L’occupazione va avanti ormai da tre giorni e il liceo in cui insegno — un
edificio di fine anni Sessanta, grigio e rosso scuro, incastrato al limitare del
quartiere Isola, quello di Niguarda e viale Jenner — sembra quasi un animale che
muta umore al passare delle mezze giornate. Ogni piano ha una storia diversa: un
gruppo discute di diritti civili, due classi suonano senza sosta, qualcuno cerca
un proiettore introvabile mentre qualcun altro scrive slogan con pennarelli
colorati e mezzi scarichi; c’è poi sempre chi attraversa il corridoio a passo
svelto con la testa bassa sul telefono o chi, seduto sulle piastrelle
dell’atrio, gioca a carte per ingannare l’attesa bevendo un succo confezione
famiglia. Girando per la scuola capita che al brusio della vita in corridoio si
sostituisca un silenzio da edificio deserto carico dell’odore di sigarette e di
marijuana che aleggia lontano dalle finestre socchiuse; ma basta un niente, una
porta che sbatte, una cassa che riparte in lontananza, perché l’edificio torni a
vibrare con il suo ritmo insolito di questi giorni.
Da due mattine le giornate passano così. Oggi decido di salire ai piani non
coinvolti dalle attività degli studenti, nell’aula che mi spetta a quell’ora,
nella speranza — poco convinta — di trovare almeno uno spazio che somigli a un
riparo o un’isola dove potermi concentrare. Guardo l’orologio a muro in sala
docenti e deduco che devo andare in 2E. Non ne sono entusiasta, perché so che
quell’aula non è mai ben riscaldata: i termosifoni funzionano a singhiozzo e il
freddo si insinua sotto i pantaloni, tanto che a fine ora ci si ritrova spesso
intirizziti, tranne i pochi accalcati intorno all’unico calorifero che irradia
un caldo beffardo, inutile per tutti ma insopportabile e fastidioso per chi gli
è addosso. Sono vestito come mi pare di esserlo tutti i giorni: camicia, oggi
bianca, maglione, oggi verde scuro, sneakers, sempre bianche; ho con me lo zaino
con il laptop, la Moleskine chiusa dal suo elastico nero, qualche foglio per gli
appunti e un pacco di compiti da correggere, l’iPhone tra la tasca e la mano, in
continuazione.
Fuori, Milano è ingrigita da una pioggia non battente ma ostinata, una di quelle
che fanno sembrare tutto più pesante e fanno camminare i passanti in fretta, in
fuga; qualcuno dice che forse nevicherà, anche se in realtà non avrebbe dovuto
nemmeno piovere. Le auto sollevano schizzi passando sulle pozzanghere, e su
alcuni balconi si intravedono già delle luminare accese, destinate più a
rispettare una scadenza commerciale sempre anticipata che a evocare un
sentimento reale; sono luci che non aggiungono nulla e non scaldano. Il Natale
non è ancora nei pensieri di nessuno e non sono questi promemoria coercitivi a
regalare un anticipo di festa: a Milano lo spirito natalizio – come si misura
ormai? corsa ai regali? voglia di rallentare? – arriverà solo più tardi, con
Sant’Ambrogio, i mercatini, il vin brulé e la Prima della Scala, fino ai nuovi
riti più prosaici del Black Friday o della prima sciata di stagione.
