Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio
tragico proviene da Pangea.
Tag - Livia Di Vona
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è
il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia
italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di
una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi
magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per
dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare
del suo precipitare.
“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”,
scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio,
degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi
millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca
gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica;
la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a
tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le
vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud
strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora,
un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme
alle cosiddette “Poesie della torre”.
“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”,
scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire
l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al
verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti
più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il
poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma
una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande
poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.
Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice
ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come
una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi
ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore,
che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel
poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni
nel 1949).
Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin
è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti
il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non
avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”),
da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio
Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin –
insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca
lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso
sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo
setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci
permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del
linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si
rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del
libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin
realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro,
poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:
> “Ma a noi non è dato
> riposare in un luogo,
> dileguano precipitano
> i mortali dolenti, da una
> all’altra delle ore, ciecamente,
> come acqua di scoglio
> in scoglio negli anni
> già nell’Ignoto”
>
> da Canto di Iperione e del destino
In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo
abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il
fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga
“Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe
“presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di
Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo
guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”,
scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di
Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde
l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni
vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti
categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire
poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in
sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il
poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto
giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le
cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel
cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro
che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca
betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.
Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste
stelle?
Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito
da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende
dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le
lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché,
detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione.
Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel
momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea
lui.
Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più
pericoloso dei beni?”
Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in
cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la
vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice
creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la
funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla
condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea
assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè,
di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia
alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per
Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo
penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente
al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine
dolorosissima.
…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura:
quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo
del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove
di pone Hölderlin?
Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico
(Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione
dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito
fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il
nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso
eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del
titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento
di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le
sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il
suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive
infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi
all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di
immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel
senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente
dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e
apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara,
per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel
linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una
pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.
…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e
cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori,
cosa ci resta in mano?
In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi
che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità:
o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il
dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita
solitudine.
Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.
Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura
nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo
inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed
ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione
di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima,
“celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità.
Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che
per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli
indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla
creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli
artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova
in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta
cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non
c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”,
potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno
della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il
sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra
prima e dopo la “pazzia”.
Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.
Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore,
l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è
difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di
una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.
Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che
senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?
Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la
pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio
Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia
per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i
valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa
considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo
trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano
volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in
luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una
propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos,
in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una
solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se
nulla di immortale si vede”?
Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?
Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può
partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una
poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa
mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si
disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista
meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un
dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri.
Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con
Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.
*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta,
1837/39
L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
Scriveva Nietzsche nel 1881, che la filologia – arte di oreficeria verbale – ci
consente di sottrarci alla fretta, alla “precipitazione indecorosa e sudaticcia,
che vuol ‘sbrigare’ immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo”.
La lentezza del procedere filologico diventa così un modo di aprire fenditure
nella superficie per prendersi tutto il tempo, raccogliere tutto il silenzio
necessario, per andare dentro le cose “con dita e occhi delicati”. Il
volume Aneddoti letterari da Petrarca a Scheiwiller (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2024), a cura di Antonio Ciaralli e Carlo Pulsoni,
rispettivamente docenti di Paleografia latina e Filologia romanza all’Università
di Perugia, restituisce lo sguardo paziente degli studiosi.
Nella presentazione del volume, gli autori non mancano di sottolineare come il
richiamo nel titolo a Benedetto Croce, non possa far dimenticare la ben nota
avversione nei confronti della filologia, “incompatibile col proprio sistema”;
segno, per quanto ci riguarda, della serietà con cui sono disposti a considerare
perfino i limiti del procedere filologico, reo, secondo alcuni, di raffreddare
la potenza di un’opera letteraria, pur di ricostruirne le vicende che l’hanno
generata. Ma andare in profondità vuol dire entrare senza remore dentro l’epoca,
ricostruendo la storia della letteratura e della filologia in modo tale da far
irrompere questo passato, che soltanto, appunto, in superficie pare
archeologizzato, quindi morto, nelle espressioni di storia della letteratura e/o
della filologia, come fuoco vivo dentro il presente, sempre impegnato con
dannata fretta a liquidare sé stesso per inseguire un domani che si fa
contenitore vuoto.
I cinque capitoli che compongono il libro consentono salti temporali che vanno
dal Petrarca – con il riconoscimento della parziale autografia del manoscritto
Vaticano latino 3195, testimone dei Rerum vulgarium fragmenta del poeta, vero e
proprio punto di svolta nella storia della filologia petrarchesca – a Vanni
Scheiwiller, al mondo dell’editore milanese, al ruolo cruciale svolto nella
“riconciliazione ideologica” tra Pasolini e Ezra Pound. Il capitolo si apre
infatti con la fatidica data del 26 ottobre 1967 – specificando pure che si
trattava di un giovedì, sicché, al lettore, pare quasi di essere trasportato
personalmente indietro, dentro un incontro così carico di significati, non fosse
altro che soltanto la Poesia è in grado di superare gli steccati di vedute
ideologiche e politiche così diverse. Ma le coordinate di questo straordinario
incontro sono anche geografiche: Venezia, Calle Querini Dorsoduro 252, luogo di
riconciliazione.
