Qualche giorno fa, alla radio, davano Il mattino di Grieg. Alle elementari, il
maestro di musica ci faceva suonare Il mattino: gli Aulos fischiavano nell’aula,
pervasa da un improvviso odore di larici. Nulla, nella periferia torinese dove
si esercitavano quei bambini, ricordava la Norvegia o le gesta di Peer Gynt,
l’eroe scapestrato di Ibsen. Le Alpi, lontane, inaccessibili, sembravano bianche
sfingi. Secondo i pitagorici, il flauto è “troppo sfrenato” (così Giamblico) per
indurre alla contemplazione: le loro danze si sviluppano lungo le elitre della
lira. Eppure, Il mattino è una musica vitrea, traslucida, si frantuma ovunque,
come crisalidi di zucchero.
Non ricordavo che Edvard Grieg si fosse fatto seppellire in una parete rocciosa,
poco lontano dalla sua casa, Trodhaugen, presso Bergen. Il sepolcro guarda
l’oceano, assediato da felci, muschi, piante – nessuno, tranne gli uccelli
marini, può onorare il grande compositore. Grieg non voleva fiori, non voleva
pianti. Grieg è raffigurato sempre con lunghi baffi che rassegnano il suo viso a
quello di uno sparviero.
*
Il sepolcro di Grieg – e la sua poetica, da autodidatta e naïf – rimanda in me
alla poesia di Christine Lavant. Inaccessibile, vertiginosa per eccesso di
semplicità, rivolta agli elementi primi del creato – il sole e la luna, la
pioggia e la pietra – più che all’uomo. Tesa, intendo, verso l’umano, verso
quella candida ferocia, che non all’umanità: verbo che mette conifere e artigli,
che spaura l’inno in uno scoccare di frecce.
*
Nata Thonhauser nel luglio del 1915, in Carinzia, Christine Lavant – il nome
ricalca quello della valle in cui è cresciuta – è tra i poeti più eccentrici e
insondati del secolo. Figlia di un minatore e di una sarta, afflitta dalla
scrofola, da continui mali, diseguale l’educazione, presto interrotta, la Lavant
scrive come in una camera d’attesa del creato, nell’antiporta dell’Eden, di
uomini ancora indecisi tra la forma dell’angelo e quella del leone, della serpe
e del toro. Il sentire della Lavant, il suo dire scampanio, non ha mediazione
retorica, giunge dal fondaco biblico, da quel residuo d’uomo che chiamiamo
candore.
*
Sulla strada della Lavant, Rilke, il lupo orfico, che la marchia a fuoco. Lo
legge durante uno dei ricoveri, a Klagenfurt, negli anni Trenta. Christine
impara a cucire per darsi in pasto al quotidiano; scrive come una forma
dell’andare mendicando. Tentare un gemellaggio tra ago e penna, tra cucitura e
scrittura – punto intermedio: la cicatrice.
Seguono i primi rifiuti, le violente reazioni: brucia i taccuini, albeggianti
nel fuoco, tenta il suicidio, affossa nella depressione. Di lì, l’ingresso nella
casa di cura – i valligiani le danno della pazza, e lei è lì, reclina nell’aura
di santità dei marginali e dei dementi. Dopo la morte dei genitori, nel 1938 –
che è poi uno sbandarsi, un vivere senza più bende – Christine si sposa con
Josef Habernig, pittore, colto, già proprietario di terre, di trentacinque anni
più grande di lei. Usava indossare un velo, a celare il cranio.
> “Dopo la morte dei miei genitori, mi sono trasferita in una soffitta. Così,
> interruppi l’incanto. Pensai che l’ira con cui scrivevo fosse una malattia,
> volevo sedarla, non si addiceva alla povera persona che ero. Finché non ebbi
> trent’anni. Lavoravo a maglia tutto il giorno per i contadini, leggevo, mi
> auguravo – secondo i modi di nostra madre – di avere un tetto sopra il cranio
> e un posto buono per dormire. Finché un giorno, contro mia volontà, mi è stato
> imposto un volume di versi di Rilke. Lo presi per non offendere la
> bibliotecaria che me l’aveva offerto. Nulla sapevo di Rilke, non intendevo
> leggere poesie – ostacolavano il mio lavoro. Poi l’ho letto. Galoppata di
> nuvole sopra di me. Non ho fatto che scrivere versi. Giorno e notte”.
*
Miracolata da Rilke, che giunge come un dio tra le nubi – ma di Rilke, Christine
tiene l’esubero, la carcassa. Nessun vello retorico, nessun veicolo filosofico:
soltanto denti, ossa, le scattanti figure della predazione. Di Rilke, il profilo
centauro.
*
Lento, lentissimo approvvigionarsi di onori. La prima raccolta nel 1949; nel ’54
ottiene il Premio Georg Trakl. Usciranno “La ciotola del mendicante” (1956), “Un
fuso nella luna” (1959), “Il grido del pavone” (1962). L’amore per il pittore
Werner Berg le dona dionisiaca ispirazione. Christine scrive fino a trenta
poesie al giorno; finché la soglia tra vita e scrittura si deforma, si sfascia,
la donna crolla in collasso nervoso.
Di migliaia di versi si compone il canzoniere di Lavant – dissennato, diseguale,
inabile ad alcuna didattica lirica. Va amato questo sperpero di sé, questo
intenebrarsi nel linguaggio, ogni giorno, come una lotta al quotidiano. Come una
tacca sul bastone, come un intaccare la luce. Ci è stato detto di una poesia
raffinata fino all’alambicco, di poche perfettissime parole: chessò, i testi di
Eliot e di Valéry, l’opera ben ragionata di Montale, di Ungaretti. Invece,
penetrare nell’oceano fino a perdere il giudizio – fino allo scafo capodoglio.
Dunque: la scrittura continua di Lorenzo Calogero, il milione di versi di Gian
Giacomo Menon, la lirica perpetua, almeno una poesia al giorno, di Ghiannis
Ritsos. A questa indecente generosità segue, di solito, la reticenza,
l’incomprensione, il disorientamento. Ma è quello: perdersi in un’opera
immeditata e immensa, darsi alla danza. Altri vadano con il bilancino
dell’orafo, a pesare aggettivi ed endecasillabi – qui si è nel ritmo, nel gorgo
– senza poesia, non sorge il sole, nasce obliquo, mero astro-feto, infecondo.
*
> “Poesia, nemico mortale. È lei che mi ha fatto invecchiare così presto, mia
> prematura morte”.
Dopo la morte del marito, nel 1964, Christine piomba nell’abulia, nel disastro
dei nervi. Nel 1970 riceve il “Großer Österreichischer Staatspreis”, tra le
massime onorificenze conferite all’eccezionalità letteraria dallo stato
austriaco, andata, tra gli altri, a Elias Canetti e a Ingeborg Bachmann.
Christine Lavant muore tre anni dopo, in giugno. Nel 1978 esce, postuma, la
raccolta “Un’arte come la mia è solo vita mutilata”: nel titolo già si è negli
argini di una poetica che risolve, a contrario, l’estasi della “vita come opera
d’arte”. In Christine è il senso animale, l’andare con mani a maggese, a
setacciare particole e rovi.
Piaceva a Thomas Bernhard, la poesia di Christine Lavant. L’aveva conosciuta
negli anni Cinquanta, Bernhard, poco più che ventenne, quando praticava la
lirica, con toni campali, marziali, di campo (una selezione delle poesie di
Bernhard è in Sulla terra e all’inferno e Sotto il ferro della luna, entrambi
editi da Crocetti). Proprio Bernhard, nel 1987, per Suhrkamp, cura una
serratissima antologia di Poesie di Christine Lavant, da cui la traduzione di
Anna Ruchat per FinisTerrae (2022; già Effigie, 2016).
Tra le altre cose – tratte dal carteggio tra Bernhard e Siegfrid Unseld, 2009 –
Bernhard scrive che “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di
essere conosciuta nel mondo intero”. E più in particolare:
> “La Lavant era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e
> raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le
> sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più
> significativo di tutte le menzogne raccontare sulla sua estraneità al mondo,
> sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio”.