Io sento ogni anno la stessa nostalgia: come se il Natale restasse sempre un po’
sfocato da adulti, come un’immagine che ricordavo più nitida, e invece
sfugge. Forse per questo, da anni, provo a scrivere un racconto di Natale, e
ogni volta fallisco, ma puntualmente ci riprovo, perché ho sempre amato leggere
storie ambientate a Natale, così come mi piace ora raccontarle agli studenti,
stupirli con la proposta di letture natalizie senza un compito allegato, senza
un riassunto cui pensare o un’analisi da studiare, sperando persino di poter
dare loro un argomento di conversazione per le feste, o una buona idea regalo:
un libro di un autore che è piaciuto, un guizzo letterario. Certo che conoscere
i racconti, leggerli e proporli è una cosa, scriverli è un altro mestiere, e il
paradosso è che non si possono scrivere a dicembre: i racconti di Natale nascono
altrove, in estate, o in un giorno qualunque, quando non ci pensi e forse non ne
senti nemmeno il bisogno. Poi, a dicembre improvvisamente vengono buoni. Tutti,
tranne quello mio che non c’è mai. Così, mentre salgo al secondo piano, penso
che forse questo venti novembre, in una scuola occupata, lontano da tutto ciò
che ricorda una festa, potrebbe essere il momento giusto per provarci di nuovo.
Apro la porta della 2E, contando di trovarla deserta. L’aula è immersa in una
penombra irregolare: la veneziana accanto alla cattedra è ancora rotta e lascia
intravedere un pezzo di Milano con i tetti bagnati, gli alberi ormai spogli e le
automobili che si confondono tra quelle parcheggiate e quelle intrappolate nel
traffico. Faccio un passo, accendo la luce cercando con le dita il pulsante alla
parete e mi blocco, colpito da una presenza che non so spiegare. Tra i banchi
più lontani dai vetri, alla mia sinistra, una donna minuta indossa un vestito
che sembra uscito da un ricordo troppo vivido perché sia immaginato, un vestito
semplice con un grembiule sottile, e tiene tra le mani una torta avvolta in un
panno, pronta per essere spedita “a qualche sconosciuto che ne ha bisogno” – mi
dice, terminando con parole sue un mio pensiero. La riconosco: è Sook, leggo
sempre di lei; è la cugina di Truman Capote, la protagonista del suo racconto di
Natale più bello. Mi sorride, e il suo sorriso sembra sciogliere un poco il
freddo dell’aula. Accanto a lei, seduto su un banco, Paul Auster fa girare una
moneta tra le dita, facendola brillare sotto il neon che tremola per un attimo
sopra di noi; mi osserva con la sua calma che sa di storie infinite e mormora
che «è tutto un trucco, ma a Natale i trucchi contano», come se stesse citando
il suo stesso racconto mentre lo vive. Dietro, quasi nascosto nell’ombra, un
vecchio con la barba sfoglia un registro di classe come fosse un libro mastro
capace di contenere ogni bilancio morale del mondo: non è Charles Dickens, ma il
suo Scrooge, il primo, quello rigido, il più umano e il meno redento,
semitrasparente come se l’aula stessa lo consumasse. E poi vedo oltre questi
tre: contro il muro, appoggiata senza custodia, c’è una chitarra acustica.
Accanto a essa, con le mani infilate nelle tasche del cappotto e una sigaretta
spenta tra le dita, c’è Francesco De Gregori. Porta degli occhiali con le lenti
sfumate, il volto è segnato da una barba bianco-rossiccia curata e se ne sta lì
con la naturalezza di chi stava aspettando di parlare. Si stacca dal muro e mi
saluta con un “Ohé professore” appena accennato, “stiamo provando un racconto di
Natale”, e aggiunge che siccome a me non riesce mai, sono venuti loro a darmi
una mano. Poi si volta verso la finestra e aggiunge, quasi tra sé e sé, che
certe storie non vogliono essere scritte nel momento giusto, ma compaiono quando
meno te lo aspetti. “Quello che non so, lo so cantare – ricordi?”
