Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.
Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord
Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo
ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della
Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si
impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di
poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto
nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione
solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il
capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi,
sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di
Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith
Douglas. Poeta.
Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti,
eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio
Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char,
tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario
‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda
guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la
poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità
eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia
degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei
poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte
un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia
‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.
È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere
narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando
non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo
inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First
World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra
Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e
Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si
veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita
da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra
si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un
disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza
dell’arte, della poesia di fronte alla morte.
Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto
ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la
complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel
vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza
esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al
diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital
mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto
a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie
sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande
argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire
Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento:
non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El
Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O.
Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di
quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato
da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.
Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio
di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in
sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave;
il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.
In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo
carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di
guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la
letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938
inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo
era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono
stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno
diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted
Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile
a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore
unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere,
le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come
incisioni sulle ossa.
***
La Bestia Meraviglia
Barone dei mari, il grande pesce
spada dei tropici, straziato sul famelico
ponte dove i marinai lo hanno ucciso
nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga
occhio che fugge e stana la preda
nei regni oscuri dov’era re; arma
forgiata nella semi-tenebra, eppure,
strappata dal cadavere di questo estroso
viaggiatore, è una lente d’ingrandimento
che riflette l’inusuale zampillo del sole.
Con quella lama un marinaio incide sul legno
il nome di una prostituta abbordata
nell’ultimo porto. È uno degli strumenti
più strani custoditi dalle onde –
suppongo che la querula voce
dei marinai marciti in spettri
digeriti dalle ingorde maree
potrebbe descriverne molti.
Che siano i vostri ospiti, che vi conducano
negli abissi dove brucano i loro vascelli
dimenticati – che tutto risorga nell’occhio
che arde. Per incidere quel verbo, il sole
perfora la potenza del mare e urla
il suo nome, omaggia quella meraviglia.
Linney Head, Galles, 1941
*
Come si uccide
Sotto la parabola di una palla
un bambino diventato uomo
fissa l’aria troppo a lungo.
La palla mi è caduta in mano, canta
nel pugno chiuso: Usami Usami
sono un dono ideato per uccidere.
Ora nel mirino vedo
il soldato che sta per morire.
Sorride, si muove nei modi
che solo sua madre conosce.
Fili sul suo viso: è l’ora
in cui piango. La morte è il mio
più intimo familiare e muta
in polvere un uomo di carne.
Ma questa è la mia stregoneria.
Sono un dannato, amo ammirare
il centro dell’amore spalancarsi
e un’onda di amore vagare nel vuoto.
È così facile creare un fantasma.
La zanzara, leggerissima, tocca
la misera ombra sulla pietra:
con quanta, infinta tenerezza
l’uomo e la sua ombra si incontrano.
Si fondono. L’uomo è un’ombra
e le zanzare obbediscono alla morte.
*
Fioriture nel deserto
Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –
ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –
la conchiglia e il falco ad ogni ora
uccidono uomini e gerboa, uccidono
la mente: ma i corpi possono soddisfare
gli affamati fiori e i cani che gridano come
uomini, di notte, la cosa più dura di tutte.
Ma questa non è una novità. Ogni volta che
la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente
desta, guardo ai lati della porta del sonno
cerco la piccola moneta necessaria
per comprare il segreto che non saprò mantenere.
Vedo uomini che soffrono come alberi
confondono i dettagli e l’orizzonte.
Metti la moneta sulla mia lingua
canterò cose che nessuno ha mai visto.
*
Vergissmeinnicht
Tre settimane dopo i guerrieri
erano spariti: tornammo su quel
campo da incubo – il soldato era
ancora lì, disteso, incubato dal sole.
All’ombra della canna del suo fucile.
Avanzavamo quel giorno
e lui colpì il mio carro come
se fosse la mascella di un demone.
Guarda. Qui, nella trincea dirupo
la fotografia disfatta della sua donna:
ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht
con una calligrafia gotica perfetta.
Ci sembra felice, ormai degradato,
deriso dalla sua stessa divisa
così dura e superba quando
il corpo è in decomposizione.
Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere
le mosche che si muovono oscure
sulla sua pelle, la polvere sull’iride
di carta, lo stomaco squarciato come una grotta.
Perché qui amante e assassino sono
lo stesso, hanno un solo corpo e un solo
cuore. La morte che ha eletto quel soldato
ha avvelenato con un male mortale l’amante.
*
Stelle
(Per Antoniette)
Le stelle marciano ancora, in ordine sparso
da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili
sul campo notturno, autentica terra di nessuno.
Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere
Orione. Per i commissari di questa guerra
da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine
può annientare il loro coraggio, nessuna banda
le sfiderà: soltanto la disciplina le ha
mobilitate e le mantiene vive. Così
le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così
combattere il disordine è il loro compito
e la vittoria persiste nelle loro mani.
Dal limite delle vecchie colline fino
a quelle pianure, laggiù, si estende
il loro accampamento. Gli eterei ufficiali
salutano, da tenda a tenda, i messaggeri
cometa. Guardiamo in alto, con dolore
a quei compagni lontani, quelle plaghe
che non possiamo calpestare.
1939
*
Canoa
Questa potrebbe essere la mia ultima
estate e non voglio perdermi nulla
del piacere che dona l’antica arte
dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare
dal destino che aleggia sullo sfondo
mentre l’erba e le case e il fiume insonne
credono di poter durare per sempre
e si scambiano sussurri sommessi –
impera l’afa. Quale terribile fato potrà
impedire alla mia ombra di vagabondare
da queste parti il prossimo anno?
Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla
stessa barca con cui vai verso Iffley
mentre fissi il cielo in attesa del tuono
che come una campana preannuncia
pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.
Keith Douglas
L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in
guerra proviene da Pangea.
Tag - Ted Hughes
Nel 1977 l’editore Harper & Row pubblica Amen, una raccolta del poeta
ebreo Yehuda Amichai. All’epoca, Amichai compiva cinquantatré anni: nato a
Würzburg, in Franconia, nel 1924, si era trasferito, ragazzino, al seguito della
famiglia, a Gerusalemme. Hitler era da poco “Führer” del Reich. Fu insegnante,
servì durante la Seconda guerra e, in forme diverse, nelle diverse guerre che
hanno falciato la Palestina. Fu, infine, uno strenuo ‘operatore di pace’. La sua
famiglia viveva in Germania dal Medioevo; i genitori venivano da una generazione
di contadini, avevano una fattoria a Giebelstadt, in Baviera.
