
“Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale
Pangea - Friday, May 9, 2025Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller, straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986. L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare quasi un calco dello “splendido racconto”.
“In perpetua corsa.
Nessuno era mai riuscito
a osservarla vicina.
Di lei, si sapeva soltanto
che razziava nei campi
Ma chi, chi non razziava
– ogni giorno – nei campi?
E quale voracità
poteva avere, una cerva,
per creare un flagello”.
Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.
Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli:
“La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo, perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad accontentarsi, a non desiderare più”.
A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida, non come un eroe guerriero”.
Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet, Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore quasi scientifico di un trattato di mitologia”.

Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un altro discorso.
Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi:
“Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.
Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo, avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso:
“A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume montano?”.
Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.
Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante bellezza:
“Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo, vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.
Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia – a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.

Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del basilisco, ma soprattutto che
“Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa scomparire”.
Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento:
“Presta bene orecchio,
amico, a quel che ti dico.
Tu miri contro uno specchio.
Sparerai a te stesso, amico”.
Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola, avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero. Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.
*In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d.
L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale proviene da Pangea.