplosione: nel 1994 i poeti Micheal Hofmann e James Lasdun curano per Farrar, Straus and Giroux After Ovid: New Metamorphoses. In sostanza: i due reclamano alcuni tra i poeti più importanti del tempo a una ‘riscrittura’ dei miti ovidiani. Al libro partecipano, tra i tanti, Seamus Heaney e Thom Gunn, Charles Simic, Paul Muldoon, Robert Pinsky. Il più entusiasta è Ted Hughes. Il poeta inglese – eletto Poet Laureate del regno dieci anni prima – aveva già sperimentato la traduzione lavorando nell’opera di Seneca e in quella di Eschilo: autori a lui congeniali per potenza simbolica e scintillio di sangue. Poeti-sapienti – il greco, edotto nei misteri dell’altro mondo; il latino, esperto nei poteri di questo mondo – incapaci in ornamento lirico, che sprofondano nei vortici del conoscere, addestramento a spine e a ululati.  A che Ovidio, dunque? “Me la sono goduta! Una vacanza in una casa di risposo…”, scrive Hughes a un’amica dicendo del suo tradurre. Preso dall’esercizio – liberatorio quando non illecito nel verbo –, Ted Hughes continua a lavorare nel gorgo delle Metamorfosi: nel 1997, per Faber, licenzia Tales from Ovid, una riscrittura – a volte radicale – dei racconti ovidiani. Insieme a Birthday Letters, è l’ultimo grande libro di Hughes pubblicato prima della morte, accaduta nell’ottobre del 1998 – è un libro-lascito, un libro-sepolcro. Messo in scena dalla Royal Shakespeare Company, Tales from Ovid godette di un isperato successo, vincendo, tra l’altro, il Whitbread Book of the Year. Nel dicembre del ’97 il “New York Times” pubblica una recensione eloquente fin nel titolo – Sex and Violence in Latin Hexameter – firmata da James Shapiro, che scrive, tra l’altro, “l’esito è un raro dono: ispirata traduzione che si impenna in vigorosa poesia a pieno titolo”.  Secondo Hughes, Ovidio è la grande ‘fonte’ di Chaucer – “che lo saccheggiò platealmente” – e di Shakespeare, dunque della tradizione lirica inglese. Ma Ovidio a Hughes non interessa né come artefice né come – fuorviante – ‘enciclopedia’ di miti antichi. Nel quindicesimo libro delle Metamorfosi, Ovidio dà voce a Pitagora: il maestro vissuto nel V secolo prima di Cristo, spiega la teoria della metempsicosi, dell’immortalità dell’anima, della trasmutazione di tutto in tutto. È questa connessione alchemica tra le cose che affascina Hughes, uno che professava lo sciamanesimo lirico come unica ‘operazione’ degna di scrittura. Per Hughes la letteratura era, in fondo, un accidente inessenziale: il poeta è colui che porge parole ‘operanti’, che mutano i fatti, che si voltano in volpi, lupi, sciacalli e fiumi. Senza questa continua invasione (o: invasamento), senza, ripeto, l’operazione di contro all’opera – quest’ultima è statica, libresca, innocua; la prima è viva, perenne, in moto, pericolosa – la poesia, formula inerte, è inutile.  > “Soprattutto, Ovidio era interessato alla passione. O meglio, alla passione > che sperimenta il posseduto. Non tanto la passione ordinaria, ma la passione > umana messa alle strette, estrema – la passione che brucia o levita o si muta > in un’esperienza soprannaturale… Ciò che affascina Ovidio è la storia di un > amore disperato, condannato nella più folle forma immaginabile”.  La passione e il posseduto. L’amore apre al sapere: la ferita è il frutto concesso all’iniziato, stimmate-chiavistello che spalanca i mondi. Hughes preferiva i fiumi dello Yorkshire ai club letterari di Londra, sapeva cacciare, praticava l’astrologia con pazienza paradossale – fissava i segreti, guardava dove non è da guardare.  > “Nonostante una apparente stabilità, l’epoca augustea era in balia > dell’isteria e della disperazione, si crogiolava, da un lato, negli appetiti e > nelle sofferenze infinite dell’arena dei gladiatori, dall’altro tentando una > trascendenza spirituale che di lì a poco prese la forma del crocefisso. La > tensione tra questi estremi – e la loro occasionale collisione – traspare nei > racconti di Ovidio. Essi stabiliscono un registro approssimativo di cosa > significhi vivere sul baratro della psiche, nel tempo nuovo che si apre alla > fine di un’era”. Il sangue dei lottatori redento dal sangue del Nazareno, il flagellato che rifiuta lo scontro. Ogni scrittura di Hughes è ‘sacrificale’. Il poeta credeva di vivere alla fine di un’epoca – fece azioni per dilatare le maglie dell’abisso e ispirare le bestie. A noi, predatori per natura, resta la forma della preda – di quella libertà, tra foglia e sfiducia, odorano i nostri testi, erbivori al tocco.  *** Da Tales from Ovid. Creation; Four Age; Flood E sguainò il baleno che incardina i ghiacci, a Nord.  Canovaccio di aridi venti dalle montagne e dai deserti che si espandono in tuoni blu e labbra crepate. Affidò la terra ai venti del Sud. A Est e a Ovest fu l’oscurità: due vaste ali d’acqua si spalancarono.  Il tuono dominò i cieli tuono pieno di piume somma buio a buio dal vello dell’Equatore.  Tempesta che ruggisce è il volto del vento del Sud.  Barba e criniera sprigionano uragani mentre trascina oceani come la coda di un pavone. E scotenna le nubi e trema la terra e i cieli sono pari a pugni e il tuono domina. Arcobaleno, lo scudiero di Giunone, unisce cielo e terra, sigilla l’oscurità.  Ogni raccolto fu sradicato. L’uomo dei campi piange e latra mentre osserva dissolversi  il suo lavoro. Ma l’acqua non era ancora sufficiente a placare l’ira di Giove.  Allora il fratello, Nettuno, che domina i mari impennò onde, reclamò fiumi a funi dal fondo degli oceani e ordinò di dissigillare le falde. I fiumi eruttarono tornando alle sorgenti.  Nettuno arpionò la terra con il tridente.  Crepaccio crepò in crepaccio e ruggivano le infere acque.  Acquazzone s’incunea in acquazzone frutteti mandrie fattorie raccolti sono risucchiati nella spirale terrena. I templi e le statue si inginocchiano nel vortice.  Tetto guglia torre tutto decapitato  dalla corrente.  Finché terra e mare sono uno unico mare – senza riva.  Genti straziate in isole sempre più piccole.  Umani remano in cerchio senza meta – impazziti.  Dov’erano le arature ora un uomo drizza la vela; dov’era il camino uno  vara la chiglia di una zattera.  Dall’alto di un olmo un uomo tenta la pesca; ancore ancorate agli armenti attorte alle radici della vite.  Dove le capre gettavano il collo all’erba, ora saltano innumeri foche, una sull’altra. Le nereidi vagano sbigottite verso giardini sommersi nuotano in silenzioso stupore nelle cucine, toccano gli occhi dei busti di marmo che fissano la vastità dei corridoi da una luce acquea. I delfini fanno le volpi e cacciano le loro prede  tra le querce – i lupi se la caveranno per un po’, setacciando i cadaveri.  I leoni in groppa a cavalli esangui – tigri che assaltano tori in naufragio – le belle gambe del cervo sono esili, ora, arpionate dalle alghe. Affonda il cinghiale  e le sue sacre armi, il lampo delle zanne, gli sono di peso. L’oceano è il solo luogo, ora e apre il suo giaciglio sui colli.  Fame miete i sopravvissuti.  Umanità annegata – annientata corpi che galleggiano come  moria di rane – come una piaga.  Ted Hughes *In copertina: una illustrazione dalle “Metamorfosi” di Antonio Tempesta (1555-1630) L'articolo “Umanità annientata – annegata”. Ovidio, il poeta fondamentale proviene da Pangea.