Ed è mentre lui si sposta che, dietro la sua figura, vedo un bambino: magro, gli
occhi scuri, le scarpe fradicie, la felpa troppo leggera per il gelo di quella
mattina, lo zaino che gli scivola dalla spalla. Non ha nulla del fantasma o del
personaggio inventato: è proprio un bambino, troppo giovane perché sia uno dei
miei studenti, ma allo stesso tempo sembra somigliare a tanti di loro. Per un
attimo mi sembra di riconoscere chi di solito siede dove sta lui ora, un attimo
dopo è un bambino di Gaza con gli arti mutilati, poi me stesso da piccolo, poi
mio figlio, poi mia figlia, e infine uno sconosciuto che potrei avere incrociato
per strada senza mai accorgermene. Questo bambino, penso, è tutti e nessuno, ed
è lì: è un prisma vivente che rimanda il volto del mondo attraverso le sue
sfaccettature e le sue crepe, e forse è proprio questo scorgerlo che rende il
Natale possibile. Lo guardo e lui mi dice soltanto “sto aspettando”, e quando
gli chiedo che cosa aspetti, risponde “tutto”, come se quel tutto comprendesse
anche la sua storia taciuta, il suo Natale mai raccontato. A quel punto De
Gregori, in piedi dietro di lui, gli appoggia una mano sulla spalla e mi indica
il bambino con un semplice cenno del mento e del viso, un gesto quasi
impercettibile e chiarissimo. È lui – sembra dirmi – è lui il tuo Natale. E in
quell’attimo mi torna in mente che proprio in quella stessa aula, un anno prima,
quando era la 5C, avevo letto e raccontato agli studenti Capote, Auster,
Dickens, Andersen e O. Henry, e dopo di loro avevo fatto ascoltare tre brani
natalizi di Francesco De Gregori, evocandoli tutti con l’entusiasmo che mi
prende sempre quando parlo dei racconti di Natale che amo, e che ogni anno provo
a scriverne uno senza riuscirci. Ora tutti gli autori e le loro storie sono
davanti a me, e a me tocca.
Dal corridoio arrivano voci, passi, il rumore di un banco trascinato: qualcuno
forse sta per entrare. Dentro di me cresce una certezza limpida, quasi
incontestabile, che ciò che sto vivendo non può svanire soltanto perché un
rumore interrompe la quiete. Chiudo la porta con naturalezza e decisione
insieme, difendendo questo istante fragile come si proteggerebbe il segreto di
Babbo Natale ai figli che, diventando grandi, iniziano a fare domande
difficili. Quando mi volto di nuovo, gli autori e i personaggi sembrano ancora
lì, ma più luminosi e più leggeri, come se stessero concedendo a me — e solo a
me — la possibilità di trattenere ciò che serve davvero per scrivere, mentre il
resto può dissolversi senza rumore. Il bambino, però, rimane immobile: è
presente come un banco, reale come una domanda cui non si può sfuggire.
«Lo scrivi?» chiede, e la sua voce ha qualcosa di gentile e insieme
irrevocabile, come se la domanda non fosse rivolta soltanto a me, ma anche a
tutte le versioni di lui che ho intravisto un istante prima.
Poso lo zaino, apro l’agenda, accendo il laptop, sento la penna tra le dita:
sembra tutto pronto, come se questo momento non fosse solo un incontro inatteso,
ma la soglia che cercavo da anni. Intuisco ora che il Natale, prima ancora di
essere una festa, è una ricerca ostinata di bellezza e di verità, un tentativo
di ritrovarsi in uno sguardo verso l’altro, un modo per tornare al punto in cui
tutto è nuovo e possibile.
Sì, lo scriverò: lo scriverò perché è già qui, perché è già accaduto, perché il
racconto nasce proprio adesso, in quest’aula fredda e in una scuola
occupata, dove un bambino che porta dentro di sé tutti i natali del mondo mi
guarda in attesa e mi concede la possibilità di trasformare questa attesa in
parole.
Il Natale, comprendo qui e ora, non è un luogo, né una data: il Natale è un
bambino da proteggere e che salva, da aiutare e che cura, da sfamare e che
nutre, da educare e che insegna.
Il Natale è bambino.
E allora sì: il racconto sta arrivando. Finalmente.
Marcello Bramati
*Marcello Bramati ha pubblicato, tra l’altro, “Leggere per piacere” (Sperling &
Kupfer, 2017) e “L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori
nella letteratura e in classe” (Mimesis, 2024). Insegna, ha due lauree.