Amen è aperto da un’introduzione di Ted Hughes. Il grande poeta inglese –
all’epoca aveva già pubblicato i libri più noti: The Hawk in the Rain, Lupercal,
Crow – spiega nel suo scritto, per così dire, le ragioni di un amore. Aveva
letto per la prima volta Amichai nel 1966, restandone stordito. “La sua poesia
tiene conto dei Profeti, della storia biblica, del mondo soprannaturale della
tradizione mistica ebraica e del ruolo simbolico di Israele, in particolare di
Gerusalemme. Ha la forza interiore di chi è sopravvissuto alla diaspora e alla
particolare elezione imposta alla sua gente da Hitler”. A Hughes sorprendeva che
una simile carica storica, quella terribile tensione emotiva non sfamasse una
poesia vertiginosa, sapienziale, magari, ma arida nei modi e nei toni. No.
Amichai eseguiva quel fardello in un vagabondaggio lirico colloquiale, facile,
come acqua sul viso. Amichai si era fatto carico di un’era grave di lutti e di
infamie, riconducendola all’inno, a una forma di spietata pietà, al formulario
delle cose di ogni giorno. C’è qualcosa del pane spezzato e della veglia sopra
la culla, c’è, cioè, un’insonnia, un risoluto andare verso il deserto e il
frutteto che è l’uomo, verso il corpo nudo e il corpo scatenato, nelle poesie di
Amichai. Un poeta che lascia le porte e le finestre aperte, un poeta rivelato,
diversamente dai poeti tumulati in un segreto, che vogliono segregare la
congrega dei propri lettori in un romitorio.
Ted Hughes scrisse di un “linguaggio per immagini che opera con la complessità e
la ricchezza dei geroglifici”. Scrisse che quelle raccolte in Amen erano “le
poesie inglesi di Yehuda Amichai”. Il lavoro era stato compiuto insieme. Amichai
aveva realizzato una versione parziale dei testi, Hughes operò “correggendo
alcune stranezze, cambiando il fraseggio di alcuni versi. In sostanza, mi
premeva preservare il tono e la cadenza della voce di Amichai in inglese”. Fu
una specie di patto. Hughes aveva fatto tradurre alcune poesie di Amichai,
alcuni anni prima, ad Assia Wevill, la donna per cui aveva lasciato Sylvia
Plath, ebrea di origine russa per parte di padre.
Yehuda Amichai, in verità, si chiamava Ludwig Pfeuffer. In un’intervista
rilasciata a Lawrence Joseph per la “Paris Review” (Issue 122, Spring 1992), il
poeta racconta tratti della sua infanzia in Germania. “A casa nostra si
respirava molta cultura. Soprattutto, musica e poesia: Goethe, Schiller, Heine
su tutti. Mia madre e mia nonna mi leggevano brani di letteratura tedesca.
Andavamo regolarmente in sinagoga, interpretavo la Bibbia. Nei paesaggi
tedeschi, per me molto belli – fiumi, montagne, foreste, laghi – trasfiguravo il
panorama biblico. La valle soleggiata dove siamo capitati in gita scolastica,
nella mia immaginazione era la valle in cui Davide e Golia si erano sfidati.
Certo, l’antisemitismo c’era, ben prima di Hitler. Ci insultavano. Ci lanciavano
pietre. Ci chiamavano ‘Isaac’, come chiamavano ‘Ali’ o ‘Mohammed’ i musulmani,
gridando, ‘Andatevene in Palestina’. Eppure, il paesaggio tedesco per me restava
un idillio”.
Le poesie di Amichai ebbero un successo clamoroso: tradotte in diverse lingue –
compreso il cinese, il giapponese e il nepalese – attecchirono con particolare
fortuna nel mondo inglese. Dagli anni Settanta, Amichai fu ‘poet in residence’ a
Berkeley e alla New York University; durante il discorso di accettazione del
Nobel per la pace, Yitzhak Rabin citò una sua poesia. In Italia, le
sue Poesie sono state tradotte da Ariel Rathaus per Crocetti, e costantemente
ristampate, tra il 1993 e il 2021.
Amichai è morto il 22 settembre del 2000. Nel ‘coccodrillo’ firmato per il
“Guardian”, Lawrence Joffe ricorda che la popolarità di Amichai era scandita
dalla sua scontrosa ritrosia: “Ha resistito per tutta la vita all’appellativo di
‘poeta nazionale d’Israele’, benché i suoi modi di dire si siano insinuati nel
linguaggio di ogni giorno, le madri in lutto recitino i suoi versi sulle tombe
dei figli caduti in guerra e diverse canzoni rock abbiano preso spunto dai suoi
libri. Eppure, queste cose non lo intaccavano: restava coi piedi per terra,
preferiva la Gerusalemme degli antichi vicoli alla moderna Tel Aviv, era un
sionista critico, lo ripugnavano i trionfalismi, voleva una pace fatta di
normalità e affetto per il prossimo, affermò l’autenticità dell’individuo contro
il rigore dell’ortodossia, disse che ‘L’unico compito di un intellettuale è
concedere patria al dubbio’”. Lo dissero Irreverent poetic conscience of Israel.
Ha avuto due mogli e tre figli.
Da ragazzo, restò folgorato dai versi di Auden e di Eliot. Disse di lenzuola e
deserti, riferì l’amore carnale e i sussurri dei morti, i giochi dei bimbi e la
vergogna della guerra; disse di Dio e del buco della camicia – che forse sono la
stessa cosa, perché tutto è nel tutto, e tutto ansima, e tutto soffre e di tutto
devi prenderti cura.
***
Da Canti della patria
I
Il nostro bambino fu svezzato nei primi giorni
di guerra. Corsi a fissare
l’orrore del deserto.
Rientrai che era notte, per vederlo
dormire. Già dimentico
dei capezzoli della madre, li dimenticherà
fino alla prossima guerra.
Così, così piccolo,
chiuse le speranze, si aprì alla vastità
del compianto – che non si chiude mai.
*
2
La guerra scoppiò in autunno tra i vuoti del confine
dove sono dolci i grappoli e le arance.
Il cielo è blu, come le vene tormentate sulle cosce
di una donna.
