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Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori)
L’occupazione va avanti ormai da tre giorni e il liceo in cui insegno — un edificio di fine anni Sessanta, grigio e rosso scuro, incastrato al limitare del quartiere Isola, quello di Niguarda e viale Jenner — sembra quasi un animale che muta umore al passare delle mezze giornate. Ogni piano ha una storia diversa: un gruppo discute di diritti civili, due classi suonano senza sosta, qualcuno cerca un proiettore introvabile mentre qualcun altro scrive slogan con pennarelli colorati e mezzi scarichi; c’è poi sempre chi attraversa il corridoio a passo svelto con la testa bassa sul telefono o chi, seduto sulle piastrelle dell’atrio, gioca a carte per ingannare l’attesa bevendo un succo confezione famiglia. Girando per la scuola capita che al brusio della vita in corridoio si sostituisca un silenzio da edificio deserto carico dell’odore di sigarette e di marijuana che aleggia lontano dalle finestre socchiuse; ma basta un niente, una porta che sbatte, una cassa che riparte in lontananza, perché l’edificio torni a vibrare con il suo ritmo insolito di questi giorni. Da due mattine le giornate passano così. Oggi decido di salire ai piani non coinvolti dalle attività degli studenti, nell’aula che mi spetta a quell’ora, nella speranza — poco convinta — di trovare almeno uno spazio che somigli a un riparo o un’isola dove potermi concentrare. Guardo l’orologio a muro in sala docenti e deduco che devo andare in 2E. Non ne sono entusiasta, perché so che quell’aula non è mai ben riscaldata: i termosifoni funzionano a singhiozzo e il freddo si insinua sotto i pantaloni, tanto che a fine ora ci si ritrova spesso intirizziti, tranne i pochi accalcati intorno all’unico calorifero che irradia un caldo beffardo, inutile per tutti ma insopportabile e fastidioso per chi gli è addosso. Sono vestito come mi pare di esserlo tutti i giorni: camicia, oggi bianca, maglione, oggi verde scuro, sneakers, sempre bianche; ho con me lo zaino con il laptop, la Moleskine chiusa dal suo elastico nero, qualche foglio per gli appunti e un pacco di compiti da correggere, l’iPhone tra la tasca e la mano, in continuazione. Fuori, Milano è ingrigita da una pioggia non battente ma ostinata, una di quelle che fanno sembrare tutto più pesante e fanno camminare i passanti in fretta, in fuga; qualcuno dice che forse nevicherà, anche se in realtà non avrebbe dovuto nemmeno piovere. Le auto sollevano schizzi passando sulle pozzanghere, e su alcuni balconi si intravedono già delle luminare accese, destinate più a rispettare una scadenza commerciale sempre anticipata che a evocare un sentimento reale; sono luci che non aggiungono nulla e non scaldano. Il Natale non è ancora nei pensieri di nessuno e non sono questi promemoria coercitivi a regalare un anticipo di festa: a Milano lo spirito natalizio – come si misura ormai? corsa ai regali? voglia di rallentare? – arriverà solo più tardi, con Sant’Ambrogio, i mercatini, il vin brulé e la Prima della Scala, fino ai nuovi riti più prosaici del Black Friday o della prima sciata di stagione.  Io sento ogni anno la stessa nostalgia: come se il Natale restasse sempre un po’ sfocato da adulti, come un’immagine che ricordavo più nitida, e invece sfugge. Forse per questo, da anni, provo a scrivere un racconto di Natale, e ogni volta fallisco, ma puntualmente ci riprovo, perché ho sempre amato leggere storie ambientate a Natale, così come mi piace ora raccontarle agli studenti, stupirli con la proposta di letture natalizie senza un compito allegato, senza un riassunto cui pensare o un’analisi da studiare, sperando persino di poter dare loro un argomento di conversazione