November 20, 2025 / Pangea
“Arriverai – e sarò il solo ancora vivo”. Intorno alla poesia di János Pilinszky
La vita di János Pilinszky – per quel po’ di briciole – converge in un punto. Il ragazzo nato a Budapest nel 1921, studi in legge e in storia dell’arte, rampollo di bella famiglia di intellettuali, viene arruolato durante la Seconda guerra. Dal 1944 insegue i tedeschi in ritirata, attraversa diversi campi di concentramento, resta in quello di Ravensbrück. L’esperienza lo disintegra. Ammutolito, János Pilinszky si scopre poeta per poter dire l’orrore, lo sradicamento umano. La sua parola, però, è scotennata: scandita da una semplicità che, spesso, deraglia in allucinazione. Come di labbra che dicano nostante cerniera di filo spinato. Del verbo, János Pilinszky mostra il lato inerte, il roveto, la corona d’ossa. Nel 1946 pubblicò la prima raccolta, Trapéz és korlát, che lo elegge, d’improvviso, tra i massimi poeti ungheresi dell’epoca. Fece vita ritirata, János Pilinszky, geloso della propria scintillante solitudine. L’Ungheria sovietizzata lo accusò di “pessimismo”: per anni gli fu interdetto il pubblicare. Si sposò con una francese, poco prima di morire – morì nel maggio del 1981. Insieme a Attila József e a Miklós Radnóti, è ritenuto il massimo poeta ungherese del Novecento, di certo il più influente: di lui, in Italia, esiste una antica raccolta di Poesie edita da Cseo nel 1983 – null’altro. Eppure, János Pilinszky fece facile breccia nella poesia europea: piacque a molti, per motivi a tratti contrapposti. Ted Hughes – che ha curato una sua raccolta di Selected Poems per Carcanet, nel 1976 – amava l’immaginario di János Pilinszky, scabro, fitto di asserzioni, fatto di metafore che ti arrivano in faccia come una pietra, come un glifo. Amava la sua tensione per l’assoluto in sé: benché molti riassumano tale postura con l’aggettivo “cristiano”, Hughes specifica che “la parola Dio, nei suoi poemi, indica qualcosa di indefinito e senza dominio, di innominabile – il carattere della Creazione stessa. E la sua inclinazione verso questa è tutto fuorché semplice”. Pierre Emmanuel – con cui strinse una forte amicizia –, al contrario, fu avvinto dall’umanità di Pilinszky, da quel dettato senza mutilazioni, che sa dire le cose nella loro purezza, senza infingimenti retorici o bendaggi lirici. In Francia, l’opera di János Pilinszky ha trovato un congeniale traduttore nel poeta Loránd Gáspár. Introducendo una selezione di Poèmes choisis di Pilinszky per Gallimard (era il 1983) Gáspár scrive: > “La poesia di Pilinszky sorprende, sconvolge, lascia attoniti, sprofonda. > Emerge dalle profondità del nostro universo come la Verità dal proprio pozzo, > fragile, nuda – invulnerabile – e avanza sonnambula lungo i bordi del baratro. > Nessun passo falso, la precisione del bisturi. Una disperazione che sorride. > Ogni suo testo spalanca in noi un sentiero infinito e tortuoso, singolarmente > ostinato. Ostinatamente singolare”.  Pilinszky opera una continua ribellione al silenzio – il silenzio che a volte tumula, a volte santifica. Come da una tana, con un coltellino, scava: verrà la luce che boccheggia; mai più a mandrie ma nel singolo volto. Di questo spiraglio – spazientito da tiranti nel sangue – egli è il re. Chi pensa alla poesia come ornamento – e non come oracolo –, come consolazione – e non come: consuonare al grido di lotta degli angeli-farfalla – sia detto pure blasfemo. ** La preghiera di Van Gogh Battaglia persa nei campi ma in cielo splende la vittoria. Uccelli, sole, ancora uccelli. Di notte, cosa resta di me? Di notte, una fila di lanterne il muro di argilla bianca, brilla, e nel giardino, dopo gli alberi, come candele in fila, i vetri; ho abitato lì, una volta, per poco –  non posso più vivere dove vivevo allora: allora, mi copriva un tetto. Allora mio Signore, eri tu a coprirmi.  * Scritto sul muro di un campo di concentramento Dove sei crollato, resti.  In tutto l’universo, questo posto è l’unico posto che è davvero tuo.  I campi corrono ovunque.  Casa, mulino, pioppo – ogni  cosa lotta ed è qui, con te,  come se fosse mutilata dal nulla.  Ma sei tu che non ti arrendi. Ti abbiamo saccheggiato? Ora sei ricco. Ti abbiamo accecato? Ci fissi ancora.  Futile testimone senza più verbo.  * Quando arriverai  Sono solo. Arriverai  e sarò il solo ancora vivo. Piume in un nido vuoto. Stelle che hanno divorato il cielo.  L’orfanotrofio resiste: come in una discarica invernale rovisto tra i suoi rifiuti per trovare frammenti  della mia vera vita. Sarà una pace impareggiabile. Inaudita perfino per il mio cuore.  Intorno a me, le estatiche muraglie del silenzio.  Nuda eternità.  Ed è tua, è impotente e tua.  Un regale candore creato per te, fin dal primo giorno.  Il tempo siede, non ha  più parole, come un manichino di corde. Il desiderio  ha perso le braccia, non è che un tronco che ansima.  Quando sarai qui, avrò perso tutto. Nessuna casa – neanche  un letto. Potremo abitare  indisturbati nella pura estasi.  Non fare razzia di me – ti chiedo soltanto questo: non abbandonarmi.  Se sei debole, morirò.  È terribile svegliarsi  tra i cuscini quando non c’è altro che il rumore della strada.  * Amore, deserto Un ponte, poi una strada di cemento, calda –  il giorno svuota le tasche e mostra a tutti i suoi rari averi. Sei solo nel catatonico crepuscolo.  Panorama pari al greto di un letto: cicatrici che brillano, brilla l’oscurità. La sera si fa bosco. La luce del cieco sole mi intorpidisce. Non lascerò l’estate.  Estate. Caldo bulimico.  I galli immobili come cherubini nell’aia dai recinti rovinati.  Le loro ali non tremano.  Sete. Chiedo acqua.  Ancora oggi sento quel febbrile muovere la bocca: impotente come una pietra metto a tacere i miraggi. Gli anni passano. Ancora anni. La speranza è una tazza di latta rovesciata sulla paglia.  * Parafrasi Così è scritto: sei il cibo di tutti. Per questo, mi dono al mondo, carne viva  da sfamare. Tutti i vivi sono  famelici: sei l’amante di tutti perché tutto termina nel sangue. Mi rigiro nel letto e tremo: voglio vedere chi divora il mio cuore.  Questo letto  è una mangiatoia. Eppure, il desiderio  mi sottomette  ed è immacolato il suo splendore.  Il mio cuore arriva ed è divorato dalla mandria.  Sono carne viva che balbetta, confusa. Sono il tuo vivo cibo che non riposa mai: la tua fame consumerà la mia essenza.  Chi non appartiene a nessuno è morso da tutti. Quindi, distruggimi orribile Amore. Uccidimi. Non lasciarmi solo.  Janos Pilinszky L'articolo “Arriverai – e sarò il solo ancora vivo”. Intorno alla poesia di János Pilinszky  proviene da Pangea.
