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“Lingue nascenti, larve, feti, aborti”. Octavio Paz o dell’eterna lotta contro il linguaggio
Non è difficile capire perché Octavio Paz, tra i più grandi poeti del secolo scorso, sia sostanzialmente negletto dall’editoria italiana, un paria. Paz è tra i rari poeti che ci costringe a entrare in combutta con il linguaggio: non soddisfa il nostro anelito al ‘poetico’, confida nella poesia come ‘nuovo mondo’ del verbo, viaggio per enigmi in una specie di hic sunt leones della parola. Per fare un esempio tratto dal campo delle arti figurative, Paz scrive tentando una lingua inaudita, che dica l’oggi, come hanno fatto Chagall e Mark Rothko, Paul Klee e Francis Bacon. Comunque, è sempre, per selve ignote, la gran caccia del sacro.  Cosa sia questo oggi, Paz lo ha spiegato nel discorso di accettazione del Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1990, intitolato, non a caso, La búsqueda del presente.  > “L’oggi non è che la più antica antichità; è il domani e l’inizio del mondo; > ha mille anni ed è neonato. Parla in Nahuatl [la lingua degli Aztechi, ndt], > compone ideogrammi cinesi nel IX secolo, compare su uno schermo televisivo. > Questo presente improvvisamente intatto, dissotterrato da poco, si scrolla di > dosso la polvere dei secoli, sorride e inizia a volare, scomparendo dalla > finestra”. Nel 1990 Octavio Paz compiva 76 anni – era nato il 31 di marzo, a Città del Messico –; sarebbe morto otto anni dopo. Che invidiabile ampiezza di sguardo, che potente ‘leggerezza’. Tra le tante cose, era stato ambasciatore del Messico in Giappone – nel 1952 – e in India – negli anni Sessanta. Aveva scritto, molti anni prima, opere primordiali e ‘seminali’, d’obbligo per chiunque si accinga alla poesia (Piedra del sol, Salamandra, Blanco). Le sue idee sull’oggi sarebbero condivise da Ezra Pound e da André Malraux, che aveva incontrato nel 1937, a Valencia, durante il “II Congreso Internacional de Escritores para la Defensa de la Cultura”, gran consesso a cui accorsero, tra i troppi, Stephen Spender, Antonio Machado, Tristan Tzara e María Zambrano.  Intellettuale máximo, “tra i maggiori dell’America latina” (così la notizia Treccani), Paz ha scritto di Suor Juana de la Cruz come di Marcel Duchamp; in Italia sono editi da Se i suoi saggi sull’India, su Chuang-tzu e su “Amore ed erotismo” (La duplice fiamma); in molti citano Il labirinto della solitudine, da tempo si parla di un ‘Meridiano’ in suo onore, di fatto le poesie – raccolte da Mondadori come Vento cardinale, ristampate per anni – sono scomparse dagli scaffali. Inutile lamentarsi allora se “una delle opere più importanti di Paz”, El Mono Gramático, “vertiginosa indagine sul senso del linguaggio e le sue relazioni con la realtà fenomenica, sulle segrete corrispondenze tra idea e verbo, parola e percezione, erotismo e conoscenza” (così la quarta di una delle ultime ristampe, nel mondo ispanico), sia per lo più sconosciuta. Si tratta, in effetti, di un micidiale poema in prosa, uscito in origine nel 1974, in cui Paz ridiscute i fondamentali del verbo, le fondamenta del linguaggio. Cosa sono le parole? Scatole vuote o bestie da allevamento? Animali che ci danno il latte o predatori che attaccano gli accampamenti della mente? Che cos’è la grammatica? Una gabbia che impedisce al linguaggio di dilagare, secondo selvaggia etica? Se il linguaggio coincide con la ‘caduta’, con il distacco dell’uomo dalla ‘natura’, qual è il compito del poeta? Ridurlo a innocenza, forse, eleggerlo in ferocia… Di certo, i nomi non servono per impossessarsi delle cose ma per sprigionarle, per liberarne i remoti significati.  Come sempre, Paz precipita nell’agonia del verbo rinverdendo antichi miti induisti con le tavole di Delacroix, mescola il buddismo tantrico alle tavole di Richard Dadd alla musica dodecafonica. Insomma: il testo è fiero – cioè arduo, imperiale per stile, impervio.  