per le feste, o una buona idea regalo: un libro di un autore che è piaciuto, un guizzo letterario. Certo che conoscere i racconti, leggerli e proporli è una cosa, scriverli è un altro mestiere, e il paradosso è che non si possono scrivere a dicembre: i racconti di Natale nascono altrove, in estate, o in un giorno qualunque, quando non ci pensi e forse non ne senti nemmeno il bisogno. Poi, a dicembre improvvisamente vengono buoni. Tutti, tranne quello mio che non c’è mai. Così, mentre salgo al secondo piano, penso che forse questo venti novembre, in una scuola occupata, lontano da tutto ciò che ricorda una festa, potrebbe essere il momento giusto per provarci di nuovo.  Apro la porta della 2E, contando di trovarla deserta. L’aula è immersa in una penombra irregolare: la veneziana accanto alla cattedra è ancora rotta e lascia intravedere un pezzo di Milano con i tetti bagnati, gli alberi ormai spogli e le automobili che si confondono tra quelle parcheggiate e quelle intrappolate nel traffico. Faccio un passo, accendo la luce cercando con le dita il pulsante alla parete e mi blocco, colpito da una presenza che non so spiegare. Tra i banchi più lontani dai vetri, alla mia sinistra, una donna minuta indossa un vestito che sembra uscito da un ricordo troppo vivido perché sia immaginato, un vestito semplice con un grembiule sottile, e tiene tra le mani una torta avvolta in un panno, pronta per essere spedita “a qualche sconosciuto che ne ha bisogno” – mi dice, terminando con parole sue un mio pensiero. La riconosco: è Sook, leggo sempre di lei; è la cugina di Truman Capote, la protagonista del suo racconto di Natale più bello. Mi sorride, e il suo sorriso sembra sciogliere un poco il freddo dell’aula. Accanto a lei, seduto su un banco, Paul Auster fa girare una moneta tra le dita, facendola brillare sotto il neon che tremola per un attimo sopra di noi; mi osserva con la sua calma che sa di storie infinite e mormora che «è tutto un trucco, ma a Natale i trucchi contano», come se stesse citando il suo stesso racconto mentre lo vive. Dietro, quasi nascosto nell’ombra, un vecchio con la barba sfoglia un registro di classe come fosse un libro mastro capace di contenere ogni bilancio morale del mondo: non è Charles Dickens, ma il suo Scrooge, il primo, quello rigido, il più umano e il meno redento, semitrasparente come se l’aula stessa lo consumasse. E poi vedo oltre questi tre: contro il muro, appoggiata senza custodia, c’è una chitarra acustica. Accanto a essa, con le mani infilate nelle tasche del cappotto e una sigaretta spenta tra le dita, c’è Francesco De Gregori. Porta degli occhiali con le lenti sfumate, il volto è segnato da una barba bianco-rossiccia curata e se ne sta lì con la naturalezza di chi stava aspettando di parlare. Si stacca dal muro e mi saluta con un “Ohé professore” appena accennato, “stiamo provando un racconto di Natale”, e aggiunge che siccome a me non riesce mai, sono venuti loro a darmi una mano. Poi si volta verso la finestra e aggiunge, quasi tra sé e sé, che certe storie non vogliono essere scritte nel momento giusto, ma compaiono quando meno te lo aspetti. “Quello che non so, lo so cantare – ricordi?” Ed è mentre lui si sposta che, dietro la sua figura, vedo un bambino: magro, gli occhi scuri, le scarpe fradicie, la felpa troppo leggera per il gelo di quella mattina, lo zaino che gli scivola dalla spalla. Non ha nulla del fantasma o del personaggio inventato: è proprio un bambino, troppo giovane perché sia uno dei miei studenti, ma allo stesso tempo sembra somigliare a tanti di loro. Per un attimo mi sembra di riconoscere chi di solito siede dove sta lui ora, un attimo dopo è un bambino di Gaza con gli arti mutilati, poi me stesso da