La crisi dei costumi, il triste scomparire del paesaggio, fisico innanzitutto,
ma anche umano, l’arte priva di qualunque riferimento storico o letterario, il
disagio rassegnato di far parte di una razza in estinzione: Mario Praz
(1896-1982), maestro solitario e indimenticato, di questo sentire fu campione,
eroe supremo. L’americano Edmund Wilson, che lo considerava artista unico, in
riferimento alla categoria del “prazzesco” – specifico macabro e bizzarro,
grottesco e incongruo della sua opera di grande saggista –, aveva trovato,
infine, le parole giuste per definirlo: the Genie of the Via Giulia (dal luogo
della residenza in cui aveva preso a dimorare molti anni prima). E Alberto
Arbasino, amico intimo, impegnato a sua volta nei Ritratti italiani a tracciarne
il profilo umano sotto la maschera del professore un po’ arcigno di Letteratura
inglese alla Sapienza, traduceva giustamente quel ‘genie’ in genietto,
spiritello demoniaco, con tutte le connotazioni del caso.
Del resto, sia detto con rispetto, un po’ mostruoso Mario Praz lo fu senza
dubbio, specie se si considera l’elegante e terrifica ‘Casa della Vita’ romana,
ubicata prima a Palazzo Ricci e poi a Palazzo Primoli, che ancora Arbasino, in
pagine di pura devozione, ricorderà come
> «un luogo di vertiginosa densità intellettuale che si sprigionava e protendeva
> da ogni quadro e lampadario e vetrina e ‘canefora’ e ‘poudreuse’ e
> ‘barcellonnette’ quando il tè era servito nel salone fra le due monumentali
> librerie, e il padrone di casa incominciava a guidare una indimenticabile
> visita in tutte le stanze, e dagli oggetti affioravano a catene e a grappoli i
> ricordi, e gli oggetti erano più vivi delle persone».
Ora, a ricordare ancora una volta di Praz i funambolismi e le scorribande del
pensiero, lo scintillio raro di tener assieme saperi disparati in un pugno
unitario di cultura enciclopedica – “Ho una mentalità simile a quella dei
secentisti: quanto maggiore è la lontananza fra due oggetti, purché vi sia un
punto di contatto, tanto più mi attrae il paragone”, diceva –, giungono questi
articoli usciti su “Paese Sera” tra il 1960 e il 1972, raccolti
in Alcibiade (Aragno, 2024, prefazione di Alvar Gonzalez-Palacios) dal solito
Giuseppe Balducci (dopo i precedenti Misteri d’Italia, Omelette soufflée à
l’antiquaire e Collezionare libri, sempre editi da Aragno) cui si deve tra
l’altro un’introduzione da leccarsi i baffi.
Da questi scritti, certo minori ma tutt’altro che trascurabili, nati da letture
che l’autore recensiva per il supplemento “Libri” (ideato da Gianfranco Corsini)
del quotidiano romano vicinissimo ai comunisti con il nome de plume di Alcibiade
(in onore del nonno materno che lo voleva, invece, impiegato nella professione
forense), affiorano comunque scampoli di bellezza e bizzarria. Lampi che
eccedono i ristretti confini della materia letteraria e che invadono l’arte, la
storia, il gusto, insomma la vita. Secondo il procedimento comparatistico che
gli era particolarmente caro («il mio guardaroba intellettuale contiene pochi
capi interi»), ovvero quello di andare a caccia di richiami, associazioni,
analogie, accostamenti, per poi mettere tutto in fila e capirne il senso solo
quando il gioco, soltanto allora, avesse assecondato i capricci della sua
immaginazione (si vedano i celebri lavori su Petrarca, Dante e T.S. Elliot, per
citare alcuni esempi). Un fare critico di cui Renè Wellek, comparatista
anch’egli di livello, tesserà le lodi in Storia della critica moderna, ponendolo
al pari della poesia perché come questa in grado di creare mondi, tracciare
itinerari. E gli articoli di Praz su “Paese Sera”, nel loro piccolo, fanno
proprio questo: spaziando dalle porcellane e maioliche italiane dell’Ottocento
all’arte romantica, dallo splendore ed erotismo nelle miniature persiane alla
Napoli settecentesca capitale della seta, dal teatro elisabettiano (passione
condivisa con l’amico Emilio Cecchi) all’eredità linguistica e culturale di
Gabriele D’Annunzio, dai teatri e le feste nel Cinquecento ai misteri della
cultura pagana. Sono elzeviri, com’è evidente, di una civiltà prossima alla
scomparsa, scritti dal suo ultimo testimone, che, da vero e grande scrittore – a
quando la ristampa de La casa della vita, cara Adelphi? Che non sarà Il
gattopardo, d’accordo, ma era pur sempre lì a contendergli lo Strega nella
finale del ’58 – non rinuncia, anzi vi indugia volentieri, a incursioni
autobiografiche, al giudizio morale nei confronti della modernità, alla più
completa identificazione con le cose del mondo, senza abbandonare mai l’ironia
insegnatagli dall’umorista inglese Charles Lamb – sua ‘scoperta’ e maestro.
