Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
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