Per chi lo fissa, è uno specchio il deserto.
I maschi, tristi, portano il ricordo delle loro famiglie
in sacchi, sacchetti e cupi zaini
nelle borse e nell’iride che scema.
Sangue congelato nelle vene. Non si versa
puoi solo farlo a pezzi.
*
3
Il sole di ottobre ci scalda il viso.
Un soldato riempie secchi di sabbia:
è soffice, un tempo era il suo gioco.
Il sole di ottobre scalda i nostri morti.
Il dolore è una lastra di legno.
Le lacrime sono chiodi.
*
4
Non ho nulla da dire sulla guerra
nulla aggiungo. Mi vergogno.
Tutta la conoscenza che ho acquisito in una vita
è inutile, sono un deserto
che rinuncia all’acqua.
Sto dimenticando
nomi che non avrei mai pensato di dimenticare.
A causa della guerra ridico ancora
per un estremo commiato dalla dolcezza:
Il sole gira intorno alla terra. Sì.
La terra è come una zattera alla deriva. Sì.
Dio è in Paradiso. Sì.
*
5
Recluso in me. Come
un acquitrino, stretto, putrido. Dormo
ibernato nella guerra.
Mi hanno fatto colonnello dei morti
sul Monte degli Ulivi.
Anche quando vinci, sempre,
hai perso – sei perduto.
*
8
L’uomo incendiato che eredità ci lascia?
Che ordine ci impone l’acqua?
Non fare rumore, che sia nel candore
resta silente al suo fianco
lascia che scorra.
*
33
Canto per la patria: La conoscenza
delle sue acque comincia con le lacrime.
A volte amo l’acqua, a volte la pietra.
In questi giorni, preferisco le pietre.
Potrei cambiare.
*
36
Ogni notte Dio mostra la sua
splendida mercanzia davanti al negozio:
sacri carri, tavole della legge, pietre
preziose, croci e campane
poi li ripone in scatole buie
e abbassa le saracinesche: “Anche oggi
nessun profeta è venuto a comprare qualcosa”.
*
Canto d’amore
È iniziata così: Il cuore è diventato
audace e felice e facile, come
quando i lacci degli stivali si allentano
e devi inginocchiarti.
A questo sono succeduti altri giorni.
Ora sono come il cavallo di Troia
pieno di terribili amori:
ogni notte scoppiano, si scatenano
ma all’alba rincasano
nel mio oscuro ventre.
*
Salmo
Quando un uomo viene abbandonato
dal suo amore, uno spazio vuoto, circolare
si espande dentro di lui come una grotta
capace di ospitare caute, meravigliose stalagmiti.
Come lo spazio vuoto
della storia, aperto al
Senso allo Scopo alle lacrime.
*
Canto d’amore
Fiacco, pesante, con una donna al balcone
“Resta con me”. Ma le strade muoiono come gli uomini:
in silenzio o all’improvviso si spezzano.
Resta con me. Voglio essere te.
In questo paese incendio
le parole non sono che ombre.
*
Canto d’amore
Le persone si usano
per curare il loro dolore. Si mettono
sulle ferite esistenziali
sugli occhi sulla vagina sulla bocca sulla mano aperta.
Si stringono, l’un l’altro, senza lasciarsi più.
*
Piccolo canto della quiete
Se vagabondare è più scaltro di morire
non abbiamo nulla da temere.
Hai due mani e due piedi
non sei solo.
Bellissimi corpi avvolti nell’amore
con la scaltrezza e la sapienza dell’asilo nido.
Un uomo passa attraverso il muro
e il muro resta intatto e lui resta intatto.
Sei un uomo simile
o lo diventerai.
*
Ho molti morti tumulati nel vento
Mia madre in lutto, ma sono ancora vivo.
Sono come lo spazio
che lotta contro il tempo.
Una volta il colore verde era la felicità
del tuo viso alla finestra.
Solo nei sogni amo ancora con quella forza.
*
L’anima
Infuria un’epica battaglia perché la bocca
non si indurisca e le mascelle
non si mutino nelle potenti porte
di una cassaforte di ferro, perché questa mia
vita non venga detta pre-morte.
Come un foglio ormeggiato a una staccionata
finché soffia il vento, così
l’anima si aggrappa al mio corpo.
Cadrà quando il vento smetterà di soffiare.
*
Perduto nella grazia
Perduto nella grazia
come un piede dentro scarpe troppo grandi.
Il piccolo buco nella mia camicia
è un occhio in più attraverso cui guardare.
Cosa porti con te per dormire?
Il sonno e un cuscino rosa, abbracciati.
Le ruote della biciletta di mio figlio,
il più grande, girano tutta la notte. Non dormo.
Il pesce di suo fratello è giallo e di plastica:
sorride sempre.
La solitudine ha tante finestre e una porta.
Ha tubature fuori e dentro, come ogni casa.
Ciò che ho davanti a me è grande
e silenzioso, come lo spazio, immobile e vuoto, di un cimitero.
*
Le candele si sono spente
e ora i miei occhi non hanno
più ragione di inumidirsi.
L’eternità mi azzanna come un cane
ed è duro il suo abbaiare.
Per allentare la pressione
alleno il sangue
a digerire e a fornicare
così si disperderà
tra l’intestino e il pene
senza più recare dolore al cranio.
Nei giorni della mia infanzia e nelle notti d’amore
ho nascosto miniere di verità.
Ma sono cresciuto
e ho bruciato le mappe.
Ecco perché vivo in bilico
tra menzogne precarie e non fuggo.
Ancora una volta, le immagini si moltiplicano
e le parole sono rare.
Come un libro per bambini.
Così il cerchio si chiude.
Yehuda Amichai
L'articolo “Il cuore è diventato audace”. Le poesie di Yehuda Amichai proviene
da Pangea.
Ezra Pound nomina la lince nel secondo Cantos:
> “E dal nulla, un respiro,
> fiato caldo alle mie caviglie.
> Come ombre rispecchiate, le bestie,
> una coda pelosa nel nulla.
