Conte è una prosa lirica di Rimbaud che fa parte del gruppo delle Illuminations.
Secondo ciò che dice Paul Verlaine, quelle prose “illuminate”, scritte “durante
viaggi in Belgio, in Inghilterra e in tutta la Germania” – quasi vi fosse
una destinazione tra la topografia e la grafia – sono state completate nel 1875,
centocinquanta anni fa. Quei fogli, in disordinata armonia, portano il caos, una
coerenza aurorale li ancora – il primigenio ci sboccia addosso: leggi e gli
occhi sfarfallano, prendono il volo, si fanno libellule – fiere primizie in
piumaggio blu.
Conte, in particolare, è una sorta di efferata fiaba. Si parla di un principe,
sfiancato dalla propria generosità, che trova fervida giovinezza
nell’assassinio, nella perfezione in ferocia. Ciò che uccide, tuttavia, rivive,
lo insegue. La rapina è rapimento dei sensi; razzia è razzolare nel fondaco del
sé. L’incontro con il Genio – l’altro, ineffabile, se stesso – è il trauma della
“felicità indicibile, insopportabile”. Anche il principe, che tanto ha ucciso
per scoprire la verità dell’amore, muore – del desiderio intravide l’ombra,
l’effimera effusione.
Olivier Bivort – che ha curato l’edizione delle Opere di Rimbaud per Marsilio –
scrive che Conte è il punto di contatto tra Rimbaud e il “genere della fiaba”,
che è una prosa “alla maniera delle Mille e una notte”.
Il Principe a me pare Minotauro: il palazzo – il mondo – è la sua prigione. È un
Minotauro sapiente, però: uccide senza innocenza. Poiché è – ed è unico al mondo
– Minotauro (Asterione dovremmo chiamarlo), non desidera – vive nel desiderio.
Se il Genio, in questo gioco di specchi, è Teseo – l’altro volto di Minotauro,
il vero mostro, l’eroe che, per attitudine mitica, vive senza coordinata di
condivisione, solo per sempre – chi è Arianna? Di una fiaba conta ciò che non si
chiude, non si sovrappone: preveggenza che qualcosa possa davvero sanguinare.
Non si sguainano sguaiate risa, al cospetto della fiaba – la fiaba atterrisce
perché è inesplicabile.
Il testo – tradotto, ma, per effluvi del caso, restato lì quando ho costruito
una antologia di testi rimbaudiani– è questo:
“Un Principe, esperto in perfezione di generiche generosità, era sfiancato.
Ipotizzava catastrofiche rivoluzioni d’amore, pensava che le sue donne fossero
superiori a quella compiacenza lordata di cielo e di lusso. Voleva violare le
verità, l’istante del desiderio, del piacere originario. Che fosse aberrazione
del bene – voleva.
Per lo meno, possedeva il cuore dell’umano potere.
Le donne che lo avevano conosciuto furono assassinate. Che saccheggio nel
giardino della bellezza! Al lume della spada, lo benedissero. Non ne volle altre
– e quelle riapparvero.
Uccise i seguaci, dopo la caccia e la libagione – e lo inseguirono.
Godeva nello sgozzare le più superbe belve. Fece in fiamme i palazzi. Soggiogò i
popoli per spezzarli. Le folle, i tetti d’oro e le mirabili belve esistevano
ancora.
La distruzione eccita, la crudeltà ringiovanisce. I popoli non mormorarono.
Nessuno offrì il suo parere.
Una sera galoppava con fierezza. Giunse un Genio, ineffabile in bellezza,
inviolato a dirsi. Dai tratti e dalla postura, era la promessa di un amore
molteplice e complesso, di una felicità indicibile, insopportabile! Il Principe
e il Genio si annientarono, probabilmente, nella salvezza assoluta. Come
avrebbero potuto non morirne? Morirono, dunque, insieme.
Ma il Principe si consumò nel palazzo, a un’età ordinaria. Il Principe era il
Genio. Il Genio era il Principe. – Di sapiente armonia è privo il nostro
desiderio”.
Il caso, tuttavia, ha la sua piena e la sua risacca.
