Leggere Días del bosque (Visor Libros, 2008; Premio Loewe 2007) significa
lasciarsi alle spalle la città, il cemento, i riquadri di cielo, per immergersi
in un’atmosfera che al primo sguardo non appartiene a chi vive respirando
gas. Bosco, fiume, cervo, luce, albero, uccelli, foglie, oscurità. Con questo
vocabolario Vicente Valero ci chiede di entrare in un altro ritmo e in un’altra
visione, dove l’estraneità iniziale a poco a poco si dissolve, si raccoglie e si
mette in ascolto.
Per avvicinarsi all’autore non si può tralasciare la sua nascita a Ibiza nel
1963, pervasa di tutto quello che un’isola porta in sé. L’insularità si presenta
infatti come un fattore significativo per la sua poesia e la sua opera
letteraria, di cui egli stesso prende coscienza pienamente nel momento in cui si
allontana per completare gli studi a Barcellona (perché solo lasciando un’isola
– afferma – si comprende cos’è un’isola). Alla domanda riguardo a come la
propria origine isolana abbia influito sulla sua opera, Valero ha risposto:
«L’unica cosa che oso dire è che in un’isola la natura si esprime in una forma
smisurata. Un’isola è di per sé un fenomeno prodigioso della natura,
paragonabile soltanto ai deserti e alle montagne più alte. L’artista insulare
diventa interprete di quell’eccesso e di quegli estremi. I colori e i profumi,
il sole, le notti, il mare: tutto si dà come un’inondazione, come un’onda
immensa e violenta. L’artista non sfugge all’onda, ma non si lascia trascinare a
riva: quando la vede arrivare, vi si tuffa a capofitto, la trapassa. Il suo
corpo lavato da quest’onda è l’unico tema».
Chiunque trascorra tempo, vita e pensieri su un’isola sa bene quanto ogni
elemento naturale si esprima nella sua forma estrema, conosce ogni
contraddizione o armonia tra furia e bonaccia, tra confine e infinito, voce e
silenzio, tutta la potenza racchiusa in uno spazio delimitato. Sa anche –
ricordando Pavese – che dovrà fare i conti con quel limite, come un orizzonte da
combattere o da accettare.
Il poeta si addentra dunque in questa natura potente con i sensi allertati e
ascolta, vede, sente, impara un nuovo linguaggio, perché la parola poetica
coinvolge tutti i sensi per Valero, e più ancora può agire come un senso
ulteriore del nostro corpo.
Alla luce di questo riferimento possiamo avvicinarci all’opera dell’autore
spagnolo, che è narratore, saggista, traduttore, ma soprattutto poeta, a partire
dal primo libro di poesie Jardín de la noche (El Serbal, 1987). La sua ultima
opera, El tiempo de los lirios (Periférica, 2024) si presenta invece nel profilo
un quaderno di viaggio: Valero percorre l’Umbria per incontrare, attraverso un
dialogo tra arte, cultura e natura, Francesco d’Assisi, proprio colui che in
forma altissima ha vissuto e riscritto la relazione di fraternità e consonanza
con ogni elemento del creato.
Ma cosa può essere el bosque per un poeta a cavallo tra due secoli accelerati
come i nostri? Se ci sentissimo ancora di pronunciare «nobis placeant ante omnia
silvae», che significato avrebbe?
La lettura de I giorni del bosco ci immerge in un ambiente naturale che non si
dà come un paesaggio fuori di noi, una bellezza con cui entrare in relazione e
di cui semplicemente godere, come egli stesso ha affermato:
> «non potevo situarmi di fronte e contemplare come un visitatore o un turista
> contempla o fotografa un paesaggio, ma parlarne dall’interno, lasciar parlare
> il mio corpo durante il transito per quel mondo solare, pieno di boschi
> riarsi, di segni millenari, invecchiati, di spiagge e sentieri, di notti
> profonde e albe umide. Credo che la mia poesia cerchi di esprimere una
> pulsione in cui i sensi, la memoria e la forza stessa degli elementi diventano
> una cosa sola, una sola verità».
Questa prospettiva unitaria supera quell’antropocentrismo predatorio che nel
libro è rappresentato da figure che creano un silenzio oscuro e mortale, la
morte del pensiero: il cliente, l’aviatore, il cacciatore che conosce le parole
ma il suo pensiero è lo sparo, e muore con la preda. Figure che non sono in
grado di incontrare e decifrare la parola dei luoghi né di vedere il cervo,
«quello che si lasciava vedere», la cui parola ogni volta è apparizione.
Il nostro bosco non è uno spazio idilliaco, ma un luogo di spari e
contraddizioni, di coltelli e sangue, di paura come lupo mite che ha perso il
branco, dove il dolore e la furia del vento si fanno palpabili. Allo stesso
tempo, è proprio qui che le parole scorrono come un fiume, parole che si
immergono e rinascono rinnovate, qui il poeta percepisce la sorgente che ha in
sé, il suo corpo, la sua mano diventano una fonte. Nell’osmosi tra parola, corpo
e bosco si rivela «questa lingua antica che risana».