November 14, 2025 / Pangea
“Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra
Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.  Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi, sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith Douglas. Poeta.  Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti, eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char, tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario ‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia ‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.  È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza dell’arte, della poesia di fronte alla morte.  Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento: non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O. Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.  Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave; il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.  In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938 inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere, le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come incisioni sulle ossa.   *** La Bestia Meraviglia Barone dei mari, il grande pesce spada dei tropici, straziato sul famelico ponte dove i marinai lo hanno ucciso nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga occhio che fugge e stana la preda nei regni oscuri dov’era re; arma forgiata nella semi-tenebra, eppure, strappata dal cadavere di questo estroso viaggiatore, è una lente d’ingrandimento che riflette l’inusuale zampillo del sole. Con quella lama un marinaio incide sul legno il nome di una prostituta abbordata  nell’ultimo porto. È uno degli strumenti più strani custoditi dalle onde –  suppongo che la querula voce dei marinai marciti in spettri digeriti dalle ingorde maree potrebbe descriverne molti.  Che siano i vostri ospiti, che vi conducano negli abissi dove brucano i loro vascelli dimenticati – che tutto risorga nell’occhio  che arde. Per incidere quel verbo, il sole perfora la potenza del mare e urla il suo nome, omaggia quella meraviglia.  Linney Head, Galles, 1941 * Come si uccide Sotto la parabola di una palla un bambino diventato uomo fissa l’aria troppo a lungo. La palla mi è caduta in mano, canta nel pugno chiuso: Usami Usami sono un dono ideato per uccidere.  Ora nel mirino vedo il soldato che sta per morire. Sorride, si muove nei modi che solo sua madre conosce.  Fili sul suo viso: è l’ora in cui piango. La morte è il mio  più intimo familiare e muta  in polvere un uomo di carne.  Ma questa è la mia stregoneria. Sono un dannato, amo ammirare il centro dell’amore spalancarsi e un’onda di amore vagare nel vuoto.  È così facile creare un fantasma. La zanzara, leggerissima, tocca la misera ombra sulla pietra: con quanta, infinta tenerezza l’uomo e la sua ombra si incontrano. Si fondono. L’uomo è un’ombra  e le zanzare obbediscono alla morte.  * Fioriture nel deserto Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –  ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –  la conchiglia e il falco ad ogni ora uccidono uomini e gerboa, uccidono la mente: ma i corpi possono soddisfare gli affamati fiori e i cani che gridano come  uomini, di notte, la cosa più dura di tutte. Ma questa non è una novità. Ogni volta che la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente desta, guardo ai lati della porta del sonno cerco la piccola moneta necessaria  per comprare il segreto che non saprò mantenere. Vedo uomini che soffrono come alberi confondono i dettagli e l’orizzonte. Metti la moneta sulla mia lingua  canterò cose che nessuno ha mai visto.  * Vergissmeinnicht Tre settimane dopo i guerrieri erano spariti: tornammo su quel campo da incubo – il soldato era  ancora lì, disteso, incubato dal sole.  All’ombra della canna del suo fucile. Avanzavamo quel giorno e lui colpì il mio carro come  se fosse la mascella di un demone. Guarda. Qui, nella trincea dirupo la fotografia disfatta della sua donna: ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht con una calligrafia gotica perfetta.  Ci sembra felice, ormai degradato, deriso dalla sua stessa divisa così dura e superba quando il corpo è in decomposizione. Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere le mosche che si muovono oscure sulla sua pelle, la polvere sull’iride di carta, lo stomaco squarciato come una grotta. Perché qui amante e assassino sono lo stesso, hanno un solo corpo e un solo cuore. La morte che ha eletto quel soldato ha avvelenato con un male mortale l’amante.   * Stelle (Per Antoniette) Le stelle marciano ancora, in ordine sparso da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili sul campo notturno, autentica terra di nessuno. Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere Orione. Per i commissari di questa guerra da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine può annientare il loro coraggio, nessuna banda le sfiderà: soltanto la disciplina le ha mobilitate e le mantiene vive. Così  le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così  combattere il disordine è il loro compito e la vittoria persiste nelle loro mani.  Dal limite delle vecchie colline fino a quelle pianure, laggiù, si estende  il loro accampamento. Gli eterei ufficiali salutano, da tenda a tenda, i messaggeri  cometa. Guardiamo in alto, con dolore a quei compagni lontani, quelle plaghe  che non possiamo calpestare.  1939 * Canoa  Questa potrebbe essere la mia ultima estate e non voglio perdermi nulla del piacere che dona l’antica arte  dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare dal destino che aleggia sullo sfondo mentre l’erba e le case e il fiume insonne credono di poter durare per sempre e si scambiano sussurri sommessi –  impera l’afa. Quale terribile fato potrà  impedire alla mia ombra di vagabondare da queste parti il prossimo anno? Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla stessa barca con cui vai verso Iffley mentre fissi il cielo in attesa del tuono che come una campana preannuncia  pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.  Keith Douglas L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra proviene da Pangea.