> Ronfiar di lince, odoravano di brughiera le bestie…
>
> Sicuro fra le mie linci,
> pascendo d’uva i miei leopardi”
>
> (cito dalla versione, nobile, a tratti ‘obliqua’, di Mary de Rachewiltz)
All’arcana bestia, ‘Ez’ dedica uno dei Pisan Cantos, il LXXIX. La lince, in
questo caso, ricorre di continuo, lasciando chiare orme grafiche, ornamenti
d’artiglio:
> “O Lince, mio amore, mia amata lince
> Vigila sul mio otre di vino,
> Proteggi il mio lambicco fra i monti
> Finché Spirito entri nel whisky”
La parte finale del “canto” si impenna in rito, è scandito da varie invocazioni
alla lince:
> “O Lince, proteggi il mio frutteto
> Astieniti dal solco di Demetra”;
> “Qui sono linci linci
> S’ode un suono nella foresta
> di pardi o di bassaridi
> di crotali o fruscio di foglie?
>
> Citera, fra queste linci
> i cespugli di quercia sbocceranno?”
> “O lince, fa che il mio mosto fermenti
> Che s’illimpidisca”
> “O lince vigila sul vigneto
> Quando il chicco s’ingrossa sotto i pampini…”
La lince non farà più comparsa nei Cantos, svanita in misterica reticenza,
elusiva quanto Eleusi. Eppure, il suo ruolo nei “Pisani”, che è poi, per
circostanze storiche – Pound in arresto, presso il Disciplinary Training Center,
a Metato, Pisa, sotto tiro continuo di morte –, la porzione più cruda e risoluta
dei Cantos, “un testamento, redatto talora in terza persona, un addio agli
amici, e un’autobiografia degli affetti”, è centrale, è a zenit. Il Commento di
Mary de Rachewiltz all’edizione mondadoriana dei Cantos – da cui estraggo il
virgolettato – non offre chiarimenti su questa Lynx. Nell’edizione dei Canti
postumi – Mondadori, 2002; poi Carcanet, 2015 –, tuttavia, Massimo Bacigalupo
allude alla lince come all’“animale-totem di Pound”. Il Companion to the Cantos
of Ezra Pound allestito da Carroll F. Terrell per la University of California
Press (1984) non è risolutivo. Si dice che “La lince è uno dei felini sacri a
Dioniso. Perpetuo refrain nel canto, la lince non è soltanto il simbolo per
appellarsi al dio del sesso e del vino, ma anche l’emblema di una donna in
particolare. Gli studiosi dibattono per capire se Pound si riferisca, qui, a
Dorothy, a Olga Rudge, o Bride Scratton o a qualche altra amate”.
A Dioniso, è vero, sono associati i felini: non tanto la lince – felino
effimero, incerto perfino nella definizione, inabile al puro simbolo, per lo più
minimizzato a ‘gatto selvatico’ – quanto la pantera, la tigre, il leone. La
lince rifugge alla classificazione dei bestiari antichi, a cui mal si adatta.
Nei “Pisani”, per altro, Pound gioca a sobillare le associazioni; il canto si
chiude con la figura del puma, “sacro a Hermes, Cimbica serva del Sole”. Il puma
– Cimbica nella lingua indigena del Sudamerica – non figura, per ovvia sfasatura
geografica, tra le bestie sacre a Hermes (a cui sono ascritti, piuttosto, la
lepre e il falco, la tartaruga e il gallo): è egli stesso bestia ermetica.
“Significa, come altre figure feline, la manifestazione del divino nella natura”
(Terrell). Il puma: divora e partorisce il sole – Pound, poeta-profeta, ci
lascia sulla soglia dell’enigma; non scioglie – scuce. A noi resta il flottare
tra fili filatteri, l’angustia dell’ago, mangusta di metallo.
Torniamo a cavalcare la lince.
Il primo riferimento di Pound sono Le metamorfosi di Ovidio. Nel quinto libro il
poeta latino dice di Linco, re degli Sciti, che attenta alla vita di Triptòlemo,
devoto a Cerere, che “gli affidò dei semi ordinandogli di spargerli/ parte in
terra incolta e parte in quella dopo anni ricoltivata”. Linco, “preso
dall’invidia”, tenta di uccidere Triptòlemo nel sonno, “quando in lince lo mutò
Cerere”.
Il mito mette in contrasto diversi aspetti ‘culturali’ che potevano attrarre
Pound. Intanto, gli Sciti, rappresentati da “quel barbaro” di Linco, in
contrasto con la cultura greca classica, raffigurata da Triptòlemo, cittadino
della “famosa Atene”. Gli Sciti erano famosi per essere audaci guerrieri a
cavallo; i loro gioielli raffigurano lupi in assalto, serpi intrecciate, leoni
delle nevi e cervi dal palco immane. Dalle regioni connesse alla Scizia proviene
Medea, la donna che porta il caos dov’è l’ordine. In un passo straordinario
tratto dalle Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo, il re degli Sciti – o
meglio, il loro rappresentante, dacché gli Sciti sono il popolo supremamente
libero, all’assalto – affronta il Macedone ricordandogli che “anche il leone è
stato qualche volta il pasto di piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il
ferro. Niente è così forte che non possa essere messo in pericolo anche dal
debole…”, che “non raggiungerai mai gli Sciti [perché] la nostra povertà sarà
più veloce del tuo esercito, che trasporta il bottino di tanti popoli”.
All’ordine – all’armonia – imposta dalla civiltà greca, gli Sciti oppongono un
altro stile. Alla città – orgoglio della mente organizzatrice dell’uomo –
preferiscono l’accampamento, la tenda docile al vento, senza fondamenta. Alla
stanzialità preferiscono il nomadismo; alla spada e all’aratro (e al loro
confratello, la nave) contrappongono l’arco e il cavallo; alla religione degli
dèi olimpici, gli dèi della natura, auscultati dallo sciamano; al poema redatto
dai poeti e alla filosofia oppongono i canti attorno al fuoco e i motti
ancestrali, i ‘proverbi’; al tempio sostituiscono il bosco e la prateria;
all’umano (l’uomo al centro del mondo) oppongono l’animale, un rapporto
simbiotico con la bestia; al commercio (che inaugura l’era del profitto) il
baratto; inadatti alla legge esigono la certezza del patto.
Da qui si giunge all’opposizione radicale, radicata in una visione del mondo.
Alla civiltà fondata sull’agricoltura e i suoi culti (Cerere/Demetra) gli Sciti
contrappongono la civiltà della caccia e della razzia. Alla civiltà del pane
preferiscono la civiltà del vino (Dioniso). Al feroce irenismo, l’ira e perfino
l’invidia (termine a cui era associata, in luce del mito, la lince), che è poi
l’invadere, che è poi l’evadere per ambizione. Alla civiltà ‘coniugale’
preferiscono quella dell’assalto all’arma bianca: la Baccante meglio che la
moglie. È sotto la coltre di Dioniso – il cui culto è stato esportato a Oriente
– che si muove la Scizia.