piccolo, poi mio figlio, poi mia figlia, e infine uno sconosciuto che potrei avere incrociato per strada senza mai accorgermene. Questo bambino, penso, è tutti e nessuno, ed è lì: è un prisma vivente che rimanda il volto del mondo attraverso le sue sfaccettature e le sue crepe, e forse è proprio questo scorgerlo che rende il Natale possibile. Lo guardo e lui mi dice soltanto “sto aspettando”, e quando gli chiedo che cosa aspetti, risponde “tutto”, come se quel tutto comprendesse anche la sua storia taciuta, il suo Natale mai raccontato. A quel punto De Gregori, in piedi dietro di lui, gli appoggia una mano sulla spalla e mi indica il bambino con un semplice cenno del mento e del viso, un gesto quasi impercettibile e chiarissimo. È lui – sembra dirmi – è lui il tuo Natale. E in quell’attimo mi torna in mente che proprio in quella stessa aula, un anno prima, quando era la 5C, avevo letto e raccontato agli studenti Capote, Auster, Dickens, Andersen e O. Henry, e dopo di loro avevo fatto ascoltare tre brani natalizi di Francesco De Gregori, evocandoli tutti con l’entusiasmo che mi prende sempre quando parlo dei racconti di Natale che amo, e che ogni anno provo a scriverne uno senza riuscirci. Ora tutti gli autori e le loro storie sono davanti a me, e a me tocca. Dal corridoio arrivano voci, passi, il rumore di un banco trascinato: qualcuno forse sta per entrare. Dentro di me cresce una certezza limpida, quasi incontestabile, che ciò che sto vivendo non può svanire soltanto perché un rumore interrompe la quiete. Chiudo la porta con naturalezza e decisione insieme, difendendo questo istante fragile come si proteggerebbe il segreto di Babbo Natale ai figli che, diventando grandi, iniziano a fare domande difficili. Quando mi volto di nuovo, gli autori e i personaggi sembrano ancora lì, ma più luminosi e più leggeri, come se stessero concedendo a me — e solo a me — la possibilità di trattenere ciò che serve davvero per scrivere, mentre il resto può dissolversi senza rumore. Il bambino, però, rimane immobile: è presente come un banco, reale come una domanda cui non si può sfuggire. «Lo scrivi?» chiede, e la sua voce ha qualcosa di gentile e insieme irrevocabile, come se la domanda non fosse rivolta soltanto a me, ma anche a tutte le versioni di lui che ho intravisto un istante prima. Poso lo zaino, apro l’agenda, accendo il laptop, sento la penna tra le dita: sembra tutto pronto, come se questo momento non fosse solo un incontro inatteso, ma la soglia che cercavo da anni. Intuisco ora che il Natale, prima ancora di essere una festa, è una ricerca ostinata di bellezza e di verità, un tentativo di ritrovarsi in uno sguardo verso l’altro, un modo per tornare al punto in cui tutto è nuovo e possibile.  Sì, lo scriverò: lo scriverò perché è già qui, perché è già accaduto, perché il racconto nasce proprio adesso, in quest’aula fredda e in una scuola occupata, dove un bambino che porta dentro di sé tutti i natali del mondo mi guarda in attesa e mi concede la possibilità di trasformare questa attesa in parole. Il Natale, comprendo qui e ora, non è un luogo, né una data: il Natale è un bambino da proteggere e che salva, da aiutare e che cura, da sfamare e che nutre, da educare e che insegna.   Il Natale è bambino. E allora sì: il racconto sta arrivando. Finalmente. Marcello Bramati *Marcello Bramati ha pubblicato, tra l’altro, “Leggere per piacere” (Sperling & Kupfer, 2017) e “L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori nella letteratura e in classe” (Mimesis, 2024). Insegna, ha due lauree.  **In copertina e nel testo: opere di Mervyn Peake (1911-1968) L'articolo Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori) proviene da Pangea.
December 23, 2025 / Pangea