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“Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore
Non si può barare con la montagna. È stato l’Appennino a far germogliare dentro il ragazzo che trascorreva le estati con i nonni, un inestirpabile desiderio di libertà. Forgiato dal e nel suo seno, da ruscello carsico di desiderio fanciullesco a vera e propria piena nell’età adulta, a passo di poeta e di sciamano ricostruendo una grammatica della diserzione che, probabilmente, è giovane di milioni di anni perché solo il perenne è capace di non invecchiare. Francesco Benozzo non ha mai barato né con la montagna, né con l’impulso feroce del suo sangue che lo obbligavano a tornare con la musica e con le parole a quel tempo troppo lontano per noi evoluti e separati dal tutto, in cui dire Io sono significava dire Io sono il cosmo. Cioè il tempo totalizzante dell’infanzia, prima che imparare a stare nel mondo si trasformi, con i suoi concetti e le sue artefatte regole, nell’oblio di quell’incanto originario.  Da questa fedeltà nasce un breve manuale, pubblicato per i tipi de La Vela, dal titolo Piccolo manuale di diserzione quotidiana. Per Benozzo le parole, che sono la cosa più effimera che esista, al contempo sono l’artefatto più duraturo: dietro ciascuna di esse, si nascondono strati di storia e di preistoria lungo il cui filo risalire alla prima volta, allo stupore del dire di fronte al mondo, nel mondo, che costituisce la ragion d’essere del poeta. Dunque, la diserzione non è una posa da bastian contrario alle regole del vivere civile, come una banalizzazione della questione potrebbe far pensare e condannare. È una fede atavica a quel primo momento, supremo atto poetico, a ciò che preesiste al simulacro di mondo che assorbe la nostra vita, che confondiamo con la nostra vita.  Owen Clarke, intellettuale militante di Cardiff, in Galles, ha scritto “Dopo alcuni recenti libri dalle tesi forti e controcorrente, Benozzo qui si spinge addirittura oltre e dà forma al primo trattato in cui si teorizza la diserzione come unico stile di vita possibile. Un piccolo e potente libro che stravolge le nostre percezioni abituali e che, citando Baudelaire, individua nella capacità di andarsene e di sottrarsi la più potente e concreta rivoluzione attuabile ogni giorno da ciascun individuo”. > L’intrico in cui le vite dei singoli individui vengono ingarbugliate (in > latino sertum, participio passato di serěre ‘intrecciare’, originariamente > ‘intrecciato’, poi diventato anche, in forma di sostantivo, ‘corona, serto’) è > presentato come una ‘corona’ di cui fregiarsi come uomini evoluti, ma nella > sua essenza è un’imposizione non necessaria a cui a poco a poco si comincia ad > adattarsi confondendola con la propria natura. Il disertore toglie la corona; ancora meglio, la rifiuta. E lo fa in nome di quello che gli viene tolto, di ciò che è situato al di fuori della gabbia. Per questo Francesco Benozzo non si è mai, dal canto suo, sottratto al prezzo sociale da pagare per il suo rifiuto, isolandosi dalle dita puntate su di lui, dal disprezzo neppure malcelato per le sue scelte radicali. Lui stesso, quando ha ritenuto di doverlo fare, quando quell’impulso lo ha richiamato, ha detto no per non tradirsi, tradendo tuttavia il consesso civile che lo voleva strappato a sé stesso. In questo senso, in qualche modo il disertore è l’avventuroso puer aeternus che tanto pare minacciare l’intrico, cioè il costituito, contraffazione dell’unità originaria, in cui un falso centro distoglie da quello reale. Certo agli adeguati, ai conformi, non poteva non apparire quantomeno bizzarro l’atteggiamento, lo stare al mondo, di Francesco Benozzo.  Filologo di fama docente all’università di Bologna, poeta, sciamano, candidato dal 2015 stabilmente al Nobel per la letteratura; disertore, appunto. Ma non disertore con parole vane, vuote, immemori dell’altrove da cui sono originate. Nelle azioni, radicali come l’impulso del sangue che rifiuta la frode. E adesso che spirano i venti di una guerra tale da far impallidire tutte le altre, adesso che il castello di regole posto a protezione di una pace che sembrava indistruttibile viene giù, come accade ogni qualvolta il peso delle menzogne seppellisca una civiltà ormai incapace di continuare a raccontarsele in modo convincente, il cuore di Benozzo ha disertato per l’ultima volta: “Il diritto di andarsene, la capacità di sottrarsi, l’istinto a non conformarsi sono i capisaldi della legge del tutto”. Chissà che non siano stati i suoi Appennini a suggerire queste parole, come una chiamata al ritorno liberata nell’ultimo battito.  > Ed intanto tra i fili del fuoco > Vedevamo danzare  > Una forma inattesa per noi > Una forma di mare > > Ed intanto nei vuoti di ortiche > Sentivamo il lamento  > Di parole diverse da noi > Di parole di vento  > > Qui si ascolta L’inverno necessario. Livia Di Vona *In copertina: Nicolas de Staël (1914-1955), Landscape, Antibes, 1955 L'articolo “Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore proviene da Pangea.