Faccio un passo di lato – anzi, un affondo.
Riguardo al lignaggio della lince Pound scrive: “Manitou, dio delle linci,
ricorda il nostro grano”. Il meccanismo è analogo all’idea del puma sacro a
Hermes: coincidenza di opposti, epica del sobillare le culture. Manitou,
infatti, è il “Grande spirito” dei nativi americani, in particolare – leggo dal
solito Companion – “è il nome con cui gli indiani Algonchini identificano il
potere che permea tutte le cose”.
Pound, in sacro sincretismo, recluso nella gabbia pisana – dunque: privo di
biblioteca, nella piena del morire, impollinato da memorie dispari –, autentica
angelica bestia, fonde il mito greco (trapiantato nella cultura latina) con
quello dei nativi. Nel bestiario degli Algonchini – gli Ojibwe, in particolare,
che abitavano nella regione dei Grandi Laghi – spicca la figura di The Great
Lynx, “Mishipeshu”. Questa lince è una belva chimerica, “in qualche modo simile
a un drago, è un felino con le corna, simbolo del suo potere. Ha zampe palmate
che gli rendono facile il nuoto, dorso e coda ricoperti di squame. Mishipeshu
vive nelle profondità dei laghi. Ha forma felina, è anfibio, ma viene descritto
come un rettile. È lui la causa di inondazioni, mulinelli, e dell’improvvisa
rottura del ghiaccio in inverno. Se implorato, garantisce successo nella caccia,
cibo in abbondanza” (Serge Lemaître, “Mishipeshu”, The Canadian Encyclopedia).
Sul genio della lince, il più sfuggente dei simboli, nella mitologia amerinda
Claude Lévi-Strauss ha scritto un libro, Storia della Lince.
La marziale sapienza degli Algonchini ricorda quella degli Sciti: destrezza
nell’ammansire la bestia, genio della caccia; quei corpi, poi, in armature
leggere, stupendamente pronti a un destino disertore.
Più che raffigurare una qualche felide amata, la lince è figura del poeta. La
lince è l’animale che – a differenza della pantera, del leone, della tigre – non
si inscatola nei bestiari o nelle cronache esoteriche, non si riassume in una
attitudine o in un aggettivo. La lince è la bestia imprendibile e imparagonabile
per antonomasia; c’è, non si fa vedere e tutto osserva; lascia lievi tracce
sulla neve, predilige la solitudine. Secondo un mito dei nativi, la lince è
all’origine della nebbia: è l’assoluto invisibile. Come il poeta, è l’animale
costantemente in estinzione – che sfugge perfino ai proclami di chi vorrebbe
proteggerla. È la bestia che in cattività muore. Emblema del ‘mostruoso’ – cioè,
del meraviglioso – che non accetta alcuna norma imposta alla bellezza. È il
miracolo.
Tra i tanti poeti devoti alla lince, va citata Emily Dickinson, bianco felino di
Amherst. In una lettera a Catherine Scott Turner, inviata nell’estate del 1860,
insegna che la lince ha il talento dell’astuta prudenza:
> “Una scusa molto ben congegnata, cara, ma con una Lince come me [a Lynx like
> me] completamente inefficace – Trovare è lento, occasioni per perdere così
> frequenti in un mondo come questo, perciò io trattengo con estrema attenzione,
> una prudenza così astuta può sembrare non necessaria, ma è l’abbondanza, mia
> cara, a motivare coloro che hanno conosciuto la povertà, e il Salvatore ci
> dice, Kate, che i poveri sono sempre con noi”.
>
> (traduzione di Giuseppe Ierolli)
Molti anni dopo, nel 1981, Ted Hughes – formidabile costruttore di bestiari
lirici – scriverà una poesia sulla Lynx:
> “Le zampe silenti della foresta,
> delle nuvole, delle montagne
> hanno il loro meritato riposo
> sotto l’orecchio di Lince.
> Dormono del suo sonno – come
> in un profondo – profondo – lago.
>
> Non disturbare la belva
> o le nuvole apriranno gli occhi,
> la foresta, in silenzio,
> sposterà tutti i boschi
> e le montagne, arse di nebbia,
> svaniranno tra le loro pietre”.
Esiste atto di devozione più grande? La lince – per sempre legata ai suoi
arcani: il lago e la nebbia – dorme: i boschi, i cieli, le pietre sono il suo
sogno. Al risveglio, tutto svanirà. Allo stesso modo, anche noi siamo il frutto
del sogno del poeta, il felide felice.
*In copertina: Ernesto Ornati ritrae Ezra Pound, Rapallo, 1967
L'articolo Devoti alla Lince. Indagine sull’animale-totem di Ezra Pound proviene
da Pangea.
Benché abbia in sé, negli avvallamenti etimologici, qualcosa di irenico, di
edenico, di maliziosamente leggiadro, la parola antologia ha a che fare con il
rischio, l’azzardo, l’assurdo, quando non il pericolo. È vero, antologia
significa ‘raccolta di fiori’: la mente va ai quadri della fratellanza
preraffaellita – Waterhouse per dire –, di donne fatali infestate di boccioli, e
al loro maestro, Botticelli. La raccolta dei fiori si realizza secondo un
metodo antologico: non è possibile raccogliere i fiori più belli in assoluto, ma
anche quelli che ci vengono offerti dal caso, quelli che il singolare capriccio
del raccoglitore ritiene belli. I fiori si preparano per la festa – o perché
quel giorno, senza che vi sia un qualche motivo, sia per noi giorno di festa. I
fiori sono un dono – il loro dramma: sparire in poco tempo. I fiori insegnano
che la festa è transitoria. Diversamente, l’erbario serba ciò che altrimenti è
destino svanisca. L’erbario – arte in cui eccelleva Emily Dickinson, tra le
poetesse più antologizzate di ogni tempo – cristallizza la festa, la fa museo,
mausoleo.