**In copertina e nel testo: opere di Mervyn Peake (1911-1968)
L'articolo Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori)
proviene da Pangea.
Tag - Racconto
Era una notte d’autunno ferma come pietra, in cui il cielo, soffocato da nembi
plumbei, sembrava non respirare più. In quei decadenti quartieri, l’aria –
sottile e mefitica – si insinuava nei polmoni come un siero etereo e maligno, ma
Toby Dammit pareva insensibile a ogni influsso del mondo materiale. L’universo
intero era per lui divenuto un teatro desolato, illuminato appena dal chiarore
esitante d’una luna che mai trovava riflesso nel mare tempestoso e caotico della
sua mente.
Camminava a passi pesanti e incerti, tanto lungo la strada che conduceva alla
taverna quanto nei meandri oscuri del suo pensiero. Pareva immerso in un abisso
senza eco, dove le ombre – ora beffarde e malevole, ora supplichevoli –
s’intrecciavano con ciò che ancora rimaneva della realtà. I suoi occhi non erano
più strumenti di visione: erano vetrine velate, cieche, come quelle d’un emporio
abbandonato, svuotato da tempo d’ogni cosa da offrire, d’ogni vita, d’ogni luce.
Un battito cupo, sommerso, pulsava nei recessi più profondi del suo cranio: un
suono indistinto, simile al rantolo d’una morte mai compiuta, o d’una fiamma che
consuma senza spegnersi. Poi, come accade nei sogni più infausti, anche quel
battito cessò.
Nei suoi sogni – che non erano sogni ma presagi – tornava sempre lei: la sua
Morella. Ma era una presenza umbratile e di sortilegio. Una figura di velo e
silenzio, eternamente sospesa in quegli antri interiori che solo il delirio
riesce a popolare. Non parlava mai: lo guardava con occhi di vetro e tenebra,
come un’onda staccatasi da un mare antico e senza rive. Sembrava scolpita nel
gesso, una statua fissata per sempre nell’atto d’ammonire. Ma le sue parole – o
quel che di esse Toby immaginava – risonavano senza tregua nella sua mente
franta: “Tu mi hai violata, e ora è un plutonico vincolo che ci unisce… Per
l’eternità.”
Ogni passo nel regno del sogno lo conduceva più vicino a lei, e più lontano da
se stesso. La sua mente era uno specchio ridotto in schegge, e in ogni frammento
si specchiava la sua perdizione. Se Morella fosse stata solo una visione onirica
dissolta all’alba, l’avrebbe forse benedetta. Ma ella era un emblema, un
delirio, un simbolo della febbre perpetua dell’anima. Un tormento reso carne
solo per strappargliela. La malattia che la consumava anche lui. E nei sogni la
sua presenza era ancora più tormentosa, come se fosse messaggera di una colpa
che lui non poteva risarcire.
La vita di Toby, in quel tempo, si era tramutata in una sequenza di frammenti
d’inferno, un dedalo intricato di presenze spettrali che si moltiplicavano e
confondevano fino a dissolversi in un aggregato informe, al di là di qualsiasi
cognizione sensoriale. Era un delirio costante, slogata dal solco di ciò che è
reale e tangibile, e proiettata in incubi di forme vaghe e torturartici della
sua anima. Non vi era più un ordine, né un principio che potesse guidarlo
attraverso il mondo dei vivi; tutto ciò che lo circondava era ormai piegato e
stravolto dalla sua mente, scivolando incessantemente tra la sostanza e
l’irreale. La realtà – quel qualcosa che prima gli sembrava tangibile e
immutabile – ora gli appariva come una distorsione maligna, un’eco vuota che si
perdeva nell’abissale spessore dei suoi sogni febbrili e deliranti, e mentre
l’immaginazione s’impossessava di lui, il confine tra ciò che era e ciò che non
lo era si annullava, svaniva, lasciando dietro di sé un unico, indefinibile
spirito di disfacimento.