Basta così – il tema è, come si dice, decisivo. Ancor più in un oggi di assordante cecità, un oggi del linguaggio coercitivo, che tramite il linguaggio opera i più sottili crimini. Sempre il linguaggio si ritorce contro chi crede di dominarlo.  Per dire dell’importanza di El mono gramático si è scelto di tradurre, oltre a una selezione dal libro di Paz, in calce, un saggio uscito su “Letras Libres” a firma del poeta messicano Adolfo Castañón, a ragione di una sorta di ‘consegna’, di viatico. Fino all’adozione nel silenzio, sul corpo morto – e sempre vivo – del verbo.  *** Da La scimmia grammatica 6 Macchie: erbacce: cancellature. Fregi. Imprigionato tra le righe, le liane delle lettere. Soffocato dai tratti, dai lacci delle vocali. Morso, picchiettato dalle tenaglie, dagli arpioni delle consonanti. Erbacce di segni: negazione dei segni. Gesticolazione stupida, cerimonia grottesca. La pletora finisce con l’estinzione: i segni mangiano i segni. Le erbacce diventano deserto, il baccano diventa silenzio: arenili di lettere. Alfabeti marci, scritture bruciate, detriti verbali. Ceneri. Lingue nascenti, larve, feti, aborti. Erbacce: brulichio omicida: terra desolata. Ripetizioni, perduto tra le ripetizioni, sei una ripetizione tra ripetizioni. Artista delle ripetizioni, gran maestro delle deturpazioni, artista delle demolizioni. Gli alberi ripetono gli alberi, le sabbie ripetono le sabbie, la giungla di lettere è una ripetizione, l’arenale è una ripetizione, la pletora è il vuoto, il vuoto è la pletora, io ripeto le ripetizioni, perso nel sottobosco di segni, vagando nell’arenale senza segni, macchie sul muro sotto questo sole di Galta, macchie su questo pomeriggio di Cambridge, sottobosco e arenale, macchie sulla mia fronte che congrega e disintegra paesaggi incerti. Sei (sono) è una ripetizione tra le ripetizioni. È, sei, sono: sei, è, sono. Demolizioni: mi sdraio sui miei sgretolamenti, abito le mie demolizioni. * 9 Frasi che sono liane che sono macchie umide che sono ombre proiettate dal fuoco in una stanza non descritta che sono la massa scura del boschetto di faggi e pioppi sferzata dal vento a circa trecento metri dalla mia finestra che sono dimostrazioni di luci e ombre su una realtà vegetale all’ora del tramonto attraverso le quali il tempo, in un’allegoria di se stesso, ci impartisce lezioni di saggezza tanto presto formulate quanto distrutte dal minimo sfarfallio di luce o ombra che non sono altro che il tempo nelle sue incarnazioni e disincarnazioni che sono le frasi che scrivo su questo foglio e che scompaiono mentre le leggo:  non sono le sensazioni, le percezioni, le immaginazioni e i pensieri che si accendono e si spengono qui, ora, mentre scrivo o leggo ciò che scrivo:  non sono ciò che vedo o ciò che ho visto, sono il rovescio di ciò che si è visto e della vista – ma non sono l’invisibile: sono il residuo non detto,  non sono l’altra faccia della realtà, ma l’altra faccia del linguaggio, quella che rimane sulla punta della lingua e che svanisce prima di poter essere detta, l’altra faccia che non può essere nominata perché è il contrario del nome: il non detto non è questo o quello che tacciamo, non è né-questo-né-quello: non è l’albero che dico di vedere, ma la sensazione che provo quando sento di vederlo nel momento in cui sto per dire di vederlo, una congregazione intangibile ma reale di vibrazioni e suoni e sensi che, combinati, configurano il disegno di una presenza verde-bronzea-nera-legnosa-frondosa-sonora-silenziosa; no, non è neanche questo, se non è un nome non può essere nemmeno la descrizione di un nome né la descrizione della sensazione del nome né il nome della sensazione:  l’albero non è il nome albero, nemmeno è la sensazione di un albero: è la sensazione di una percezione di un albero che si dissipa nel momento stesso della percezione della sensazione di un albero;  i nomi, lo sappiamo già, sono vuoti, ma quello che non sapevamo o, se lo sapevamo, lo avevamo dimenticato, è che le sensazioni sono percezioni di sensazioni che si dissipano, sensazioni che si dissipano essendo percezioni, perché se non fossero percezioni, come faremmo a sapere