La nostra storia è costellata da antologie: dalla “Corona” di Meleagro alla
“Palatina” compilata a Bisanzio; dalla “Raccolta Aragonese” voluta da Lorenzo il
Magnifico all’antologia dei “Poeti futuristi” ideata da Marinetti al Man’yōshū,
la “raccolta di diecimila foglie” approntata nell’VIII secolo in Giappone,
l’antologia non raccoglie le poesie più belle ma quelle necessarie.
Un’antologia, comunque, promuove una visione del mondo – è, cioè, un atto di
lotta, una dichiarazione di intenti e, a volte, di guerra, più che un invito a
nozze. Più spesso, un’antologia è compilata quando la casa brucia, quando
occorre, in fuga, alle strettoie del pericolo, raccogliere soltanto gli oggetti
più cari, i più cari affetti. Un’antologia è, allora, una zattera: è il minimo
indispensabile per restare vivi. C’è, allora – prima ancora della festa e
dell’assalto all’arma bianca – qualcosa del sopravvivere nell’antologia. Altro
che fiori… l’antologia è il pane spezzato, il pane condiviso. È quell’ultimo,
sopravvissuto libro grazie al quale riusciremo, dopo il disastro, a fondare una
civiltà, a ricostruire il verbo. Proprio come una zattera, l’antologia ci porta
altrove, in un luogo diverso da quello in cui è stata pensata.
L’antologia non è un fiore: è un seme. Piantata in terra di squilibrio, se è
buona, se è ben fatta, sboccerà nel futuro. In un futuro da cui tutti i
protagonisti – poeti antologizzati e antologizzatori – sono esclusi. L’antologia
esiste per chi verrà: agli eredi, alla nuova specie, il compito di fare il
fuoco, di erigere torri o di creare teatri.
Intorno a questi criteri – emergenza, allarme, ‘poesia come vita’ –, nel 1997,
Ted Hughes e Seamus Heaney costruiscono per la Faber The School Bag,
un’antologia – fin nel titolo – rivolta agli studenti – ergo: al futuro –, è
vero, ma che pertiene anche a una rivolta interiore, per così dire. The School
Bag mira, cioè, per spavalderia, a essere l’unico libro dello studente: che con
il suo zaino, per principio di avventatezza, cominci ad esplorare il mondo, a
perimetrarne lo splendore. Nell’introduzione, Heaney parla dell’antologia come
di una “school of poetry” che assembla i versi dei contemporanei insieme ai
“canti dei bardi”; una specie di “compendio di grandi esempi”. C’è qualcosa di
epico nel dire di Heaney. L’antologia non è semplicemente un libro ‘di lettura’:
è un addestramento. A cosa addestra la poesia? A conferire destrezza a ogni
proprio gesto: senza un corpo ben raffinato, ‘marziale’, la voce non esce
limpida, esatta – la poesia è prima di tutto ritmo, musica, voce. E poi, è
palestra spirituale – la poesia non dice soltanto, non è soltanto musica,
‘significa’.
Heaney e Hughes hanno deciso di rappresentare ogni poeta con una poesia
soltanto. “Le nostre scelte saranno oggetto di discussione: un ulteriore
contributo al libro, alla formazione del lettore. Dopo tutto, quella che William
Butler Yeats ha chiamato una volta singing school, è composta da tutti coloro
che danno valore alla poesia e vogliono custodirla perché dà un senso alla
nostra vita”.
In appendice, Ted Hughes firma un testo in cui spiega l’importanza di imparare a
memoria le poesie. Lo leggete in calce all’articolo. Hughes si ribella
all’apprendimento mnemonico in uso nelle scuole – un apprendimento, dice, che
riguarda il cieco obbedire a un ordine imposto – riferendosi all’antica pratica
medioevale. A un imparare, cioè, secondo l’uso di immagini, assecondando la
propria creatività. Finché la poesia non diventa parte del nostro essere,
carne&sangue. E possiamo fare a meno dei libri, diabolico supporto…
Ostinato sciamano dall’esistenza sciamannata, Ted Hughes – forse il più estremo
tra i poeti del secondo Novecento, il più lucidamente ‘druido’ –, all’epoca era
Poet Laureate del regno, sarebbe morto poco dopo, sessantottenne, nell’ottobre
del 1998, poco dopo aver pubblicato la sua più nota – ma non la più bella –
raccolta, Birthday Letters, in memoria della moglie, Sylvia Plath. Seamus
Heaney, più giovane di Hughes – e per certi versi un suo ‘allievo’ – era stato
proclamato Nobel per la letteratura nel ’95; l’ultima edizione di The School
Bag esce vent’anni fa.
Antologia tra le più autorevoli e al contempo spiazzanti mai realizzate in area
anglofona – merito dei due ‘mostruosi’ antologizzatori – The School Bag attacca
con una formidabile poesia di Yeats (il sapiente assoluto), Long-legged Fly:
> “Perché la civiltà non sprofondi,
> Perduta la grande battaglia,
> Acquieta il cane, lega il puledro
> A un palo lontano;
> Il nostro grande Cesare è nella tenda
> Dove le carte sono spiegate,
> Gli occhi fissi nel vuoto,
> Una mano sotto il mento.
> Come un insetto dalle lunghe zampe sopra il fiume
> La sua mente muove sul silenzio”.
L’ultima poesia, di John Dryden, da The Secular Masque, non chiude le danze, ma
le rinnova – una antologia è autentica, in effetti, quando, rotti i sigilli,
continua a vivere e a vibrare: soltanto i brutti libri restano supini nella
stalla della libreria, al giogo del padrone. Fa così:
> “Tutto, dopo tutto, non è stato che questo:
> la tua caccia mirava alla grande belva
> le tue guerre non hanno portato nulla
> gli amori si sono rivelati fasulli:
> è tempo di ricominciare tutto, ancora, ancora.