April 10, 2025 / Pangea
“Gli iniziati del cuore”. Vita & morte di Jacques Rigaut, un fuoco fatuo
Meglio un portinaio impiccato che un poeta vivo. Così sentenzia nel suo Sommario di decomposizionequell’apologeta incoerente del suicidio che fu Emil Cioran, le cui parole poste in epigrafe ci introducono agli scritti, editi in Italia per la traduzione e la cura di Arlindo Hank Toska (Sarò un grande morto, ed. Joker), del dandy surrealista morto nel 1929 Jacques Rigaut. Rigaut, l’indolente Alain immortalato da Pierre Drieu La Rochelle – amico di distratte bevute di Martini al Ritz di Parigi – in Fuoco fatuo (Louis Malle, nel 1963, ne farà un film indimenticabile), resoconto delle ultime ore di un trentenne scrittore che cerca di disintossicarsi da alcol e droga mentre medita il da farsi dentro un mondo che pare rigettarlo come un organo non tollerato.  Chiaramente, parlare di Jacques Rigaut vuol dire anche rievocare la Parigi di quei formidabili primi decenni del ’900, teatro di incontri indimenticabili nell’incrocio, peraltro drammatico, di letteratura e Storia. Alain è stato, fino a quando chi l’ha creato non ha emulato in qualche modo nell’epilogo l’amico, lo specchio del fantasma Jacques e del vivo senza troppa convinzione Drieu; entrambi hanno condiviso una pervicace resistenza alla vita, un modo di stare al mondo neppure di passaggio, come turisti distratti da una meta reale e troppo lontana, ma come chi vorrebbe amare una donna sapendo che più che sfiorarla non può e andare fino in fondo si traduce necessariamente in una vocazione al precipizio. Nel gioco delle comparse, nella città con i suoi luoghi diventati di culto per i personaggi straordinari, nel bene e nel male, che li hanno frequentati Rigaut stesso ha vissuto come una comparsa di poca importanza che per nessuna ragione poteva essere trattenuta: “Prova, se riesci, a fermare un uomo che viaggia col suicidio all’occhiello” sicché – nelle parole che prendiamo in prestito da Addio a Gonzague – tra il fango e la morte la decisione per i Jacques, i Drieu e gli Alain è drammaticamente ovvia, laddove la seconda diventa, per dirla sempre con il Gonzague che ci restituisce il dolore mai lenito di Drieu per non aver fatto abbastanza, “ciò che si poteva fare di più bello”.  Qui esplode la questione del rapporto tra estetica e suicidio: non pochi studiosi hanno, in un certo senso, liquidato l’affaire Rigaut ascrivendolo all’atteggiamento in voga in quegli anni, tanto dei dadaisti quanto dei surrealisti, di elevare il suicidio a momento di massima autoaffermazione estetica. Ma è una scorciatoia interpretativa che lascia il tempo che trova. Intanto, in una lettera all’amica Simone Kahn, Rigaut ha scritto di essere assorbito da una noia che definiamo cannibale e che avrebbe potuto pensare di farla finita con la stessa poca convinzione con cui aveva sempre vissuto; neppure avere ragione poteva servire a qualcosa. Coniugando al presente, Rigaut in uno scritto sottolinea l’inutilità del possederla: “Io ho sempre ragione, tu hai sempre ragione” fino a “Loro hanno sempre ragione” e viene quasi da pensare alle parole di quella carogna geniale di Céline che ci esorta ad imparare ad aver torto: il mondo è pieno di gente che ha ragione ed è per questo che marcisce. Inevitabilmente, anche i pensieri e le parole sembrano dimorare sulla carta in modo sbadato, quasi per caso, del resto la scrittura è senza dubbio il coraggio dei deboli.  > […] Per un occhio esperto, non c’è differenza tra perdere > e vincere. Se non c’è nulla da vincere, cosa c’è da perdere? > Il diavolo è passato di qui, si era già notata la sua > traccia, un’ala grigia e molto appuntita all’ora della > grazia. Lord Patchogue è inebriato dalla peggiore vanità > della perdita. Ogni occasione lo trova esatto, è il > suo unico appuntamento. Diminuire, atrofizzarsi – > sempre meno – che ebbrezza. Il segno –, un inno nazionale, > la parola d’ordine degli iniziati del cuore. Ogni > mese, se non ogni giorno, lo trova un po’ più inadatto > a gestire tutto ciò che serve a trovare, a muoversi, a > evadere; attenzione arrugginita.  Rigaut si è guardato allo specchio e nel riflesso è sortito Lord Patchogue, una sensibilità mai realizzata nell’azione, giaciglio di un’irraggiungibile salvezza. Come ha scritto in Evasione, quarto capitolo di Lord Patchogue “non succede niente, o almeno non è mai successo niente.” Tutto quello che rimane è la contemplazione del proprio guscio. “Sorride: “Presto sarò in una sola parola”. Si è rifugiato nella vigliaccheria, a ciascuno la sua dignità”. L’immagine sancisce una distanza, anche quando a fermarla in un istante che ambisce pretenziosamente all’eternità è una fotografia che più che salvare ciò che è stato, sbatte in faccia senza troppi riguardi un’assenza. Come quella di Rigaut che Drieu la Rochelle si fece spedire dalla famiglia e davanti alla quale cominciò a scrivere il suo Fuoco Fatuo. Ma la foto, così come il romanzo, più che l’opera di un testimone, ricordano Hank Toska e Jonathan Bortolotti nelle parole che chiosano il libro, sono lo sforzo di non cedere al tradimento del ricordo, che non è la stessa cosa della memoria. Davanti all’istantanea gli occhi che la guardano sono gli stessi che per un attimo dovranno chiudersi per salvare nel pensiero il suono di una voce, “il peso della sua presenza – i gesti che definivano il suo nome”. La memoria è il luogo di un paradossale e precario equilibrio tra ciò che è stato e ciò che non è che riguarda l’osservato e chi osserva. Poi, anche l’immagine migra in qualche altrove, come misteriosamente migrano le parole nel tentativo impossibile di nominare un’assenza, inchiodando la vita sulla punta della lingua di uomini arruolati alla morte.  Livia Di Vona L'articolo “Gli iniziati del cuore”. Vita & morte di Jacques Rigaut, un fuoco fatuo proviene da Pangea.
March 13, 2025 / Pangea