che sono sensazioni? le sensazioni che non sono percezioni non sono sensazioni, le percezioni che non sono nomi; cosa sono? se non lo sapevi, ora lo sai: tutto è vuoto; e appena dico che tutto-è-vuoto, sento di cadere nella trappola: se tutto è vuoto, è vuoto anche il tutto-è-vuoto;  no, è pieno e strapieno, tutto-è-vuoto è gonfio di sé, ciò che tocchiamo e vediamo e sentiamo e gustiamo e odoriamo e pensiamo, le realtà che inventiamo e le realtà che ci toccano, ci guardano, ci ascoltano e ci inventano, tutto ciò che intrecciamo e disintrecciamo e ci intreccia e ci disintreccia, apparizioni e sparizioni istantanee, ognuna distinta e unica, è sempre la stessa realtà colma, sempre lo stesso tessuto che si tesse disfacendosi: anche il vuoto e la privazione sono essi stessi pienezza (forse sono l’apice, il culmine e la calma della pienezza), tutto è pieno fino all’orlo, tutto è reale, tutte quelle realtà inventate e tutte quelle invenzioni tanto reali, tutti e tutte, sono piene di sé, gonfi della propria realtà; e appena lo dico, si svuotano: le cose si svuotano e i nomi si riempiono, non sono più vuoti, i nomi sono pletorici, sono donatori, sono colmi di sangue, di latte, di sperma, di linfa, sono gonfi di minuti, di ore, di secoli, pregni di sensi e di significati e di segnali, sono i segni dell’intelligenza che il tempo fa per sé, i nomi succhiano il midollo delle cose, le cose muoiono su questa pagina ma i nomi prosperano e si moltiplicano, le cose muoiono perché i nomi vivano:  tra le mie labbra l’albero scompare mentre lo nomino e nello svanire appare: guardalo, turbine di foglie e radici e rami e tronco in mezzo alla burrasca, flusso di realtà frondosa sonora verde bronzo qui sulla pagina:  guardalo là, sull’eminenza del terreno, guardalo: opaco tra la massa opaca degli alberi, guardalo irreale nella sua cruda e muta realtà, guardalo il non detto:  la realtà al di là del linguaggio non è del tutto realtà, la realtà che non parla né dice non è realtà; e appena lo nomino, appena scrivo con tutte le sue lettere che non è la realtà nuda di nomi, i nomi evaporano, sono aria, sono un suono incastonato in un altro suono e in un altro ancora, un mormorio, una debole cascata di significati che si annullano a vicenda:  l’albero che nomino non è l’albero che vedo, albero non dice albero, l’albero è al di là del suo nome, realtà frondosa e legnosa: impenetrabile, intoccabile, realtà al di là dei segni, immersa in se stessa, piantata nella propria realtà: posso toccarla ma non posso nominarla, posso incendiarla ma se la nomino la dissipo:  l’albero che c’è là tra gli alberi non è l’albero che nomino ma una realtà che è al di là dei nomi, al di là della parola realtà, è la realtà così com’è, l’abolizione delle differenze e l’abolizione anche delle somiglianze;  l’albero che nomino non è l’albero, e l’altro, quello che non dico e che è lì, dietro la mia finestra, con il tronco già nero e il fogliame ancora infiammato dal sole del tramonto, non è nemmeno l’albero, ma la realtà inaccessibile in cui è piantato:  tra l’uno e l’altro si erge l’unico albero della sensazione che è la percezione della sensazione di un albero che si dissipa, ma chi percepisce, chi sente, chi si dissipa mentre le sensazioni e le percezioni si dissipano?  in questo momento i miei occhi, leggendo questo che sto scrivendo con una certa fretta di arrivare alla fine (quale fine?) senza dovermi alzare per accendere la luce, approfittando ancora del sole calante che si infila tra i rami e le foglie del massiccio di faggi piantati su una leggera eminenza  (si potrebbe dire che è il pube del terreno, quindi è femminile il paesaggio tra le cupole dei piccoli osservatori astronomici e l’ondulato campo sportivo del College,  si potrebbe dire che è il pube di Splendore che si illumina e si adombra, farfalla doppia, mentre si muovono le fiamme del camino, mentre crescono e diminuiscono le onde della notte),  in questo momento i miei occhi, leggendo ciò che sto scrivendo, inventano la realtà di chi scrive questa