> Danze di cacciatori, ninfe, guerrieri e amanti)”
Nel mezzo, insieme a poeti ben installati nel canone – Coleridge, Wordsworth,
Shakespeare, Shelley, Keats, Blake, Whitman… –, una sfilza di ballate gaeliche e
di bardi d’Irlanda, tante misconosciute donne (Emilia Lanier, ad esempio,
nobildonna veneziana, cresciuta alla corte di Elisabetta I; Carolina Oliphant;
l’australiana Eve Langley e la micidiale Laura Riding, tra le altre), tantissimi
poeti ‘difficili’ (Elizabeth Bishop e Gerard Manley Hopkins, Basil Bunting e
Robert Penn Warren, Hart Crane, Hugh MacDiarmid, George Barker…), a dilatare il
canone in esiti fino ad allora inusitati, a fare della scuola, davvero, uno
spazio ‘esplosivo’ di esplorazione dell’io, di indagine all’erta. C’è Allen
Ginsberg, padre dei beat, come John Crowe Ransom paladino dei sudisti americani,
dei nuovi conservatori. Di Ezra Pound è antologizzato il primo dei Cantos, di
T.S. Eliot The Hollow Men, di Dylan Thomas Fern Hill. Naturalmente, non mancano
Auden e Frost, Lewis Carroll e D.H. Lawrence, Robert Graves e Rudyard Kipling,
Oscar Wilde e Philip Larkin. C’è una mirabile poesia di David Gascoyne, The
Cubical Domes, con alcuni bellissimi versi:
> “Ma la luce delle stelle è attratta dai fiori trasparenti
> e alla fine gli uomini e le bestie, gli argani
> e gli elmi e le mesmerizzate suore la dimenticano
> perché i confini del mio regno sono sconosciuti”.
Quando l’ha scritta, Gascoyne aveva trent’anni, Hughes ne aveva sei e Heaney non
era ancora nato. Si parla, in quella poesia, anche di “flotte di marinai
cristiani/ i cui cuori ardono nella neve”.
C’è anche Robinson Jeffers, un poeta che amo molto: nella poesia antologizzata
– Fawn’s Foster-mother, la tradurrò, un giorno – si dice di una donna che
allatta un cerbiatto, “mio marito l’ha trovato nascosto in un bosco di felci/
gli misi il muso al seno/ piuttosto che farlo morire/ avevo latte a sufficienza
per tre bambini”.
Che bello andare a scuola così – anzi, fare della poesia la propria scuola di
vita.
***
Imparare le poesie a memoria
Ci sono molti buoni motivi per imparare una poesia a memoria. Memorizzare
dovrebbe essere un gioco. Un piacere. Per chi di noi ha bisogno di aiuto (in
sostanza: tutti), il metodo più comune usato nelle scuole è l’apprendimento
mnemonico. Ma questa è soltanto una tra le numerose tecniche di memorizzazione.
Per la maggior parte delle persone, è la meno efficace. La noia che ci avvinghia
nell’imparare a memoria un testo è stata considerata a lungo una variabile
positiva nelle aule inglesi: disciplinava e forgiava il carattere. Il costo
tuttavia è elevato: può creare un’avversione radicale per la poesia.
Chi non ama imparare pedissequamente a memoria, ma desidera acquisire i numerosi
poteri che derivano dalla sua conoscenza, può scegliere tra diverse altre
tecniche, meno faticose, più produttive e divertenti. Queste tecniche sfruttano
le strategie naturali che il cervello adotta per ricordare qualcosa. Di recente,
ho sentito un tecnico del suono, a teatro, che chiedeva a un altro cosa
significassero le lettere CSB che ricorrevano nella scaletta di uno show. Gli fu
detto che CSB era il nome dell’attore principale. Poiché il tecnico interpellato
non riusciva a ricordare il suo nome, gli aveva affibbiato un nomignolo, Capelli
Spumeggianti come Birra.
Questo è il genere di cose che capita a tutti senza che ce ne accorgiamo. Perché
il tecnico non riusciva proprio a ricordarsi il nome dell’attore mentre pensare
alla sua testa piena di “Capelli Spumeggianti come Birra” lo rendeva
indimenticabile? Semplice. Una delle tecniche spontanee del cervello per fissare
qualcosa nella memoria cosciente è collegarla a un’immagine visiva. Più assurda,
esagerata e grottesca è l’immagine, più indimenticabile è la cosa a cui è
collegata.
Questa tecnica è superba nel ricordare le liste. Di solito, se ogni immagine
viene “fotografata” mentalmente, come su uno schermo, non la dimenticheremo
facilmente. E ogni immagine richiama la successiva, ad essa collegata, e poi
via, di seguito. Così, da un leone si passa al pollaio e dal pollaio al pettine.
È importante che ogni immagine abbia dei legami, per quanto paradossali, con la
seguente. Questa è la tecnica che usa anche chi deve imparare una poesia a
memoria per professione.
Alcuni potrebbero avere qualche difficoltà nello sbrigliare l’immaginazione. Ci
vuole pratica. Il libero sfogo di una immaginazione propensa al gioco, aiuta il
cervello a liberarsi di ogni giogo. Alcuni potrebbero essere riluttanti a
incardinare le sacre parole di una poesia in un arbitrario e ‘volgare’
accompagnamento dell’immaginazione. Il punto è far entrare la poesia, con ogni
mezzo, lecito o illecito, nella propria testa. Dopo un po’, saranno le parole
stesse della poesia a stagliarsi in noi: le immagini – il film che ci siamo
costruiti – svanirà da sé.
Ciò che è essenziale, comunque, è mantenere una facoltà uditiva aperta. Le
parole vanno ‘guardate’, ma soprattutto ascoltate – ascoltandone il suono più
profondo, saggiando ogni sussurro nell’aria, valutando come quei versi risuonano
nel nostro corpo, proprio il nostro, mentre ci impegniamo a costruire per loro
un maniero di immagini.
Tecniche mnemoniche di questo tipo, che utilizzano la visualizzazione, sono
state inventate nel mondo antico, sono state la base dell’apprendimento nel
Medioevo cristiano, quando i libri erano rari. Furono considerate essenziali e
ulteriormente sviluppate da alcuni giganti del sapere come Tommaso d’Aquino, che
pronunciò questa indimenticabile affermazione: “L’uomo non può comprendere senza
immaginare”.
In Inghilterra, l’ascesa puritana/protestante in seguito alla Guerra Civile, nel
XVII secolo, ha scardinato le immagini da ogni aspetto della vita comune,
distruggendo metodicamente le icone religiose dalle chiese, proibendo quel gioco
dell’immaginario che è il teatro. Uno spirito analogo ha bandito dalle scuole le
antiche tecniche di memorizzazione che usavano le immagini, sostituendole
d’ufficio con l’apprendimento meccanico. I metodi precedenti, associati al
paganesimo e al cattolicesimo, furono presto dimenticati. Quando si è tentato di
reintrodurli, li hanno bollati come “trucchi” o “sortilegi”, quando non
“illusioni”. Così, “imparare a memoria” è diventata la norma.