In questo magma di visioni oniriche e tormenti, un’altra figura tornava a
ripresentarsi con una presenza quasi sacra, ma al contempo impossibile da
concepire senza disperazione. Ella era Berenice, eppure non lo era, e Toby,
tormentato dal contrasto tra la sua mente che definiva, la carne percepita, e
l’anima ardentemente bramata, non era pari al dare a questa apparizione né nome
né forma, se non come un’epifania di un mondo in cui le leggi dell’umano non
avevano più alcun statuto. Non era corpo, né spirito, ma una cosa sola, eppure
l’uno e l’altro in un abbraccio mostruoso. Berenice – no, non Berenice, ma
piuttosto l’idea di Berenice – si rivelava in Toby come la quintessenza del
desiderio e della distruzione, un’immagine forgiata dall’assenza,
dall’impossibile. I suoi denti – quegli incredibili, perfetti, insostenibilmente
bianchi denti – risplendevano in lui come simbolo di una purezza assoluta e
irraggiungibile, come frammenti di un potere divino che, invece di elevare,
annientava. Ogni scintillio di essi nella sua mente era una visione abbacinante
che lo condannava a un’agonia, ne era certo, non avrebbe mai avuto fine. Non
erano denti, ma strumenti erinnici… O sigilli. Sigilli che lo legavano a un
desiderio oscuro e carnale, ad una fame che non avrebbe mai potuto essere
saziata, un appetito che bruciava d’assenza e tormento.
In uno dei suoi più recenti incubi, incubi che non erano più sogno ma continua
reiterazione di visioni infernali, Toby trovava il corpo di Morella, disteso nel
suo sepolcro, e senza pensare, senza fermarsi, mosso da un impulso che non
avrebbe potuto spiegare nemmeno se lo avesse voluto, si avventava sulla sua
tomba, riesumandola, liberandola da quella fredda prigione. Ma ciò che il suo
corpo toccava non era più Morella, era Berenice. Berenice. L’ossessione si
compiva. La figura che giaceva davanti a lui era l’esatto contrario di quello
che il nome evocava: era la carne di una donna morta, eppure viva di un’altra
forma di vita, quella che si alimentava non di sangue, ma di desiderio
inestinguibile.Toby non toccava più la morte di Morella, ma la morte di
Berenice, che pure non era mai stata viva, se non nell’abisso della sua fantasia
più contorta.
Nell’allucinato stato di quell’ultima notte, poi, aveva rivisto sua madre nel
letto di morte ed aveva avuto una timida erezione. In quell’istante di suprema
decadenza, un fremito lo attraversava: non d’affetto, non di pietà, ma d’un
impulso mostruoso, silenzioso, indegno. Ed è in quell’abisso che le figure di
Berenice e della madre si erano confuse e fuse, divenendo una sola cosa. Toby
avvertiva l’indicibile, il vergognoso, l’orrido: il desiderio di ciò che lo
aveva generato. Lì, in quell’attimo, il male, il desiderio, il peccato e
l’ossessione si erano fatte una sola cosa, e Toby non aveva più visto né la
madre né l’amata, ma solo l’orrore ineffabile di aver amato ciò che lo aveva
partorito, ciò che avrebbe dovuto elevarlo e invece lo faceva assoggettato a un
desiderio oscuro e nefando, profanatore. In quell’orrore il demone della
perversità, gli faceva bramare un passo oltre verso il precipizio, verso la
rovina di sé.
*
Nella taverna, luogo malfamato e di perdizione, l’aria greve di fumo recava risa
sguaiate e chiacchiere rumorose e moleste. Toby si sedette davanti a un
bicchiere di vino che sembrava l’unico filo di salvezza rimasto tra lui e la
follia. Lì, nella penombra di quello scantinato pieno di avvinazzati, la
Berenice del suo delirio gli si avvicinò, ma non per parlare. Gli si fece più
vicina, come se ogni passo che compiva in direzione di lui fosse un passo verso
la sua fine.