Nel bosco di Valero, si fa strada la figura del caminante, che nel suo andare si
prepara alla visione nell’atto proprio di riconoscere di essere fatto della
stessa materia del bosco che attraversa. Il sangue che il viandante lascia sui
biancospini è verde come erba e si rinnova con la fioritura, le orme lasciate
sul terreno «sono come membra in più del suo corpo (…) sono polvere e fango –
come una qualsiasi altra parte del mio corpo», leggiamo nelle Dichiarazioni, le
ventiquattro prose poetiche che costituiscono la seconda parte de I giorni del
bosco, ognuna delle quali – in corrispondenza alle ventiquattro poesie che
aprono il libro – riprende e approfondisce le visioni e gli squarci che la prima
parte del testo – Poesie appunto – offre.
Colmo di stupore e solitario è l’animo del poeta, «nemmeno i suoi demoni lo
accompagnano», mentre si avventura nel «bosco segreto delle parole» dove con
forza analogica si avvicinano realtà che sembrano lontane ma che, accostate,
rivelano nuovi significati, si misurano con l’indecifrabile e l’indicibile,
perché, secondo Valero, è solo la parola poetica ciò che può proteggerci da
quanto non può essere detto o compreso. Qui le parole sono alberi elevati e
misteriosi: gli alberi sognano, le foglie sono «parole sagge e pronunciate a
bassa voce».
Acuta è la percezione del viandante, vedere, ascoltare, immergersi, toccare,
palpare sono i suoi verbi:
così può nascere quella «oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le
mani».
Immerso nel reale, Valero è un poeta che continua a credere nell’ispirazione che
si manifesta lungo un cammino di avvicinamento, mai del tutto compiuto, verso
una verità che può darsi solo per frammenti. Ma qualcosa può accadere in questo
spazio-tempo del cammino, la sete del poeta-caminante può calmarsi, può apparire
un segno che illumina, una ráfaga dice il poeta, un lampo che mette a fuoco
l’intuizione di quella verità che proprio la realtà ci sta rivelando.
Accogliere la forza animistica della parola di Valero, parola allo stesso tempo
concreta, sanguinante, sussurrata e stupefatta, significa accogliere la sua fede
nella parola, che scaturisce da una continua ricerca nel luogo in cui il
«mistero è tangibile», dove luce e ombra, oscurità e chiarezza si rincorrono,
dove anche la caduta è luminosa. Qui respira l’emboscado, come scrive l’autore
nella terza e ultima sezione Discorso in versi che conclude il libro, un uomo
nuovo, una figura inavvertita, tutt’uno con la materia infinita del bosco e
delle sue parole.
Cinzia Thomareizis
*
Poesie
I
Sono parole le foglie di questo albero di fico.
Parole sussurrate.
Il merlo le convoca e le pronuncia con la sua lingua nera
dell’alba. Io credo ancora in voi.
Credo nell’aria pallida di questo inverno e nelle foglie senza luce
che ora scivolano nude, scorrono come parole
ultime del mondo:
oscure messaggere di una più profonda e perfetta chiarezza.
II
Un giorno, nel bosco segreto delle parole, il cervo che avevo visto, quello che
si lasciava vedere, laggiù dove non ci sono strade né sentieri ma solo erba alta
e rami sparsi, mi disse che il fiume della notte illumina i disperati, a patto
che immergano senza paura il loro dolore.
III
L’aviatore non è come un uccello.
L’aviatore che ne sa, per esempio, di questo fango.
Di queste pietre azzurre sotto l’albero.
Che ne sa l’aviatore di queste radici.
Di questi rami putridi, di queste foglie bagnate:
così piacevoli e soffici.
VI
Sogna di essere stato una goccia di pioggia, un padre per gli usignoli.
Sogna anche di essere stato una lanterna nella notte, una dimora per gli esuli,
un’ombra per i viandanti a mezzogiorno.
Adesso che sta per essere abbattuto, sogna di essere stato un albero l’albero.
IX
Parole che abbiamo visto immergersi solitarie ogni notte nelle acque oscure di
questo fiume.
Il cervo che avevo visto allora beveva, lavava le sue ferite invisibili.
Nel buio una nuova lingua rinasceva, fremeva come un animale notturno, divampava
fino all’alba.
XI
Una volta sulla tavola del tramonto vidi anche dei bicchieri vuoti, i frammenti
azzurri di un pane sconosciuto. C’era sangue sulla tovaglia tessuta dagli dèi,
coltelli bruciati dal sole.
Mi avvicinai e mangiai. A quel tempo mi nutrivo soltanto di ferite oscure, di
antichi e violenti sacrifici.
XVII
Il vento cerca sempre il bosco: sa che qui il suo dolore sarà libero, potrà
gemere, erompere, far rabbrividire la terra.
Sa che qui potrà dichiarare il suo tormento:
il piacere della sua ira.
XX
Oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani, palpando la membrana
appiccicosa dei nidi, la crescita del muschio e della ragnatela, le vene bianche
delle foglie morte, l’aridità del formicaio.