Come nel caso di Roma, alla quale Praz dedica tra le pagine più ispirate e
malinconiche di tutta la raccolta, e dove gli obelischi, le piazze, il papa, il
barocco appartengono ad una città da lui stesso definita ‘perduta’. Quella ad
esempio delle Ventiquattro vedute di Roma dell’artista russo Andrej Beloborodoff
– preso in esame dall’autore, tra l’altro, già in un pezzo uscito sul “Tempo”
poco prima – e commentate da Henri de Règnier, «in cui l’incantato viandante
poteva, quando che volesse, appartarsi un poco dalle non molte vie battute da un
moderato traffico, e trovarsi nell’atmosfera ideale pei nobili sogni e le
esaltanti rievocazioni», tra «silenzi e rovine, in quell’inimitabile insieme di
culto e di rustico che Walter Pater tanto gustava nei luoghi che avevan visto
fiorire quell’antica civiltà».
Il dramma della Roma moderna, dice allora Praz, sta proprio nel colpo brutale e
consapevole inflitto dalla presenza umana, e della peggior specie come quella
politica, all’ideale di eternità di cui la capitale è stata a lungo
simbolo. Solo certe composizioni di Beloborodoff, ormai,
> «su Piazza San Pietro, su Piazza del Quirinale, sul Campidoglio, spirano un
> senso di sacra solitudine, quasi trasportano Roma, già così eccelsa di per sé
> […] in un’atmosfera ancora più alta, più serena, rabbrividente della presenza
> degli dèi».
Neanche Villa Falconieri, al centro di una di quelle splendide vedute, frattanto
acquisita da un Ministero, era stata risparmiata «dai moderni». Se è vero che
l’arredamento di questa bellissima villa è costituito da «resti di aste
pseudoantiquarie ed enormi tavoli dal piano di fòrmica; […] un falso tappeto
d’Oriente rosso accesso col centro verde pistacchio, un servizio di poltrone e
sofà dorati finto Luigi XVI, […] e due sgraziate torciere metalliche». Per
concludere, sconsolato, che
> «quando un Ministero, che ha tra le sue sezioni una particolarmente dedicata
> alle Belle Arti, dà tale esempio di gusto, che può più sperarsi per Roma?».
Be’, il coraggio di porsela una domanda del genere, di cui Mario Praz aveva già
a suo tempo intuito la risposta, noi non ce l’abbiamo davvero né vogliamo
darcelo. Forse per codardia. O forse perché i moderni, non solo a Roma, è da mo’
che procedono gaudenti alla distruzione di qualunque cosa ricordi loro il
concetto di eterno. Se non lo si è compreso, vuol dire che queste pagine,
ancorché tardivamente, aspettano solo di essere lette.
Alberto Scuderi
L'articolo Sia lode al “mostruoso” Mario Praz, un antidoto contro l’odierno
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