Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.