26 ottobre 1967, giovedì
Senza tacere della relazione tra lo stesso Scheiwiller, Pasolini e il poeta
Biagio Marin, di cui il secondo fu sincero e vivace promotore e amico. In mezzo,
ci sono Leopardi, Montale, Ungaretti e Mario Praz. Lo spirito che anima questi
scritti e che illumina il senso profondo dello studio filologico è evidenziato
nella stessa introduzione, in cui Ciaralli e Pulsoni scrivono, a proposito del
ritrovamento del manoscritto su Petrarca, scoperto per la prima volta nel 1886
da Arthur Pakscher e Pierre de Nolhac, che la storia di un manoscritto finisce
con il riflettere lo spirito inquieto di un’epoca. Non a caso, proprio il
ritrovamento di questo manoscritto ebbe dei veri e propri risvolti politici, in
tempi in cui certamente filologia e storia concorrevano a ricostruire,
determinandola, l’identità nazionale degli Stati in Europa, in modo tale che la
supremazia negli studi storici e filologici garantisse in qualche modo
(blindandola, aggiunge chi scrive) quella sul piano politico. Perciò, guardando
dentro l’epoca e i suoi fermenti, possiamo osservare come le pretese
imperialistiche degli stati europei esondassero i piani meramente politici e
militari coinvolgendo, appunto, anche la filologia. Il capitolo su Ungaretti –
in particolare sulle varianti di Gridasti: soffoco – nella premessa sottolinea
la “difficoltà oggettiva” nel ricostruire origine ed evoluzione del testo. Come
giustamente rilevato da Marco Grimaldi, ciò è favorito anche dall’epoca digitale
in cui viviamo che, se da un lato consente una maggiore facilità nell’offerta
documentale al pubblico, dall’altro pare indurre surrettiziamente gli studiosi a
rinunciare alla ricostruzione (resa stratigrafica) del cammino di un’opera nel
tempo. Il volume, dunque, esprime fin troppo bene la cura da “sacerdoti della
memoria” che gli studiosi come Ciaralli e Pulsoni profondono in queste
discipline, che risalendo dentro la polvere del tempo sedimentata sulle opere,
le restituisce al loro ambiente, vive.
Livia Di Vona
L'articolo Sia lode a Madama Filologia, ovvero: sul manoscritto di Petrarca e il
leggendario incontro tra Pasolini & Pound proviene da Pangea.
Non si può barare con la montagna. È stato l’Appennino a far germogliare dentro
il ragazzo che trascorreva le estati con i nonni, un inestirpabile desiderio di
libertà. Forgiato dal e nel suo seno, da ruscello carsico di desiderio
fanciullesco a vera e propria piena nell’età adulta, a passo di poeta e di
sciamano ricostruendo una grammatica della diserzione che, probabilmente, è
giovane di milioni di anni perché solo il perenne è capace di non
invecchiare. Francesco Benozzo non ha mai barato né con la montagna, né con
l’impulso feroce del suo sangue che lo obbligavano a tornare con la musica e con
le parole a quel tempo troppo lontano per noi evoluti e separati dal tutto, in
cui dire Io sono significava dire Io sono il cosmo. Cioè il tempo totalizzante
dell’infanzia, prima che imparare a stare nel mondo si trasformi, con i suoi
concetti e le sue artefatte regole, nell’oblio di quell’incanto originario.
Da questa fedeltà nasce un breve manuale, pubblicato per i tipi de La Vela, dal
titolo Piccolo manuale di diserzione quotidiana. Per Benozzo le parole, che sono
la cosa più effimera che esista, al contempo sono l’artefatto più duraturo:
dietro ciascuna di esse, si nascondono strati di storia e di preistoria lungo il
cui filo risalire alla prima volta, allo stupore del dire di fronte al
mondo, nel mondo, che costituisce la ragion d’essere del poeta. Dunque, la
diserzione non è una posa da bastian contrario alle regole del vivere civile,
come una banalizzazione della questione potrebbe far pensare e condannare. È una
fede atavica a quel primo momento, supremo atto poetico, a ciò che preesiste al
simulacro di mondo che assorbe la nostra vita, che confondiamo con la nostra
vita.