E quando il volto di Berenice si avvicinò al suo, i suoi occhi divennero
fiaccole sataniche, la bocca si spalancò e Toby vide i denti uscirne come
artigli affilati: “Mi desideri? Mi desideri ancora?”. Toby ebbe un singulto e
sgranando gli occhi tornò alla realtà con lo sguardo fisso su un avventore che
lo squadrava incuriosito dalla scena. Il silenzio fu rotto dalle squille
bronzine della Chiesa di Saint Sebastian: due rintocchi simili a scossoni nel
suo corpo stravolto. Un gatto gli si strusciò alle caviglie. Era nero come un
monito e aveva occhi di giada che lo guardavano grandi e profondi. Lo prese per
la collottola e se lo pose in grembo per carezzarlo, ma il gatto lo graffiò con
l’impeto dinamico di due artigliate profonde su una mano. Non vedeva più
dall’ira e lo scagliò lontano da sé. Quello urtò il fianco contro una colonna di
legno e si allontanò con incedere malfermo. Toby bevve ancora e ancora e poi
uscì in strada in preda ai fumi dell’alcol. I suoi passi risuonavano in modo
tetro per le viuzze del borgo. Era quasi giunto a casa ma vide un vecchio
cencioso e sporco, dal volto butterato e lo sguardo dilavato, che girava un
angolo verso di lui. Non vi badò e il vecchio lo superò proseguendo d’opposta
banda alle spalle di Toby. Ma l’orrido più ripugnante si presentò nelle
sembianze di un secondo vecchio, identico al primo, che voltò lo stesso angolo
incedendo a sua volta in sua direzione. La scena si ripeté talché poté contare
sette vecchi identici. Sentiva di perdere la ragione e corse forsennatamente
verso casa lasciandosi alle spalle quella vista insostenibile.
Giunto davanti al portone fece per cercare le chiavi ma non le trovò. Si vuotò
le tasche, frugò la giacca: niente. Dovevano essergli cadute o alla taverna o
durante la corsa. Il campanile batté tre rintocchi. Un gatto, anche questo nero,
gli si strusciò alle caviglie. La sua corporatura corrispondeva a quella del
gatto della taverna, anzi avrebbe potuto essere lo stesso, senonché aveva
un’orbita vuota come un cratere nero e un solo occhio azzurro come ghiaccio in
una notte di luna. Ne rimase inorridito. Tornò sui suoi passi. In quell’istante
comparve in sembianze umane una creatura di cui percepì malvagità estranea a
questo mondo, come un gelido refolo da lui a sé. La figura, allampanata in abito
scuro elegante si tolse la mantella dello stesso colore ma con una federa
cremisi che guizzò nella luce dei lampioni. Fece un inchino e si presentò. Disse
di essere un creditore d’anime. Un gentiluomo vecchia maniera che stringeva
patti che nessuno dotato di ragione non avrebbe potuto credere allettanti. Un
commerciante, a suo modo, solo che vendeva sogni rendendoli realtà. Era come se
lo conoscesse ma lo vedesse per la prima volta. Un sogno ormai passato bussò
alle porte della sua mente ma lo ricacciò via! Del resto la sua ragione era
sfibrata, allo stremo, febbricitante e caotica da tempo, e confondeva i sogni
con la realtà, anche per la sua grave dipendenza dall’alcol.
“Hai dimenticato queste”, disse l’uomo che gli si stagliava davanti come un
basilisco e fece tintinnare appese a due dita le chiavi di casa di Toby. Poi
aggiunse: “Hai un desiderio? Com’è vero che sei di carne e ossa, io lo
esaudirò.” Lo fissava con occhi di brace carichi di una inquieta attesa.
“Se quanto dici è vero. Riporta a me la mia amata Morella.
“Sei sicuro di quanto hai chiesto?”
“Sì” disse in modo sicuro e stentoreo.
“È già qui. Voltati.”
