
Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco
Pangea - Thursday, May 8, 2025Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille, forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato (come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata: l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa – Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura, affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio, Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt, Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale (siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona, monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico, giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del tutto ostile.

I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro. «Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo, l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente, inadeguato:
«Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque, all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
«Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
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