
Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica
Pangea - Tuesday, April 15, 2025A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015, accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza.
Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra, rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri di un’infanzia mai più riconquistata.
Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro, spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli anni.

Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo), del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970, sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità, non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti.
La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953 contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e, malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente repressa.
Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’ d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):
“Una portaerei americana
e una cattedrale gotica
reciprocamente
s’affondarono
nel Pacifico.
Suonò l’organo fino alla fine
il giovane vicario. –
Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei
e non possono atterrare.”
Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante, e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia. Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva – con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la “coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana.

A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori, allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità, asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia – un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito, ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito, era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.

Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel 1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di annullare l’evento previsto.
Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era – aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per garantirsi una relativa immortalità.
Raoul Precht
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