November 4, 2025 / Pangea
“Il cuore è diventato audace”. Le poesie di Yehuda Amichai
Nel 1977 l’editore Harper & Row pubblica Amen, una raccolta del poeta ebreo Yehuda Amichai. All’epoca, Amichai compiva cinquantatré anni: nato a Würzburg, in Franconia, nel 1924, si era trasferito, ragazzino, al seguito della famiglia, a Gerusalemme. Hitler era da poco “Führer” del Reich. Fu insegnante, servì durante la Seconda guerra e, in forme diverse, nelle diverse guerre che hanno falciato la Palestina. Fu, infine, uno strenuo ‘operatore di pace’. La sua famiglia viveva in Germania dal Medioevo; i genitori venivano da una generazione di contadini, avevano una fattoria a Giebelstadt, in Baviera.  Amen è aperto da un’introduzione di Ted Hughes. Il grande poeta inglese – all’epoca aveva già pubblicato i libri più noti: The Hawk in the Rain, Lupercal, Crow – spiega nel suo scritto, per così dire, le ragioni di un amore. Aveva letto per la prima volta Amichai nel 1966, restandone stordito. “La sua poesia tiene conto dei Profeti, della storia biblica, del mondo soprannaturale della tradizione mistica ebraica e del ruolo simbolico di Israele, in particolare di Gerusalemme. Ha la forza interiore di chi è sopravvissuto alla diaspora e alla particolare elezione imposta alla sua gente da Hitler”. A Hughes sorprendeva che una simile carica storica, quella terribile tensione emotiva non sfamasse una poesia vertiginosa, sapienziale, magari, ma arida nei modi e nei toni. No. Amichai eseguiva quel fardello in un vagabondaggio lirico colloquiale, facile, come acqua sul viso. Amichai si era fatto carico di un’era grave di lutti e di infamie, riconducendola all’inno, a una forma di spietata pietà, al formulario delle cose di ogni giorno. C’è qualcosa del pane spezzato e della veglia sopra la culla, c’è, cioè, un’insonnia, un risoluto andare verso il deserto e il frutteto che è l’uomo, verso il corpo nudo e il corpo scatenato, nelle poesie di Amichai. Un poeta che lascia le porte e le finestre aperte, un poeta rivelato, diversamente dai poeti tumulati in un segreto, che vogliono segregare la congrega dei propri lettori in un romitorio.  Ted Hughes scrisse di un “linguaggio per immagini che opera con la complessità e la ricchezza dei geroglifici”. Scrisse che quelle raccolte in Amen erano “le poesie inglesi di Yehuda Amichai”. Il lavoro era stato compiuto insieme. Amichai aveva realizzato una versione parziale dei testi, Hughes operò “correggendo alcune stranezze, cambiando il fraseggio di alcuni versi. In sostanza, mi premeva preservare il tono e la cadenza della voce di Amichai in inglese”. Fu una specie di patto. Hughes aveva fatto tradurre alcune poesie di Amichai, alcuni anni prima, ad Assia Wevill, la donna per cui aveva lasciato Sylvia Plath, ebrea di origine russa per parte di padre.  Yehuda Amichai, in verità, si chiamava Ludwig Pfeuffer. In un’intervista rilasciata a Lawrence Joseph per la “Paris Review” (Issue 122, Spring 1992), il poeta racconta tratti della sua infanzia in Germania. “A casa nostra si respirava molta cultura. Soprattutto, musica e poesia: Goethe, Schiller, Heine su tutti. Mia madre e mia nonna mi leggevano brani di letteratura tedesca. Andavamo regolarmente in sinagoga, interpretavo la Bibbia. Nei paesaggi tedeschi, per me molto belli – fiumi, montagne, foreste, laghi – trasfiguravo il panorama biblico. La valle soleggiata dove siamo capitati in gita scolastica, nella mia immaginazione era la valle in cui Davide e Golia si erano sfidati. Certo, l’antisemitismo c’era, ben prima di Hitler. Ci insultavano. Ci lanciavano pietre. Ci chiamavano ‘Isaac’, come chiamavano ‘Ali’ o ‘Mohammed’ i musulmani, gridando, ‘Andatevene in Palestina’. Eppure, il paesaggio tedesco per me restava un idillio”.  Le poesie di Amichai ebbero un successo clamoroso: tradotte in diverse lingue – compreso il cinese, il giapponese e il nepalese – attecchirono con particolare fortuna nel mondo inglese. Dagli anni Settanta, Amichai fu ‘poet in residence’ a Berkeley e alla New York University; durante il discorso di accettazione del Nobel per la pace, Yitzhak Rabin citò una sua poesia. In Italia, le sue Poesie sono state tradotte da Ariel Rathaus per Crocetti, e costantemente ristampate, tra il 1993 e il 2021.  Amichai è morto il 22 settembre del 2000. Nel ‘coccodrillo’ firmato per il “Guardian”, Lawrence Joffe ricorda che la popolarità di Amichai era scandita dalla sua scontrosa ritrosia: “Ha resistito per tutta la vita all’appellativo di ‘poeta nazionale d’Israele’, benché i suoi modi di dire si siano insinuati nel linguaggio di ogni giorno, le madri in lutto recitino i suoi versi sulle tombe dei figli caduti in guerra e diverse canzoni rock abbiano preso spunto dai suoi libri. Eppure, queste cose non lo intaccavano: restava coi piedi per terra, preferiva la Gerusalemme degli antichi vicoli alla moderna Tel Aviv, era un sionista critico, lo ripugnavano i trionfalismi, voleva una pace fatta di normalità e affetto per il prossimo, affermò l’autenticità dell’individuo contro il rigore dell’ortodossia, disse che ‘L’unico compito di un intellettuale è concedere patria al dubbio’”. Lo dissero Irreverent poetic conscience of Israel. Ha avuto due mogli e tre figli.  Da ragazzo, restò folgorato dai versi di Auden e di Eliot. Disse di lenzuola e deserti, riferì l’amore carnale e i sussurri dei morti, i giochi dei bimbi e la vergogna della guerra; disse di Dio e del buco della camicia – che forse sono la stessa cosa, perché tutto è nel tutto, e tutto ansima, e tutto soffre e di tutto devi prenderti cura.  *** Da Canti della patria I Il nostro bambino fu svezzato nei primi giorni di guerra. Corsi a fissare l’orrore del deserto. Rientrai che era notte, per vederlo dormire. Già dimentico dei capezzoli della madre, li dimenticherà fino alla prossima guerra. Così, così piccolo,  chiuse le speranze, si aprì alla vastità del compianto – che non si chiude mai.  * 2 La guerra scoppiò in autunno tra i vuoti del confine dove sono dolci i grappoli e le arance.  Il cielo è blu, come le vene tormentate sulle cosce di una donna.  Per chi lo fissa, è uno specchio il deserto.  I maschi, tristi, portano il ricordo delle loro famiglie in sacchi, sacchetti e cupi zaini nelle borse e nell’iride che scema.  Sangue congelato nelle vene. Non si versa puoi solo farlo a pezzi.  * 3 Il sole di ottobre ci scalda il viso. Un soldato riempie secchi di sabbia: è soffice, un tempo era il suo gioco.  Il sole di ottobre scalda i nostri morti. Il dolore è una lastra di legno. Le lacrime sono chiodi.  * 4 Non ho nulla da dire sulla guerra nulla aggiungo. Mi vergogno. Tutta la conoscenza che ho acquisito in una vita è inutile, sono un deserto che rinuncia all’acqua.  Sto dimenticando nomi che non avrei mai pensato di dimenticare.  A causa della guerra ridico ancora per un estremo commiato dalla dolcezza: Il sole gira intorno alla terra. Sì.  La terra è come una zattera alla deriva. Sì.  Dio è in Paradiso. Sì.  * 5 Recluso in me. Come  un acquitrino, stretto, putrido. Dormo ibernato nella guerra.  Mi hanno fatto colonnello dei morti sul Monte degli Ulivi. Anche quando vinci, sempre, hai perso – sei perduto.  * 8 L’uomo incendiato che eredità ci lascia? Che ordine ci impone l’acqua? Non fare rumore, che sia nel candore resta silente al suo fianco lascia che scorra.  * 33 Canto per la patria: La conoscenza delle sue acque comincia con le lacrime. A volte amo l’acqua, a volte la pietra. In questi giorni, preferisco le pietre. Potrei cambiare.  * 36 Ogni notte Dio mostra la sua splendida mercanzia davanti al negozio: sacri carri, tavole della legge, pietre preziose, croci e campane poi li ripone in scatole buie e abbassa le saracinesche: “Anche oggi nessun profeta è venuto a comprare qualcosa”.  * Canto d’amore È iniziata così: Il cuore è diventato audace e felice e facile, come  quando i lacci degli stivali si allentano  e devi inginocchiarti. A questo sono succeduti altri giorni. Ora sono come il cavallo di Troia pieno di terribili amori: ogni notte scoppiano, si scatenano ma all’alba rincasano nel mio oscuro ventre.  * Salmo  Quando un uomo viene abbandonato dal suo amore, uno spazio vuoto, circolare si espande dentro di lui come una grotta capace di ospitare caute, meravigliose stalagmiti. Come lo spazio vuoto della storia, aperto al Senso allo Scopo alle lacrime.  * Canto d’amore Fiacco, pesante, con una donna al balcone “Resta con me”. Ma le strade muoiono come gli uomini: in silenzio o all’improvviso si spezzano. Resta con me. Voglio essere te. In questo paese incendio le parole non sono che ombre.  * Canto d’amore Le persone si usano per curare il loro dolore. Si mettono sulle ferite esistenziali sugli occhi sulla vagina sulla bocca sulla mano aperta. Si stringono, l’un l’altro, senza lasciarsi più.  * Piccolo canto della quiete Se vagabondare è più scaltro di morire non abbiamo nulla da temere.  Hai due mani e due piedi non sei solo. Bellissimi corpi avvolti nell’amore con la scaltrezza e la sapienza dell’asilo nido. Un uomo passa attraverso il muro e il muro resta intatto e lui resta intatto.  Sei un uomo simile o lo diventerai.  * Ho molti morti tumulati nel vento Mia madre in lutto, ma sono ancora vivo. Sono come lo spazio che lotta contro il tempo. Una volta il colore verde era la felicità del tuo viso alla finestra.  Solo nei sogni amo ancora con quella forza. * L’anima  Infuria un’epica battaglia perché la bocca non si indurisca e le mascelle non si mutino nelle potenti porte di una cassaforte di ferro, perché questa mia  vita non venga detta pre-morte. Come un foglio ormeggiato a una staccionata finché soffia il vento, così l’anima si aggrappa al mio corpo.  Cadrà quando il vento smetterà di soffiare. * Perduto nella grazia Perduto nella grazia come un piede dentro scarpe troppo grandi.  Il piccolo buco nella mia camicia è un occhio in più attraverso cui guardare. Cosa porti con te per dormire? Il sonno e un cuscino rosa, abbracciati. Le ruote della biciletta di mio figlio, il più grande, girano tutta la notte. Non dormo.  Il pesce di suo fratello è giallo e di plastica: sorride sempre.  La solitudine ha tante finestre e una porta. Ha tubature fuori e dentro, come ogni casa. Ciò che ho davanti a me è grande e silenzioso, come lo spazio, immobile e vuoto, di un cimitero.  * Le candele si sono spente e ora i miei occhi non hanno più ragione di inumidirsi.  L’eternità mi azzanna come un cane ed è duro il suo abbaiare. Per allentare la pressione alleno il sangue a digerire e a fornicare così si disperderà tra l’intestino e il pene senza più recare dolore al cranio.  Nei giorni della mia infanzia e nelle notti d’amore ho nascosto miniere di verità. Ma sono cresciuto  e ho bruciato le mappe.  Ecco perché vivo in bilico tra menzogne precarie e non fuggo. Ancora una volta, le immagini si moltiplicano e le parole sono rare. Come un libro per bambini. Così il cerchio si chiude.  Yehuda Amichai  L'articolo “Il cuore è diventato audace”. Le poesie di Yehuda Amichai proviene da Pangea.