Owen Clarke, intellettuale militante di Cardiff, in Galles, ha scritto “Dopo
alcuni recenti libri dalle tesi forti e controcorrente, Benozzo qui si spinge
addirittura oltre e dà forma al primo trattato in cui si teorizza la diserzione
come unico stile di vita possibile. Un piccolo e potente libro che stravolge le
nostre percezioni abituali e che, citando Baudelaire, individua nella capacità
di andarsene e di sottrarsi la più potente e concreta rivoluzione attuabile ogni
giorno da ciascun individuo”.
> L’intrico in cui le vite dei singoli individui vengono ingarbugliate (in
> latino sertum, participio passato di serěre ‘intrecciare’, originariamente
> ‘intrecciato’, poi diventato anche, in forma di sostantivo, ‘corona, serto’) è
> presentato come una ‘corona’ di cui fregiarsi come uomini evoluti, ma nella
> sua essenza è un’imposizione non necessaria a cui a poco a poco si comincia ad
> adattarsi confondendola con la propria natura.
Il disertore toglie la corona; ancora meglio, la rifiuta. E lo fa in nome di
quello che gli viene tolto, di ciò che è situato al di fuori della gabbia. Per
questo Francesco Benozzo non si è mai, dal canto suo, sottratto al prezzo
sociale da pagare per il suo rifiuto, isolandosi dalle dita puntate su di lui,
dal disprezzo neppure malcelato per le sue scelte radicali. Lui stesso, quando
ha ritenuto di doverlo fare, quando quell’impulso lo ha richiamato, ha detto no
per non tradirsi, tradendo tuttavia il consesso civile che lo voleva strappato a
sé stesso. In questo senso, in qualche modo il disertore è l’avventuroso puer
aeternus che tanto pare minacciare l’intrico, cioè il costituito, contraffazione
dell’unità originaria, in cui un falso centro distoglie da quello reale. Certo
agli adeguati, ai conformi, non poteva non apparire quantomeno bizzarro
l’atteggiamento, lo stare al mondo, di Francesco Benozzo.
Filologo di fama docente all’università di Bologna, poeta, sciamano, candidato
dal 2015 stabilmente al Nobel per la letteratura; disertore, appunto. Ma non
disertore con parole vane, vuote, immemori dell’altrove da cui sono originate.
Nelle azioni, radicali come l’impulso del sangue che rifiuta la frode. E adesso
che spirano i venti di una guerra tale da far impallidire tutte le altre, adesso
che il castello di regole posto a protezione di una pace che sembrava
indistruttibile viene giù, come accade ogni qualvolta il peso delle menzogne
seppellisca una civiltà ormai incapace di continuare a raccontarsele in modo
convincente, il cuore di Benozzo ha disertato per l’ultima volta: “Il diritto di
andarsene, la capacità di sottrarsi, l’istinto a non conformarsi sono i
capisaldi della legge del tutto”. Chissà che non siano stati i suoi Appennini a
suggerire queste parole, come una chiamata al ritorno liberata nell’ultimo
battito.
> Ed intanto tra i fili del fuoco
> Vedevamo danzare
> Una forma inattesa per noi
> Una forma di mare
>
> Ed intanto nei vuoti di ortiche
> Sentivamo il lamento
> Di parole diverse da noi
> Di parole di vento
>
> Qui si ascolta L’inverno necessario.
Livia Di Vona
*In copertina: Nicolas de Staël (1914-1955), Landscape, Antibes, 1955
L'articolo “Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore proviene da
Pangea.
Meglio un portinaio impiccato che un poeta vivo. Così sentenzia nel suo Sommario
di decomposizionequell’apologeta incoerente del suicidio che fu Emil Cioran, le
cui parole poste in epigrafe ci introducono agli scritti, editi in Italia per la
traduzione e la cura di Arlindo Hank Toska (Sarò un grande morto, ed. Joker),
del dandy surrealista morto nel 1929 Jacques Rigaut. Rigaut, l’indolente Alain
immortalato da Pierre Drieu La Rochelle – amico di distratte bevute di Martini
al Ritz di Parigi – in Fuoco fatuo (Louis Malle, nel 1963, ne farà un film
indimenticabile), resoconto delle ultime ore di un trentenne scrittore che cerca
di disintossicarsi da alcol e droga mentre medita il da farsi dentro un mondo
che pare rigettarlo come un organo non tollerato.
Chiaramente, parlare di Jacques Rigaut vuol dire anche rievocare la Parigi di
quei formidabili primi decenni del ’900, teatro di incontri indimenticabili
nell’incrocio, peraltro drammatico, di letteratura e Storia. Alain è stato, fino
a quando chi l’ha creato non ha emulato in qualche modo nell’epilogo l’amico, lo
specchio del fantasma Jacques e del vivo senza troppa convinzione Drieu;
entrambi hanno condiviso una pervicace resistenza alla vita, un modo di stare al
mondo neppure di passaggio, come turisti distratti da una meta reale e troppo
lontana, ma come chi vorrebbe amare una donna sapendo che più che sfiorarla non
può e andare fino in fondo si traduce necessariamente in una vocazione al
precipizio.
