In un breve racconto di quella sorta di compendio di saggezza popolare orientale
che è La preghiera della rana di Anthony De Mello, è scritto che un uomo decise
un giorno di lasciare tutto per andare alla ricerca della verità. Dopo molti
anni, non potendo fare altro che registrare il fallimento della sua impresa,
tornò a casa. Con suo grande stupore, appena aperta la porta vide che la verità
era sempre rimasta lì ad aspettarlo.
Rivelazione è, dunque, l’esito di uno sguardo educato da una mancanza, a
riconoscere la verità; dove e quando meno ce lo si aspetta, dopo esserci
riempiti gli occhi di cose che invece di svelarla, la nascondono. Perseguire la
verità, richiede un apprendistato che necessariamente passa da quella trama di
illusioni che chiamiamo con una certa sicurezza realtà e dove l’essere fedeli
alla domanda significa liberarsi proprio dal viluppo di questa trama. La parola,
che è forma, deve subire lo stesso percorso di purificazione per riuscire a dire
quel che deve, toccando di sfuggita ciò che rimane mistero e con il quale
occorre misurarsi. Almeno, sembra questa la direttrice sottintesa nell’ultima
silloge poetica di Alessandro Camilletti, Breviario antalgico (con le
illustrazioni di Gian Ruggero Manzoni per Pequod, 2025). La raccolta
precedente, Vivo e invisibile (Pequod, 2023) si apriva recando in epigrafe μηδὲν
ἄγαν, niente di troppo, motto antichissimo scolpito sul Tempio di Apollo a
Delfi. Nello specifico, la poesia di Camilletti, estremamente sobria nel ricorso
alle parole, invocava già allora nella brevità dei componimenti non un
moralistico senso della misura ma, piuttosto, lo scardinamento della misura
stessa quando sia imposta da un uso – perché no, anche cialtronesco o
falsificatore – della parola, che volendo abbellire si fa padrona di qualcosa
che non crea lei.
Nella bellissima postfazione a Breviario antalgico, Adriana Gloria Amerigo
scrive: «[…] poiché il raccontare non è pertinente all’assetto semantico: a
poesia, al suo mistero che mai si svela totalmente, è consono […] far percepire
l’incantamento della parola poetica non nell’immediata vibrazione dell’emozione,
ma nella lucentezza della parte misterica che lavora di rivelazione nello spazio
del pensiero, del cuore e della ragione». Jean Luc Nancy, parlando di necessità
e resistenza della poesia, dice che si accede ad una soglia di senso sempre e
soltanto poeticamente. Il filosofo francese, peraltro, ci avvisa subito che non
attraverso tutta la poesia è possibile questo accesso, ma che la poesia non ha
luogo senza che questo accesso avvenga. Poesia è sì l’accesso ad un senso però,
ogni volta mancante o posticipato. È stare continuamente dentro una domanda,
dentro una vertigine; probabilmente nel punto esatto in cui afferrare vuol dire
subito lasciare andare per sentieri sconosciuti.
Una parola chiave per frequentare la poesia di Camilletti è senz’altro rinuncia.
In tempi in cui orge di parole e immagini attestano la disfatta del significato,
in cui la velocità le ingoia e al sostare abbiamo preferito la rimozione, nella
sua poesia si procede in senso contrario e la parola si fa orlo lungo il quale
si osserva la dissoluzione di ogni ordine formale costituito e ciò anche
nell’uso, quasi assente, della punteggiatura. Non per cercare un caos fine a sé
stesso, ma per denunciarlo nei suoi borghesi travestimenti: «Tutto è a buon
mercato/ Qui, nell’indifferenziato». E ancora: «Prendendo coscienza/ finimmo nel
provvisorio// Un susseguirsi di guasti/ il nostro trionfo». Eco eliotiana
dei Cori da “La Rocca”, dove nella sua umanità esausta il poeta finalmente si
chiede: «Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che
abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto
nell’informazione»? Affermare qualcosa, in Camilletti, significa naufragare
negli interrogativi; la nettezza del dire espone al rasoio di una resa di conti
ciò che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare. «Per dolore o per moda/
assumiamo posture/ lontane dal centro// Ogni primavera/ prendiamo atto/ del
nostro fallimento».
C’è da dire che il poeta, nei suoi gesti, cioè appunto nei suoi versi, non è
affatto solo. Alcuni spiriti benevolmente tengono a battesimo questa raccolta e
tengono il punto del cammino a partire dalle tre citazioni poste in epigrafe, di
Zhuang-zi, Arthur Schopenhauer e Andrea Emo. Ma ci sono anche Nietzsche e
Nicolás Gómez Dávila e se stiamo dentro il significato del titolo, Breviario
antalgico, ci è certamente chiaro che qui non si tratta di togliere il dolore
come se fosse il poeta a risparmiarci la fatica ma, proprio perché egli stesso
non si sottrae ad essa, ci invita a seguire senza altri indugi quella tensione
veritativa che costituisce la cifra della nostra umanità e che esige il rogo
della maschera. (Livia Di Vona)
L’alto
Il basso
Vicino e lontano
Un tempo per tutto
Divora e spinge
la volontà
Apre un baratro
Sempre più profondo
La conoscenza
Scoprendo
Copre
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Ho atteso a lungo
Gli occhi e il cuore
Le assenze hanno reso
La schiena un cimitero
Ma devo essere
Un buon soldato
*In copertina: Eugène Carriére, Dormire, 1897
L'articolo “Del cuore e della ragione”. Poesia, ovvero: stare continuamente
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