October 23, 2025 / Pangea
Devoti alla Lince. Indagine sull’animale-totem di Ezra Pound
Ezra Pound nomina la lince nel secondo Cantos:  > “E dal nulla, un respiro, >             fiato caldo alle mie caviglie. > Come ombre rispecchiate, le bestie, >             una coda pelosa nel nulla. > Ronfiar di lince, odoravano di brughiera le bestie… > > Sicuro fra le mie linci, > pascendo d’uva i miei leopardi”  > > (cito dalla versione, nobile, a tratti ‘obliqua’, di Mary de Rachewiltz)  All’arcana bestia, ‘Ez’ dedica uno dei Pisan Cantos, il LXXIX. La lince, in questo caso, ricorre di continuo, lasciando chiare orme grafiche, ornamenti d’artiglio: > “O Lince, mio amore, mia amata lince > Vigila sul mio otre di vino, > Proteggi il mio lambicco fra i monti > Finché Spirito entri nel whisky” La parte finale del “canto” si impenna in rito, è scandito da varie invocazioni alla lince: > “O Lince, proteggi il mio frutteto > Astieniti dal solco di Demetra”; > “Qui sono linci                       linci > S’ode un suono nella foresta >             di pardi o di bassaridi > di crotali         o fruscio di foglie? > >             Citera, fra queste linci > i cespugli di quercia sbocceranno?” > “O lince, fa che il mio mosto fermenti > Che s’illimpidisca” > “O lince vigila sul vigneto > Quando il chicco s’ingrossa sotto i pampini…” La lince non farà più comparsa nei Cantos, svanita in misterica reticenza, elusiva quanto Eleusi. Eppure, il suo ruolo nei “Pisani”, che è poi, per circostanze storiche – Pound in arresto, presso il Disciplinary Training Center, a Metato, Pisa, sotto tiro continuo di morte –, la porzione più cruda e risoluta dei Cantos, “un testamento, redatto talora in terza persona, un addio agli amici, e un’autobiografia degli affetti”, è centrale, è a zenit. Il Commento di Mary de Rachewiltz all’edizione mondadoriana dei Cantos – da cui estraggo il virgolettato – non offre chiarimenti su questa Lynx. Nell’edizione dei Canti postumi – Mondadori, 2002; poi Carcanet, 2015 –, tuttavia, Massimo Bacigalupo allude alla lince come all’“animale-totem di Pound”. Il Companion to the Cantos of Ezra Pound allestito da Carroll F. Terrell per la University of California Press (1984) non è risolutivo. Si dice che “La lince è uno dei felini sacri a Dioniso. Perpetuo refrain nel canto, la lince non è soltanto il simbolo per appellarsi al dio del sesso e del vino, ma anche l’emblema di una donna in particolare. Gli studiosi dibattono per capire se Pound si riferisca, qui, a Dorothy, a Olga Rudge, o Bride Scratton o a qualche altra amate”.  A Dioniso, è vero, sono associati i felini: non tanto la lince – felino effimero, incerto perfino nella definizione, inabile al puro simbolo, per lo più minimizzato a ‘gatto selvatico’ – quanto la pantera, la tigre, il leone. La lince rifugge alla classificazione dei bestiari antichi, a cui mal si adatta. Nei “Pisani”, per altro, Pound gioca a sobillare le associazioni; il canto si chiude con la figura del puma, “sacro a Hermes, Cimbica serva del Sole”. Il puma – Cimbica nella lingua indigena del Sudamerica – non figura, per ovvia sfasatura geografica, tra le bestie sacre a Hermes (a cui sono ascritti, piuttosto, la lepre e il falco, la tartaruga e il gallo): è egli stesso bestia ermetica. “Significa, come altre figure feline, la manifestazione del divino nella natura” (Terrell). Il puma: divora e partorisce il sole – Pound, poeta-profeta, ci lascia sulla soglia dell’enigma; non scioglie – scuce. A noi resta il flottare tra fili filatteri, l’angustia dell’ago, mangusta di metallo.  Torniamo a cavalcare la lince.  Il primo riferimento di Pound sono Le metamorfosi di Ovidio. Nel quinto libro il poeta latino dice di Linco, re degli Sciti, che attenta alla vita di Triptòlemo, devoto a Cerere, che “gli affidò dei semi ordinandogli di spargerli/ parte in terra incolta e parte in quella dopo anni ricoltivata”. Linco, “preso dall’invidia”, tenta di uccidere Triptòlemo nel sonno, “quando in lince lo mutò Cerere”.  Il mito mette in contrasto diversi aspetti ‘culturali’ che potevano attrarre Pound. Intanto, gli Sciti, rappresentati da “quel barbaro” di Linco, in contrasto con la cultura greca classica, raffigurata da Triptòlemo, cittadino della “famosa Atene”. Gli Sciti erano famosi per essere audaci guerrieri a cavallo; i loro gioielli raffigurano lupi in assalto, serpi intrecciate, leoni delle nevi e cervi dal palco immane. Dalle regioni connesse alla Scizia proviene Medea, la donna che porta il caos dov’è l’ordine. In un passo straordinario tratto dalle Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo, il re degli Sciti – o meglio, il loro rappresentante, dacché gli Sciti sono il popolo supremamente libero, all’assalto – affronta il Macedone ricordandogli che “anche il leone è stato qualche volta il pasto di piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che non possa essere messo in pericolo anche dal debole…”, che “non raggiungerai mai gli Sciti [perché] la nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta il bottino di tanti popoli”. All’ordine – all’armonia – imposta dalla civiltà greca, gli Sciti oppongono un altro stile. Alla città – orgoglio della mente organizzatrice dell’uomo – preferiscono l’accampamento, la tenda docile al vento, senza fondamenta. Alla stanzialità preferiscono il nomadismo; alla spada e all’aratro (e al loro confratello, la nave) contrappongono l’arco e il cavallo; alla religione degli dèi olimpici, gli dèi della natura, auscultati dallo sciamano; al poema redatto dai poeti e alla filosofia oppongono i canti attorno al fuoco e i motti ancestrali, i ‘proverbi’; al tempio sostituiscono il bosco e la prateria; all’umano (l’uomo al centro del mondo) oppongono l’animale, un rapporto simbiotico con la bestia; al commercio (che inaugura l’era del profitto) il baratto; inadatti alla legge esigono la certezza del patto.  