Nel gioco delle comparse, nella città con i suoi luoghi diventati di culto per i
personaggi straordinari, nel bene e nel male, che li hanno frequentati Rigaut
stesso ha vissuto come una comparsa di poca importanza che per nessuna ragione
poteva essere trattenuta: “Prova, se riesci, a fermare un uomo che viaggia col
suicidio all’occhiello” sicché – nelle parole che prendiamo in prestito da Addio
a Gonzague – tra il fango e la morte la decisione per i Jacques, i Drieu e gli
Alain è drammaticamente ovvia, laddove la seconda diventa, per dirla sempre con
il Gonzague che ci restituisce il dolore mai lenito di Drieu per non aver fatto
abbastanza, “ciò che si poteva fare di più bello”.
Qui esplode la questione del rapporto tra estetica e suicidio: non pochi
studiosi hanno, in un certo senso, liquidato l’affaire Rigaut ascrivendolo
all’atteggiamento in voga in quegli anni, tanto dei dadaisti quanto dei
surrealisti, di elevare il suicidio a momento di massima autoaffermazione
estetica. Ma è una scorciatoia interpretativa che lascia il tempo che trova.
Intanto, in una lettera all’amica Simone Kahn, Rigaut ha scritto di essere
assorbito da una noia che definiamo cannibale e che avrebbe potuto pensare di
farla finita con la stessa poca convinzione con cui aveva sempre vissuto;
neppure avere ragione poteva servire a qualcosa. Coniugando al presente, Rigaut
in uno scritto sottolinea l’inutilità del possederla: “Io ho sempre ragione, tu
hai sempre ragione” fino a “Loro hanno sempre ragione” e viene quasi da pensare
alle parole di quella carogna geniale di Céline che ci esorta ad imparare ad
aver torto: il mondo è pieno di gente che ha ragione ed è per questo che
marcisce. Inevitabilmente, anche i pensieri e le parole sembrano dimorare sulla
carta in modo sbadato, quasi per caso, del resto la scrittura è senza dubbio il
coraggio dei deboli.
> […] Per un occhio esperto, non c’è differenza tra perdere
> e vincere. Se non c’è nulla da vincere, cosa c’è da perdere?
> Il diavolo è passato di qui, si era già notata la sua
> traccia, un’ala grigia e molto appuntita all’ora della
> grazia. Lord Patchogue è inebriato dalla peggiore vanità
> della perdita. Ogni occasione lo trova esatto, è il
> suo unico appuntamento. Diminuire, atrofizzarsi –
> sempre meno – che ebbrezza. Il segno –, un inno nazionale,
> la parola d’ordine degli iniziati del cuore. Ogni
> mese, se non ogni giorno, lo trova un po’ più inadatto
> a gestire tutto ciò che serve a trovare, a muoversi, a
> evadere; attenzione arrugginita.
Rigaut si è guardato allo specchio e nel riflesso è sortito Lord Patchogue, una
sensibilità mai realizzata nell’azione, giaciglio di un’irraggiungibile
salvezza. Come ha scritto in Evasione, quarto capitolo di Lord Patchogue “non
succede niente, o almeno non è mai successo niente.” Tutto quello che rimane è
la contemplazione del proprio guscio. “Sorride: “Presto sarò in una sola
parola”. Si è rifugiato nella vigliaccheria, a ciascuno la sua dignità”.
L’immagine sancisce una distanza, anche quando a fermarla in un istante che
ambisce pretenziosamente all’eternità è una fotografia che più che salvare ciò
che è stato, sbatte in faccia senza troppi riguardi un’assenza. Come quella di
Rigaut che Drieu la Rochelle si fece spedire dalla famiglia e davanti alla quale
cominciò a scrivere il suo Fuoco Fatuo. Ma la foto, così come il romanzo, più
che l’opera di un testimone, ricordano Hank Toska e Jonathan Bortolotti nelle
parole che chiosano il libro, sono lo sforzo di non cedere al tradimento del
ricordo, che non è la stessa cosa della memoria. Davanti all’istantanea gli
occhi che la guardano sono gli stessi che per un attimo dovranno chiudersi per
salvare nel pensiero il suono di una voce, “il peso della sua presenza – i gesti
che definivano il suo nome”. La memoria è il luogo di un paradossale e precario
equilibrio tra ciò che è stato e ciò che non è che riguarda l’osservato e chi
osserva. Poi, anche l’immagine migra in qualche altrove, come misteriosamente
migrano le parole nel tentativo impossibile di nominare un’assenza,
inchiodando la vita sulla punta della lingua di uomini arruolati alla morte.
Livia Di Vona
L'articolo “Gli iniziati del cuore”. Vita & morte di Jacques Rigaut, un fuoco
fatuo proviene da Pangea.