In una libreria genovese, “Bookowski”, qualche giorno fa, sepolto tra piramidi
di tomi, trovo un numero di “niebo”, la “rivista di poesia” ideata da Milo De
Angelis: il numero 6 del settembre 1978. Il numero – in azzurro acquerello,
presto sbiadito – è dedicato alla fiaba. Tra i testi, leggende polacche e
indiane – ridotte da Swami Vivekananda –, Una fiaba rumena e due fiabe di
Giovambattista Basile, il genio de Lo cunto de li cunti, tradotte e commentate
da Roberto Mussapi. Il centro della rivista è proprio il Conte, il Racconto di
Rimbaud, proposto in doppia traduzione, di Vincenzo Guarracino e di Valeria
Drovandi. In un commento – o meglio, evasione, diversione – al Racconto,
nell’ultima pagina di “niebo”, Milo De Angelis scrive così:
> “Solo ciò che è stato annientato è meraviglioso in un altro, dice Rimbaud: ma
> non ce ne accorgeremo mai per un confronto, non ce ne accorgeremo sputando sul
> suo viso di oggi, su quello che ne resta, facendo l’elogio del tradimento. È
> idiota credere nell’infedeltà, così vicina alla vita letteraria, al cartone
> animato della vita quotidiana, della vita scambiabile. E chi è ‘fedele’
> (fedele come un gatto, una fedeltà a bagliori, di legami dimenticati e vivi)
> sa che davvero c’è stato un solo amore e che lì la poesia non deve tornare
> mai”.
Benché Cristina Campo abbia scritto, e magnificamente, di Fiaba e mistero, anni
prima, credo che quel numero di “niebo” – un numero costruito da fanciulli
selvatici – tocchi il significato lancinante della fiaba. La fiaba respinge chi
cerca “pedissequamente di trovarne le cause”; la fiaba – mito in sconquasso,
verifica di una infanzia con l’arco a tracolla – non accetta chi “manca di un
trasalimento che lo porti via”. In quell’antico testo, Le fiabe e il secondo
bambino, De Angelis – sradicando i vari Propp, Bettelheim, Fromm e Dario Fo –
scrive che
> “le immagini di una fiaba cominciano a essere viste quando non sono più
> applicabili, quando i colori dei tarocchi sgorgano dal punto in cui non
> possono più essere adoperati, così come un gesto che credeva di essere d’amore
> diventa splendido quando l’amore non è più il suo scopo”.
Nell’evanescenza, nell’assenza di scopo – nell’assenza di una morale, la moria
della lettera – è l’essere all’assalto, l’essere assassino della fiaba. Di un
corpo ci affascina la scia; la perenne possibilità – non la perizia di ciò che è
perituro, quella perfezione dei troppi letterati anatomisti di oggi, affetti da
necrofilia, da necrosi dell’immaginare.
Il mito del labirinto – forse perché il labirinto è il mito della scrittura
stessa: ci si perde per ritrovare il bandolo, e nella perdizione qualcosa,
sempre, muore – è al fondamento della fiaba. Secondo il repertorio inanellato da
Robert Graves, è Arianna, innamoratasi di Teseo “a prima vista”, ad aiutare il
condottiero a uccidere “il mio fratellastro”, nel sonno, grazie al gomitolo
ordito da Dedalo. Il costruttore del labirinto è anche colui che conosce come
dissigillare la sua creatura (il labirinto è vivo ed è figura di Pitone, il
sacro serpe) – ma non può dissigillarlo: ne morirebbe. L’amore passionale vira
sempre nel sacrificio, ambisce al soffocamento: Minotauro ha opzione di potenza
sulla verginità di Arianna, per questo deve essere eliminato. Verrebbe da
chiedersi: chissà cosa sogna Minotauro.
Secondo una variante del mito riportata da Graves, Teseo avrebbe imprigionato e
condotto Minotauro ad Atene, “legato e portato in trionfo”, come un grizzly o
come l’abominevole uomo delle nevi – come un freak da cui trarre congrui
guadagni. Non si sa – secondo la nota versione del mito – se Teseo abbia ucciso
Minotauro “con la spada donatagli da Arianna o con le nude mani o con la sua
famosa clava”: le varianti conferiscono al racconto diverse accezioni, ai
personaggi diverse entità simboliche. Ma la fiaba, si sa, non accetta simboli:
azzanna.