XXI
La paura era solamente un povero lupo che correva mite e disperato verso nessun
luogo, un animale perso sotto la pioggia nera del bosco: solo un’ombra assente e
infelice del branco.
XXIII
Ho lasciato ogni giorno il mio sangue sui biancospini.
Il mio sangue in questo bosco è verde.
Quando i biancospini fioriscono, anche il mio sangue si rinnova.
Così ho imparato a fiorire.
Così ho imparato a contemplare il mio sangue
XXIV
Una goccia del mio sudore nel bosco farà crescere l’albero della sete. All’ombra
di quest’albero un giorno forse riposeranno altri viandanti.
F0rse, all’ombra di quest’albero, un giorno le parole del bosco saranno di nuovo
ascoltate, quel cervo che vidi sarà visto di nuovo.
Che una goccia del mio sudore sia questo.
*
Dichiarazioni
II
In questo nostro bosco di parole il cervo è servo del fiume e della luce, si
abbevera a un’acqua che rischiara. Ciò che dice e ciò che tace lo sa solo il
viandante, colui che sale sempre più in alto, colui che un giorno riuscirà a
vedere il cervo. Ogni sua parola è un’apparizione, un regalo del bosco.
Di notte – dove non ci sono strade né sentieri – il fiume scende con la sua
luce, le sue fiamme umide, le sue voci cristalline. Vengono allora ad
abbeverarsi di consolazione quelli che si sono persi nel bosco: gli uomini che
si immergono. Nel loro dolore si trova anche pace.
Il cervo è una trasparenza e un riflesso dell’acqua, un’ombra fuggita dal
giardino del salmista, uno strano evento. Un cervo ha sempre sete, per questo
conosce il cammino dei disperati, le orme riarse degli altri fiumi. Per questo
nella mia sete l’ho visto anch’io.
VII
Nessuno accompagna il viandante. Nemmeno i suoi demoni lo accompagnano quando si
mette in cammino, quando si addentra nel bosco.
È questa la solitudine del viandante solitario. È questo l’orizzonte nitido e
virtuoso di ogni suo cammino.
XV
Ho chiesto al bosco che si prenda cura della mia anima, che la bagni con essenze
luminose, con le sue resine rosse. Non desidero un’anima pura: solo un’anima che
profumi di rami bruciati dal sole, di nido e di muschio, di fiume senza ritorno.
Ho anche chiesto al bosco che renda la mia anima un recipiente migliore, creta
utile e bella, di cui si possano servire gli uccelli e i viandanti, i cervi e le
genette. Perché tutti un giorno possano bere acqua misericordiosa, acqua
dell’infinito.
Ho anche chiesto al bosco il calore della sua bocca, perché in questo modo la
mia anima possa per sempre sentire il fiato umido della luce, la saliva fertile
delle stagioni, il fermento oscuro di ogni radice.
Non voglio un’anima pura che miri semplicemente al cielo. Voglio un’anima che
porti il suo gemito fino alla bocca del bosco e che sia salvata se possibile dai
fiumi sotterranei, dalle promesse del lichene. E per questo ho chiesto al bosco
di lambire la mia anima con la sua lingua invisibile.
XX
Anche le mie mani possiedono una loro visione del bosco, hanno imparato ad
aprire le pagine segrete e a leggervi le parole invisibili. Ne palpano
l’oscurità e la temperatura, il timore e la speranza.
Le mie mani accarezzano il miracolo del nido, la sua pelle notturna. Accarezzano
l’aria esalata dalle radici, la forza dei frutti nuovi, la scia umida e
trasparente delle lumache.
Tastano la misera luce del muschio e il brusco presentimento dei rami spezzati.
Tastano l’età della corteccia e la consistenza della resina. Tastano l’umidità
del colore verde e l’alito degli scarabei.
Accarezzano anche gli occhi dell’animale morto e palpano nel suo sguardo l’ombra
azzurra di ogni cammino, l’acqua desiderata.
Accarezzano il polso fertile e misterioso della sua decomposizione.
Le mie mani parlano allora un’altra lingua: quella che hanno imparato toccando
il tessuto del bosco, il suo mistero tangibile.
XXIV
Là dove, infine, mi siedo a riposare ogni giorno c’è un odore di lichene
bruciato, di ruta e di timo.
È un luogo che abitava in me prima di conoscerlo. È un’ombra desiderata con
dolcezza.
Sotto quest’ombra, il mio corpo è una fonte. E adesso posso anche sentire il
freddo oscuro e sotterraneo, la sorgente invisibile che risiede in me. Che le
radici e gli uccelli di passo vengano ad abbeverarsi, se lo vogliono.
Nella mia fatica ho visto altre strade, una pineta più pura. Adesso osservo il
mio sudore e scrivo queste parole che sono foglie del bosco, foglie umide che
annunciano il suo segreto.
Prima di fare ritorno, prima di mettermi un’altra volta in cammino, un sole cupo
lava il mio corpo con la sua resina bianca.
Traduzione di Cinzia Thomareizis
*In copertina: Georgia O’Keeffe, From the Faraway, Nearby, 1937
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