Da qui si giunge all’opposizione radicale, radicata in una visione del mondo. Alla civiltà fondata sull’agricoltura e i suoi culti (Cerere/Demetra) gli Sciti contrappongono la civiltà della caccia e della razzia. Alla civiltà del pane preferiscono la civiltà del vino (Dioniso). Al feroce irenismo, l’ira e perfino l’invidia (termine a cui era associata, in luce del mito, la lince), che è poi l’invadere, che è poi l’evadere per ambizione. Alla civiltà ‘coniugale’ preferiscono quella dell’assalto all’arma bianca: la Baccante meglio che la moglie. È sotto la coltre di Dioniso – il cui culto è stato esportato a Oriente – che si muove la Scizia.    Faccio un passo di lato – anzi, un affondo.  Riguardo al lignaggio della lince Pound scrive: “Manitou, dio delle linci, ricorda il nostro grano”. Il meccanismo è analogo all’idea del puma sacro a Hermes: coincidenza di opposti, epica del sobillare le culture. Manitou, infatti, è il “Grande spirito” dei nativi americani, in particolare – leggo dal solito Companion – “è il nome con cui gli indiani Algonchini identificano il potere che permea tutte le cose”.  Pound, in sacro sincretismo, recluso nella gabbia pisana – dunque: privo di biblioteca, nella piena del morire, impollinato da memorie dispari –, autentica angelica bestia, fonde il mito greco (trapiantato nella cultura latina) con quello dei nativi. Nel bestiario degli Algonchini – gli Ojibwe, in particolare, che abitavano nella regione dei Grandi Laghi – spicca la figura di The Great Lynx, “Mishipeshu”. Questa lince è una belva chimerica, “in qualche modo simile a un drago, è un felino con le corna, simbolo del suo potere. Ha zampe palmate che gli rendono facile il nuoto, dorso e coda ricoperti di squame. Mishipeshu vive nelle profondità dei laghi. Ha forma felina, è anfibio, ma viene descritto come un rettile. È lui la causa di inondazioni, mulinelli, e dell’improvvisa rottura del ghiaccio in inverno. Se implorato, garantisce successo nella caccia, cibo in abbondanza” (Serge Lemaître, “Mishipeshu”, The Canadian Encyclopedia). Sul genio della lince, il più sfuggente dei simboli, nella mitologia amerinda Claude Lévi-Strauss ha scritto un libro, Storia della Lince.  La marziale sapienza degli Algonchini ricorda quella degli Sciti: destrezza nell’ammansire la bestia, genio della caccia; quei corpi, poi, in armature leggere, stupendamente pronti a un destino disertore.  Più che raffigurare una qualche felide amata, la lince è figura del poeta. La lince è l’animale che – a differenza della pantera, del leone, della tigre – non si inscatola nei bestiari o nelle cronache esoteriche, non si riassume in una attitudine o in un aggettivo. La lince è la bestia imprendibile e imparagonabile per antonomasia; c’è, non si fa vedere e tutto osserva; lascia lievi tracce sulla neve, predilige la solitudine. Secondo un mito dei nativi, la lince è all’origine della nebbia: è l’assoluto invisibile. Come il poeta, è l’animale costantemente in estinzione – che sfugge perfino ai proclami di chi vorrebbe proteggerla. È la bestia che in cattività muore. Emblema del ‘mostruoso’ – cioè, del meraviglioso – che non accetta alcuna norma imposta alla bellezza. È il miracolo.  Tra i tanti poeti devoti alla lince, va citata Emily Dickinson, bianco felino di Amherst. In una lettera a Catherine Scott Turner, inviata nell’estate del 1860, insegna che la lince ha il talento dell’astuta prudenza: > “Una scusa molto ben congegnata, cara, ma con una Lince come me [a Lynx like > me] completamente inefficace – Trovare è lento, occasioni per perdere così > frequenti in un mondo come questo, perciò io trattengo con estrema attenzione, > una prudenza così astuta può sembrare non necessaria, ma è l’abbondanza, mia > cara, a motivare coloro che hanno conosciuto la povertà, e il Salvatore ci > dice, Kate, che i poveri sono sempre con noi”.  > > (traduzione di Giuseppe Ierolli) Molti anni dopo, nel 1981, Ted Hughes – formidabile costruttore di bestiari lirici – scriverà una poesia sulla Lynx: > “Le zampe silenti della foresta, > delle nuvole, delle montagne > hanno il loro meritato riposo > sotto l’orecchio di Lince.  > Dormono del suo sonno – come  > in un profondo – profondo – lago. > > Non disturbare la belva > o le nuvole apriranno gli occhi, > la foresta, in silenzio, > sposterà tutti i boschi > e le montagne, arse di nebbia, > svaniranno tra le loro pietre”.  Esiste atto di devozione più grande? La lince – per sempre legata ai suoi arcani: il lago e la nebbia – dorme: i boschi, i cieli, le pietre sono il suo sogno. Al risveglio, tutto svanirà. Allo stesso modo, anche noi siamo il frutto del sogno del poeta, il felide felice.  *In copertina: Ernesto Ornati ritrae Ezra Pound, Rapallo, 1967 L'articolo Devoti alla Lince. Indagine sull’animale-totem di Ezra Pound proviene da Pangea.