A dire degli abitanti di Creta, per altro, Minotauro non è mai esistito; Arianna
si è innamorata di Teseo dopo che costui ha vinto le gare di lotta ideate dal
re, Minosse; Labirinto è il nome di una prigione, più letale di Alcatraz –
prigione venefica, prigione piena di serpentine, prigione-serpente.
Ardire ai penetrali del mito significa morire; infine, i protagonisti diventano
frange di carta, eventi in fumo. Torniamo a “niebo”. Così, ancora, De Angelis,
in idillio oracolare:
> “Non appena si spezza il filo che doveva condurlo fuori, Teseo vede che il
> labirinto si cancella, invaso dal vento radioso del Mar Egeo, e capisce che il
> labirinto era solo il progetto di uscire, guidato dal filo di Arianna. In
> mille fiabe, dalle saghe islandesi ai miti di Osiride, regna la grande scena
> dell’uccisione di Arianna, colei che crea la più buia prigione con l’offerta
> di una salvezza firmata. Arianna verrà ferocemente uccisa per aver scelto di
> farsi ringraziare”.
Che il labirinto sia un parto di Arianna – il luogo primigenio in cui
imprigionare l’amato, per poi farlo venire alla luce, contraffatto dalla prova –
lo pensava anche Friedrich Nietzsche. Ne scrisse, all’acme del delirio, quasi
che Arianna fosse l’esatto nome della sua follia:
> “Chi, all’infuori di me, sa cos’è Arianna! Mai finora qualcuno ha conosciuto
> la soluzione di tutti questi enigmi, e dubito che qualcuno abbia mai anche
> solo visto degli enigmi in tutte queste cose… Oh Arianna, tu stessa sei il
> labirinto: da te non si esce più fuori”.
Ringraziare: essere grati, affibbiare il colpo di grazia.
Nel suo ultimo libro – a tensione di testamento – La solitudine del
Minotauro (Aragno, 2023), Franco Rella sposta ancora l’asse del ragionare:
> “Teseo entra nel labirinto, entra nell’enigma partorito dalla gola del
> Minotauro. Un enigma senza fondo che certamente era sfuggito a Teseo: Abgrund,
> abissale, come suggeriscono i mistici tedeschi o addirittura più che
> abissale, Ungrund, senza fondo. Arianna aveva capito? Lo aveva almeno
> percepito? Lei ha spinto l’ignaro, ottuso Teseo perché con la spada o, come
> dicono, con la clava, chiudesse l’abisso, mettesse un fondo a ciò che non ha
> fondo, e suturasse la ferita che si era aperta nel mondo con la nascita di
> Minotauro. Forse per questo Teseo l’aveva abbandonata, sgomento per qualcosa
> che lo sovrastava e che sentiva muoversi oscuramente come un’aura funesta che
> avvolgeva Arianna. Per questa operazione che potremmo definire di igiene
> cosmica, lei ha avuto le nozze con Dioniso e, come alcuni narrano, è stata
> assunta tra le costellazioni”.
Chissà se è davvero Minotauro l’ispiratore di Labirinto, se è davvero Arianna
“la Signora del Labirinto”, creato dalla laboriosa intelligenza del filo,
un’intelligenza-vipera – la trama. Di certo, dopo la prova Teseo non è più se
stesso: il suo cuore monolite si è frantumato, si è fatto labirintico. Qualcuno
potrebbe dire: è Labirinto il vero protagonista del mito, la sola cosa viva; e
Dioniso se ne va con lui, legato al filo, cioè al guinzaglio, quasi fosse uno
dei suoi sgherri ghepardi. Lo senti ancora trottare. Lo senti soffiare.
Quanto al poeta: ci piacerebbe fosse Minotauro, Labirinto o Arianna. La fiaba
non specifica: è uno dei ragazzi offerti in dono al mostro; l’articolata
prigione è figura delle sue viscere.
*In copertina: M.C. Escher, Bond of Union, 1956
L'articolo “Solo ciò che è stato annientato è meraviglioso”. Ipotesi intorno al
Labirinto (cioè: di serpenti e di fiabe) proviene da Pangea.