Morella era alle sue spalle, alta e bella, la pelle di cera e gli occhi intensi
che lo guardavano con un amore velato di angoscia. Non parlava. Restava muta e
lo fissava. Inclinò il viso un po’ di lato e versò lacrime arricciando la bocca
come se fosse sofferente di una sofferenza innominabile.
Poi disse:
“Mi sono svegliata e non c’eri. Ti ho cercato… Perché l’hai fatto?” La sua voce
era come ovatta intrisa di un liquido.
“Morella mia, di che parli?” Le si avvicinò ma lei indietreggiava.
Il commerciante d’anime si trasse di tasca un foglio e lo lasciò cadere a terra.
Toby guardò sul marciapiede e vide che era un foglio piegato, simile a un
sottile cencio di carta lisa.
“Raccogli quel foglio. Leggilo, mio amato, creatura infelice,” disse Morella in
un sussurro gorgogliante.”
L’uomo nerovestito aveva un ghigno feroce stampato in faccia:
“Diciamo che quella è una copia del predente accordo. Leggi, leggi pure
miserando!”
Lui corse con gli occhi sulle righe e capì.
Le righe parevano vergate con grafia elegante nel sangue ormai secco e brunito:
Bene. Il patto è compiuto. Hai promesso: dovrai restare nella tua dimora con
Morella almeno fino al terzo rintocco di questa notte e poi sarete sempre
insieme, felici, la sua malattia regredirà e avrete un futuro assieme. Facile,
no? Ma, bada bene, se non rispetterai il patto i tuoi incubi peggiori si faranno
carne nella tua amata Morella, col suggello del destino della Berenice che
sempre sogni. E tu sai cosa hai fatto e continuerai a fare a Berenice. La tua
anima sarà dannata nella colpa. Per sempre.
Il viso di Morella si fece una smorfia di terrore e pena, spalancò la bocca e un
rivo denso e rubino le scese le labbra: non aveva un solo dente.
Il misterioso commerciante d’anime aprì la mano destra e ne rovesciò il
contenuto sul piancito: ne cadde uno spicinio di denti macchiati di sangue.
“Ma… Ma Berenice mi appariva solo in sogno! Non è reale, io non ho colpa, non
l’ho fatto davvero!”
“Hai la tua Berenice nel corpo di Morella. Prenditela e affoga nella colpa!
L’hai sempre desiderata, in fondo. O no?”
Improvvisamente ricordò tutto. Si era svegliato nel letto accanto a Morella come
con la vivida traccia mnemonica di quello che credeva esser stato un
incubo. Era davvero sicuro di aver sognato tutto? Ma non importava più: sogno o
realtà, tutto si compenetrava sinistramente, come in una farragine di attimi
indistinguibili. Sul tavolo di cucina un foglio in evidenza campeggiava come
un’azzurra, viva bestiola alla luce lunare filtrante dalla finestra. Un richiamo
tenace come una voce da un lembo d’Aldilà lo spingeva verso il foglio, come se
fosse un oggetto sacro e importante. Vi era posto sopra un calamaio come per
metterlo in evidenza. Il richiamo dell’alcol però l’aveva subito rapito e
distratto torcendogli le budella, e si era recato come ogni sera alla taverna
per lenire il suo tormento nell’alcol. Morella dormiva, serena, con volto
bambino, per la prima dopo tante notti di agonia. Le aveva baciato candidamente
la fronte che per una volta non scottava. Felice se n’era compiaciuto ed era
andato dietro alle lusinghe dell’alcol. Come ogni sera. Un rintocco dal
campanile della piazza era risuonato cupo nell’etere.
Non è la vita tutta un sogno dentro al sogno?
Massimo Triolo
*In copertina: poster di “Toby Dammit”, episodio filmato da Federico Fellini da
“Tre passi nel delirio” (1968), tratto dall’opera di Edgar Allan Poe
L'articolo Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo,
“Caleidoscopio-Poe” proviene da Pangea.