Ted Hughes
*In copertina: Ted Hughes e Sylvia Plath
L'articolo Scuola di poesia. Su una memorabile antologia di Ted Hughes e Seamus
Heaney proviene da Pangea.
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus
Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti
in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal
titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di
cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i
serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di
pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia
venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa.
Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di
una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a
trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”.
Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per
descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i
poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta
via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può
lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia
di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo
verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso
della parola cairn.
Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet
Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a
quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò,
intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più
che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire
prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal
desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea
era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia
e per gli studenti.
> “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie
> resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia
> del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di
> interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale
> attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non
> l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il
> cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente
> entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.
È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli
insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della
generosità e della luce”.
In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes –
non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath.
Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe
filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily
Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto,
autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow,
Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di
Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.
Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti
dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav
Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes
dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”.
Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del
1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà,
fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia
aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa
apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli
scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu
tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la
Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu
il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra
argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present
Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha
attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto
a Praga nell’estate del 1998.
Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone
della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha
ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli
ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli
scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con
uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di
Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché
“mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il
cervello che sta sotto il cranio”.
Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto
in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una
mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971.
Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano
gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C.
Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una
conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito
sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È
inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di
eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza
al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che
pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.
Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno
stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi
alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo
del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da
apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.
***
Discorso sull’angelo canide
Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.
Forse pensava a una cagna
o ricordava un osso –
coltelli negli occhi di ruote malvage
che afferrano spaccano schiacciano –
ha la mascella rotta
striscia, guaisce – no!
cade, mugola, geme
resta immobile.
La gente, intorno,
lo fissa:
un angelo cane
peloso e nero
con ali madide di fango
e quell’infinito dolore
che si moltiplica dalla sua aureola
sopra le pozzanghere.
L’oscurità
sfrega le mani
sul corpo e risuona
in colonnati verso il cielo.
Lo dragano via.
È solo una pezza
uno straccio per il cimitero
e nulla più.
L’angelo
delle tegole
annusa i camini
e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.
*
Breve riflessione sull’identità
Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso.
Né i fiumi né le capre né i profeti.
Se l’oggi è uguale a domani
non tutte le cose restano
uguali. Perché quando una cosa
cambia, cambiano anche le altre.
Le cose non sono sole: dipendono
in modo claustrale da altre cose,
per lo meno in parte. Dunque,
sai, non sai mai…
Anche i profeti appartengono a questo
sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come
le capre e il latte. Come il sangue.
Per questo, è piuttosto difficile
riconoscere le proprie parole, il proprio
sangue, il proprio profeta e la propria capra.
Molto difficile. Ma ancora e ancora
ci tentiamo, in modo da non ricavare capre
dai profeti o sangue dal latte.
Pretendiamo che le cose abbiano un’identità
mentre ci trasformiamo nel nostro doppio
e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.
*
Il giardino dei vecchi
È scaltra l’edera, cresce
ovunque e dell’erba
incolta nessuno fa più
caso. Sotto gli alberi
l’invasione di frutti gotici.
Crollò l’oscurità, mitologica
e senza denti.
Ma Minotauro l’ha sconfitta
grazie a un buco nella recinzione.
Da qualche parte, Icari
impigliati nella ragnatela.
Durante una luminosa mattina
i cespugli rivelarono
lo spudorato, grigio
osso frontale dei fatti.
Boccheggiava, senza più parole.
*
Breve riflessione sull’accuratezza
I pesci
sanno sempre con precisione dove e quando muoversi,
all’unisono
gli uccelli hanno un innato senso del tempo e
dell’orientamento.
L’umanità
è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca
scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio.
Un soldato
doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.
Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così:
L’orologio
della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle
diciassette
e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il
cannone.
Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle
diciotto in punto sparo.
Ora era chiara
la ragione di quella accuratezza. Non restava
che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato
l’orologiaio.
L’orologiaio
disse che quello era uno degli strumenti più precisi in
assoluto.
Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno
alle sei in punto.
Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna
esattamente le sei.
Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.
*
Incontro con Ezra Pound
Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.
Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound.
Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli
porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la
testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli
occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida,
di pietra. Impossibile liberarsi.
Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava
la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della
pietra.
Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa
blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.
È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.
Poi ci separarono.
Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.
Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la
mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non
persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che
mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.
Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.
*
Il giudizio finale
Una lavatrice automatica
è accesa – lava
strizza, asciuga.
Come un angelo che mastica
chewing gum. Come il granito
che perfora il quarzo.
Qualcuno maledice il mare
ma non lo senti.
Piume d’oca vagano in cucina.
Le tue piccole dita scompaiono
sotto la porta.
Mosche: piccole Icaro che
tappano le falle del labirinto.
Hai un bell’aspetto, figlio mio
dici mentre ti coglie l’infarto.
La lavatrice lavora.
Vi entrano banchetti luculliani
c’è anche la granola.
E i riflessi. Cadono lettere
bene ordinate. E balene
che nuotano e denti innumerevoli.
Entrano i ricordi, escono
i codici della strada.
Bianco. La lavatrice lavora.
Chi pagherà la banda?
Dov’è il ballo dei pompieri?
Dove suonerà il flauto stretto
dal gelo? Come superare
l’ombra di un libro?
Bianco di fuliggine dilavata.
La lavatrice gira
e tremano le mani di Discobolo.
L’eternità è misurata
con precisione al secondo.
Sì.
In un panorama di giochi
bisogna giocare fino alla fine.
In un panorama di fango
la via d’uscita è
la lavatrice.
Quando è il caos
le vie a senso unico
sono un sollievo.
Quando sei in via d’estinzione
la precisione vale più di un dio.
In questo rumore
bianco esco da una porta
che mi porta
in questa stessa stanza.
*
Una favola
Si costruì una casa
le fondamenta
di pietra
i muri
il tetto sopra la testa
il camino e il fumo
la vista dalla finestra.
Si fece un giardino
il recinto
il timo
il lombrico
la rugiada, a sera.
Si ritagliò un pezzo di cielo.
E avvolse il giardino nel cielo
e la casa nel giardino
e il tutto in un fazzoletto
poi se ne andò
solitario come una volpe artica
varcando il freddo
e quella infinita
pioggia
per il mondo.
Miroslav Holub
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Holub proviene da Pangea.