lunga frase, ma non inventano me, bensì una figura del linguaggio: lo scrittore, una realtà che non coincide con la mia realtà, se ho una realtà da chiamare mia; no, nessuna realtà è mia, nessuna mi (ci) appartiene, tutti viviamo altrove, al di là di dove siamo, tutti siamo una realtà diversa dalla parola io o dalla parola noi,  la nostra realtà più intima è fuori di noi e non è nostra, non è nemmeno una ma plurale, plurale e istantanea, noi siamo quella pluralità che si disperde, l’io è reale forse, ma l’io non è io né tu né lui, l’io non è mio né è tuo,  è uno stato, un battito di ciglia, è la percezione di una sensazione che si disperde, ma chi o cosa percepisce, chi sente?  gli occhi che guardano ciò che scrivo sono gli stessi occhi che dico di guardare ciò che scrivo?  andiamo avanti e indietro tra la parola che si estingue quando viene pronunciata e la sensazione che si dissipa nella percezione – anche se non sappiamo chi è che pronuncia la parola e chi è che percepisce, anche se sappiamo che chi percepisce qualcosa che si dissipa si dissipa anche in quella percezione: è solo la percezione della propria estinzione, andiamo e veniamo: la realtà al di là dei nomi non è abitabile e la realtà dei nomi è un perpetuo sgretolamento, non c’è nulla di solido nell’universo, in tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare la testa, tutto è un continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose,  no, dico che vado avanti e indietro all’infinito ma non mi sono mosso, come non si è mosso l’albero da quando ho iniziato a scrivere,  ancora le espressioni imprecise: ho cominciato, scrivo, chi scrive questo che leggo?, la domanda è reversibile: cosa leggo quando scrivo: chi scrive questo che leggo? la risposta è reversibile, le frasi alla fine sono l’inverso delle frasi dell’inizio ed entrambe sono le stesse frasi  che sono liane che sono macchie di umidità su un muro immaginario di una casa distrutta a Galta che sono le ombre proiettate dal fuoco di un camino acceso da due amanti che sono il catalogo di un giardino botanico tropicale che sono l’allegoria di un capitolo di un poema epico che sono la massa agitata del boschetto di faggi dietro la mia finestra mentre il vento eccetera lezioni eccetera distrutte eccetera il tempo stesso eccetera, le frasi che scrivo su questo foglio sono le sensazioni, le percezioni, le immaginazioni, eccetera, che si accendono e si spengono qui, davanti ai miei occhi, il residuo verbale:  l’unica cosa che rimane delle realtà sentite, immaginate, pensate, percepite e dissipate, l’unica realtà lasciata da queste realtà evaporate e che, pur essendo solo una combinazione di segni, non è meno reale di loro:  i segni non sono le presenze ma configurano un’altra presenza, le frasi si allineano una dopo l’altra sulla pagina e nel loro svolgersi aprono un percorso verso una fine provvisoriamente definitiva,  le frasi configurano una presenza che si dissipa, sono la configurazione dell’abolizione della presenza,  sì, è come se tutte queste presenze intrecciate dalle configurazioni dei segni cercassero la loro abolizione per far apparire quegli alberi inaccessibili, immersi in se stessi, non detti, che si trovano oltre la fine di questa frase,  dall’altra parte, dove certi occhi leggono ciò che scrivo e, leggendolo, lo dissipano. Octavio Paz 1974 ** La scimmia grammatica: vetta e testamento Ne La scimmia grammatica Octavio Paz lascia che i suoi sensi felini giochino e corrano liberi, pur rimanendo fedele alla costellazione delle sue ossessioni. Le ventinove stanze che compongono il libro sembrano scritte come variazioni di una manciata di frasi insistenti. Il libro dà l’impressione di essere stato trascritto dopo un’esperienza singolare in cui la scrittura, la flora, la meteorologia, il mondo interiore e lo spazio esterno sembrano uniti da una rete sottostante di eccetera… Al centro di questa foresta di segni si apre una radura e al centro della radura vibra un’incessante domanda sul nominare, sulla possibilità di dire, le domande