L’estranea è nel mondo ben più dei mondani, gli straniti.
Aveva quel volto ligneo, uscito dalla bottega di Bruegel, la nobiltà di una
regina di Saba in stracci – la nobiltà di chi lancia le briciole alle stelle, i
suoi piccioni.
**
Voglio condividere il pane con i pazzi,
ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,
anche la campana nel cuore,
là, dove il colombo fa il nido
e trova un minuscolo asilo
nella selva sulle acque.
A lungo ho vissuto come pietra
sul fondo delle cose.
Ma ho sentito la campana
sussurrare il tuo segreto
nei pesci volanti.
Imparerò a volare e a nuotare
e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra
lascerò la malinconia coricata nella madreperla,
ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.
Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,
le mie ali sono volate oltre il coraggio,
che s’era fatto carico dell’errare.
Voglio condividere il pane con i pazzi
là, nella spaventosa selva del colombo
dove la campana divide in tre parti il grande terrore
trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.
*
Caccia via da me la stella,
che sghignazza così, senza motivo,
tu, cane del vicino!
Dille una parola di cane!
Abbaiale contro qualcosa di cattivo,
inseguila come fosse selvaggina,
non mi serve una costellazione,
il mio Cane Minore ora sei tu!
Pensi forse che non basti
per questo cuore nero?
Colpisce alla cieca il dolore
e lo morde finché non si spezza.
Non hai fame, cane?
Andate e mangiate entrambi!
La stella s’è ritirata lontano
ora io piango senza motivo.
*
Solo un ramo secondario del sonno,
selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe
si prende cura a volte della mia anima.
Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro,
consolano quel che ancora va consolato
e benevoli nascondono ciò che sanno
mettono al mondo sogni dimidiati
cerei e senza volto
ignoranti di pazienza e cura
sciolti già al primo canto del gallo.
E tuttavia sono figli piccoli
battezzati di corsa, tutti consacrati
a colui che li ha sacrificati entrambi
come due schiavi o cani randagi
mentre il buon nobile sonno
si corica soltanto con anime illustri.
*
Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!
O sarai creatore
di ciò che è cadavere e lo rimane
e si unisce alla terra
ben più volentieri che al cielo.
Vai, continua ad ammantare i gigli
corrompi pure i passeri con il miele vergine –
io vivo di ruggine e muffa.
Tu dici che questo non mi sazia
e blateri della città di Dio
che molti conquistano con il digiuno.
Non io! Mi piace vivere nell’argilla
per diventare pietra e tuttavia
mai esserti di peso.
*
Decrepita fisso la ruota del tempo.
Come girano lentamente ora i raggi del sole!
Nessun mastro m’insegna a raggiungere lo scopo,
ma spesso sembra che io sia un’iniziata.
Le persone più vicine mi hanno consegnata
a ciò che vi è di comprensibile nelle caverne
dell’abbandono e le mie dita scivolano
lungo la scrittura ideografica che sa ogni cosa.
Come preferirei star seduta tra i papaveri
tra consolazione, speranza e un po’ di malafede
perché qui tutto ha già i lineamenti chiari
della dura verità – si muore assiderati.
*
Hai modificato tu il paesaggio tra noi.
Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni.
I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro
e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti.
Non so più su cosa cammino, né dove vado,
perché la tua voce non mi porta nessun vento,
nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame.
Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo
e la mia mano, che cerca la tua manica,
torna vuota e segnata.
Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda,
tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle.
Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare?
E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva?
Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole,
perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani?
Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio!
Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina,
e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre.
Tutto viene di lì.
Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli,
che uno di essi alla fine mi rendesse bella
per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli.
Tu avresti potuto farlo!
Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce.
Traduzione di Anna Ruchat
Da Christine Lavant, Poesie. Scelte da Thomas Bernhard, tr. it. di Anna Ruchat,
FinisTerrae, Como-Pavia, 2022.
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