October 2, 2025 / Pangea
Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney
Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo, mausoleo.  La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla “Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū, la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone, l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie. Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo, sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.  L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il fuoco, di erigere torri o di creare teatri.  Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997, Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag, un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai “canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’: è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica, ‘significa’. Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla nostra vita”. In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere, carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto… Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella – raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School Bag esce vent’anni fa.  Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly: > “Perché la civiltà non sprofondi, > Perduta la grande battaglia, > Acquieta il cane, lega il puledro > A un palo lontano; > Il nostro grande Cesare è nella tenda > Dove le carte sono spiegate, > Gli occhi fissi nel vuoto, > Una mano sotto il mento. > Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume > La sua mente muove sul silenzio”. L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli, continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così: > “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo: > la tua caccia mirava alla grande belva > le tue guerre non hanno portato nulla > gli amori si sono rivelati fasulli: > è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora. > Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)” Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth, Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio, nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant; l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani, dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling, Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi: > “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti > e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani  > e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano > perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.  Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.  C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata – Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/ gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza per tre bambini”.  Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di vita.  *** Imparare le poesie a memoria Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione. Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.  Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente, ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli Spumeggianti come Birra. Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda, esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è collegata.  Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine. È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a memoria per professione.  Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’ accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo costruiti – svanirà da sé. Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro un maniero di immagini.  Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza immaginare”.  In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune, distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non “illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.  Ted Hughes *In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus Heaney proviene da Pangea.
September 29, 2025 / Pangea
Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa. Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”. Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso della parola cairn.  Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò, intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia e per gli studenti.  > “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie > resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia > del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di > interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale > attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non > l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il > cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente > entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.  È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della generosità e della luce”.  In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes – non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath. Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto, autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow, Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.  Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”. Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del 1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà, fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto a Praga nell’estate del 1998.  Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché “mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il cervello che sta sotto il cranio”.  Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971. Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C. Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021) anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.  Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.  *** Discorso sull’angelo canide Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.  Forse pensava a una cagna o ricordava un osso –  coltelli negli occhi di ruote malvage  che afferrano spaccano schiacciano –  ha la mascella rotta striscia, guaisce – no!  cade, mugola, geme resta immobile.  La gente, intorno, lo fissa: un angelo cane peloso e nero con ali madide di fango e quell’infinito dolore che si moltiplica dalla sua aureola sopra le pozzanghere.  L’oscurità sfrega le mani sul corpo e risuona in colonnati verso il cielo. Lo dragano via.  È solo una pezza uno straccio per il cimitero e nulla più. L’angelo delle tegole annusa i camini e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.  * Breve riflessione sull’identità Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso. Né i fiumi né le capre né i profeti. Se l’oggi è uguale a domani non tutte le cose restano uguali. Perché quando una cosa cambia, cambiano anche le altre. Le cose non sono sole: dipendono in modo claustrale da altre cose, per lo meno in parte. Dunque,  sai, non sai mai… Anche i profeti appartengono a questo sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come  le capre e il latte. Come il sangue. Per questo, è piuttosto difficile riconoscere le proprie parole, il proprio sangue, il proprio profeta e la propria capra.  Molto difficile. Ma ancora e ancora ci tentiamo, in modo da non ricavare capre dai profeti o sangue dal latte.  Pretendiamo che le cose abbiano un’identità mentre ci trasformiamo nel nostro doppio e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.  * Il giardino dei vecchi È scaltra l’edera, cresce ovunque e dell’erba  incolta nessuno fa più caso. Sotto gli alberi l’invasione di frutti gotici. Crollò l’oscurità, mitologica e senza denti.  Ma Minotauro l’ha sconfitta grazie a un buco nella recinzione. Da qualche parte, Icari impigliati nella ragnatela.  Durante una luminosa mattina i cespugli rivelarono lo spudorato, grigio osso frontale dei fatti. Boccheggiava, senza più parole.  * Breve riflessione sull’accuratezza I pesci                   sanno sempre con precisione dove e quando muoversi, all’unisono                   gli uccelli hanno un innato senso del tempo e dell’orientamento. L’umanità                    è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca                   scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio. Un soldato                   doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.                   Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così: L’orologio                   della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle diciassette                   e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il cannone.                   Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle diciotto in punto sparo.  Ora era chiara                   la ragione di quella accuratezza. Non restava                   che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato l’orologiaio. L’orologiaio                   disse che quello era uno degli strumenti più precisi in assoluto.                   Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno alle sei in punto.                Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna esattamente le sei. Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.  * Incontro con Ezra Pound Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.  Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound. Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida, di pietra. Impossibile liberarsi.  Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della pietra.  Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.  È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.  Poi ci separarono.  Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.  Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.  Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.  * Il giudizio finale Una lavatrice automatica è accesa – lava  strizza, asciuga.  Come un angelo che mastica chewing gum. Come il granito che perfora il quarzo. Qualcuno maledice il mare ma non lo senti. Piume d’oca vagano in cucina.  Le tue piccole dita scompaiono sotto la porta.  Mosche: piccole Icaro che  tappano le falle del labirinto. Hai un bell’aspetto, figlio mio dici mentre ti coglie l’infarto.  La lavatrice lavora.  Vi entrano banchetti luculliani  c’è anche la granola.  E i riflessi. Cadono lettere bene ordinate. E balene  che nuotano e denti innumerevoli.  Entrano i ricordi, escono  i codici della strada. Bianco. La lavatrice lavora.  Chi pagherà la banda?  Dov’è il ballo dei pompieri? Dove suonerà il flauto stretto dal gelo? Come superare l’ombra di un libro? Bianco di fuliggine dilavata.  La lavatrice gira e tremano le mani di Discobolo. L’eternità è misurata con precisione al secondo. Sì.  In un panorama di giochi bisogna giocare fino alla fine.  In un panorama di fango la via d’uscita è la lavatrice.  Quando è il caos le vie a senso unico sono un sollievo.  Quando sei in via d’estinzione la precisione vale più di un dio.  In questo rumore bianco esco da una porta che mi porta  in questa stessa stanza.  * Una favola Si costruì una casa                   le fondamenta                   di pietra                   i muri                   il tetto sopra la testa                   il camino e il fumo                   la vista dalla finestra. Si fece un giardino                   il recinto                   il timo                   il lombrico                   la rugiada, a sera. Si ritagliò un pezzo di cielo.  E avvolse il giardino nel cielo e la casa nel giardino e il tutto in un fazzoletto poi se ne andò solitario come una volpe artica varcando il freddo e quella infinita pioggia per il mondo.  Miroslav Holub L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub proviene da Pangea.
September 16, 2025 / Pangea