perennemente poste, evolute e in sospeso, fremono come foglie che pendono dagli alberi: sono le domande che lo stesso Buddha evita di rispondere e che alimentano o delimitano il bordo di questo cratere testuale che è La scimmia grammatica. In esso è disegnata la figura di un poeta il cui canto è costituito dalle domande e la cui casa è costituita dalle parole che inventano lui e il suo doppio Splendore, che è anche un personaggio di Valmiki. Il poeta dice di aver fatto di Hanuman, la “scimmia grammatica”, una delle sue figure tutelari: “in tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare la testa, tutto è un continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose”. Da qui l’importanza di stabilire un “catalogo di un giardino tropicale” come quello che questo avatar-lettore messicano di Valmiki e Hanuman raccoglie nell’ottavo capitolo della sua opera. La foresta ricreata da Paz richiama alla mente la voracità lessicale di Saint-John Perse. La scimmia grammatica si presenta nell’opera di Octavio Paz come una vetta e un testamento, una sindone, un’eredità e un rituale che il poeta innalza come sacrificio a quella figura al cui sole lo accoglie e lo divora e lo rende capace non solo di decifrare il significato nascosto delle scritture ma di sprofondare in esse con tutto e l’ombra, con tutto e lo Splendore. II Scimmia grammatica: l’animale che crede in Dio, la bestia che sbava significati. Con la grammatica, traveste la sua condizione scimmiesca: chiama questa mascherata: poesia, cultura, religione. Ma la formica, l’ultima cellula primordiale, non è anch’essa grammatica? Non è forse linguaggio la più elementare particella della vita? * Scimmia: primate, ma anche sesso. Grammatica: accademia, polizia. Scimmia-grammatica: sesso punito, corpo sottomesso dal linguaggio. * Animale capace di sacrificarsi. Animale intrappolato nella rete dei significati e del concetto crocifisso. La grammatica è par excellence: la croce. Il senso della vita: dislocare, seppellire, disseppellire la croce e, con essa, il volto. La scimmia si guarda nello specchio della grammatica – cioè la croce – e scopre un volto – ma lo accetta veramente solo quando riesce a lucidare lo specchio e a fare del sacrificio una nuova, seconda natura: umanità. Ma questa è solo un’ombra di speranza, un’ipotesi. Prima, la scissione, la separazione tra zoologia e cultura, immanenza bestiale e scommessa etica, poetica. * Scissione: anfora rotta, scimmia grammatica. La solitudine della scimmia senza grammatica. Cecità, sordità del labirinto in assenza della scimmia che lo percorre. La grammatica organizza il mondo. È il tesoro segreto di Adamo, la chiave che gli permette di non perdersi tra le sue denominazioni. Ma la grammatica è anche un progetto, un’utopia, il sogno che tiene sveglia la scimmia e la precipita nella scrittura, nella politica, nella tentazione di ordinare il mondo e di ridare alle cose-parole il loro vero, utopico, futuro nome. * Grammatica, la scimmia? Un gorilla mostruoso che si veste da avvocato, da cattedratico, da prete; uno scimpanzé cinico che, quando gli conviene, sta sugli alberi e quando no, scende sul pulpito. Scolastico, sentimentale, vorace, pettegolo – a volte confonde la grammatica con il contagio, il significato con il calore tribale e, necessariamente, la sintassi con la teologia. A volte scimmia, a volte grammatica, sempre mendicante di verità, povera di Splendore[1], orfana della foresta e della monade, il suo vero, unico amore. Le dà appuntamento, appuntamento nello specchio della parola, ma lei non appare sempre. La invita a tutte le coniugazioni, ma lei disprezza le contingenze; la corteggia in tutti i casi ma lei scappa tra i congiuntivi. La scimmia, delusa, le volta le spalle e si dirige verso la città dei fuochi estinti e tra le ceneri del dizionario cerca la sua ombra grammatica – quasi mai con successo. Fugge. Vorrebbe appendersi a una liana, cadere in un pozzo: le altre scimmie, le scimmie sgrammaticate, vedono solo una scimmia a volte malinconica, a volte furiosa, divorata dall’invisibile e leggendaria lebbra. Si chiama grammatica. La contraggono coloro che si ostinano a seguire un percorso. Di solito finiscono così, crocifissi su una lettera, scorticati sul segno della loro scelta – ed è comune vederle accasciarsi con un sorriso beato e uno sguardo atroce che chiunque, anche la meno grammaticale delle scimmie, riconoscerebbe. La scimmia accasciata viene immediatamente circondata dalle semiscimmie; le semigrammatiche perché quasi tutte sono meticce e, di conseguenza, sterili.  * Questa è la differenza con la Scimmia Grammatica, che è invariabilmente feconda e capace di ingravidare qualsiasi femmina con un leggero tocco della lingua, della coda o di una qualsiasi delle sue estremità. Naturalmente, molte scimmie rimangono incinte, ma poche grammatiche raggiungono la maturità. Vengono abortite o si rovinano presto. Anche quando si sviluppano, hanno vita breve, perché le scimmie grammatiche si distruggono a vicenda. E non solo: alcune sette sono cannibali e sostengono che l’unico modo per fecondare l’ingrediente grammaticale del loro essere sia quello di divorare il cervello di altre scimmie grammatiche. Questa pratica non è priva di pericoli e le scimmie (grammatiche, semigrammatiche o non grammatiche) rifiutano istintivamente le scimmiofaghe perché emanano un odore inconfondibile e, inutile dirlo, insopportabile. * Un’altra pratica comune è quella in cui coppie di scimmie maschio e femmina uniscono le forze per fare il viaggio insieme e raggiungere insieme tanto agognata grammatica. Così, non è raro vedere un maschio visionario sul dorso di una femmina che sostiene di sentire delle voci. Naturalmente finiscono per scontrarsi, poiché l’emblema di El Dorado Grammaticale quasi mai coincide con il clamore delle voci. Da un lato, la grammatica porta la scimmia a camminare in linea retta; dall’altro, la sua condizione di scimmia la porta a vagare tra i rami. Ma la cosa più comune è vedere le scimmie grammatiche riunirsi in piccole bande nemiche tra loro. Ogni banda inventa una lingua a condizione che ognuna delle scimmie rinunci al suo sogno di grammatica. Sostituiscono il prurito ossessivo di un linguaggio trascendente – capace di trascendere la condizione di scimmia – con i frammenti di un linguaggio limitato e utilitaristico, che condividono, masticano e sputano come una gomma da masticare. * Il risultato è che perdono gradualmente la memoria – la memoria del canto – e anche, tra l’altro, le loro caratteristiche scimmiesche – almeno così credono. Ci sono anche scimmie grammatiche a cui è vietato comunicare con scimmie dell’altro sesso o di altri gruppi. Quando muoiono, le scimmie vengono incinerate. Le loro ceneri vengono diluite in acqua e olio e con esse fabbricano un liquido con cui dipingono una sorta di cipolle quadrate che chiamano libri e che conservano in templi chiamati biblioteche. Lì, secondo la tradizione, abita l’invincibile dio della grammatica. I guardiani di questi templi sono scimmie sparute, malinconiche e irascibili. Si dice che, sebbene sembrino morire scorticate come si è detto, possiedano il segreto dell’immortalità. Deve essere davvero un segreto, perché finora nessuno l’ha rivelato.  Ma l’associazione tra scimmia grammatica e poeta è già uno scandalo. La prima – chi può dubitarne? – è un mammifero, tra tutti, cerebrale, mentre il secondo si è sempre distinto per la mancanza di cervello. O forse non avevamo riflettuto bene e non ci siamo resi conto che la coscienza del poeta è rigorosamente equivalente a quella della scimmia, rapita dai succhi acri della grammatica. Hanno però una cosa in comune: entrambi conoscono l’arte di arrampicarsi sui rami.  * Ma al poeta – che non ha cervello – la rettitudine viene dal cuore, dal pensiero d’amore. Assomiglia a Don Chisciotte, all’“idiota” del libro di Dostoevskij; non va nel tumulto degli intelligenti, i furbi e gli efficienti: non ha cervello e si differenzia dalle altre scimmie perché sa di essere ridotto alla condizione bestiale nella misura in cui non è trasfigurato dalla passione. Scopriremo il suo nome nel libro dell’anima solo imparando la grammatica dell’amore. * Scimmia grammatica: scimmia innamorata. * L’innamorato che perde la ragione diventa un uomo dei boschi, un pazzo selvaggio, selvatico. È il Cardenio di Don Chisciotte in cui il cavaliere non manca di riconoscere alcuni riflessi dell’incendio che lo devasta. La grammatica della scimmia lacera e si squarcia: traduce la legge di una lettera incendiaria – la legge dell’amore. Perdendosi nella foresta di simboli e analogie, la scimmia grammatica recupera il suo senso, la sua linfa: diventa un albero, un succube dell’albero. Dentro l’albero c’è lui; dall’esterno è visibile solo la chioma, quell’abito che chiamiamo anche opera. Adolfo Castañón *In origine il saggio “El mono gramático: Cima y testamento” è stato pubblicato su “Letras Libres”, marzo 2014.  **La scelta e la traduzione dei testi di Octavio Paz e di Adolfo Castañón è a cura di Diana Mazon.  https://letraslibres.com/revista-mexico/el-mono-gramatico-cima-y-testamento/#footnote-33300-4-backlink -------------------------------------------------------------------------------- [1] Nel libro Il mono grammatico di Octavio Paz, Splendore è una figura femminile simbolica, evanescente e poetica. Non è un personaggio realistico, ma una presenza luminosa e ideale che incarna un’esperienza di rivelazione, desiderio e bellezza. Rappresenta forse la poesia stessa, oppure la conoscenza pura o il linguaggio che si manifesta e si sottrae. Compare come apparizione, visione o intuizione, e funge da guida e tentazione per il protagonista nel suo cammino interiore verso il senso, la scrittura e il silenzio. L'articolo “Lingue nascenti, larve, feti, aborti”. Octavio Paz o dell’eterna lotta contro il linguaggio proviene da Pangea.
August 27, 2025 / Pangea
Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015, accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza. Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra, rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri di un’infanzia mai più riconquistata. Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro, spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli anni. Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo), del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970, sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità, non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti. La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953 contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e, malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente repressa.  Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’ d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):  > “Una portaerei americana  > e una cattedrale gotica  > reciprocamente  > s’affondarono  > nel Pacifico.  > Suonò l’organo fino alla fine  > il giovane vicario. –  > Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei  > e non possono atterrare.” Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante, e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia. Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva – con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la “coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana. A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori, allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità, asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia – un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito, ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito, era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.  Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel 1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di annullare l’evento previsto.  Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era – aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per garantirsi una relativa immortalità. Raoul Precht L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea