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“Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti ‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.  Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico, esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta, impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa: giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma, che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.  Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla, capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri, altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia: “Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto tonnellate di bigiotteria lirica. Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio Stalin, deputato dei Soviet.  È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per questo offerto.  Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente, ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente, misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio ombelico la sola patria.  Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il ‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.  > “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate > dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il > mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i > letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori > dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo > sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”. È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la ‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente – il poeta è il terribile portavoce.  > “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà > letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue > forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare > a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo > numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il > politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della > critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia, > considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il > poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il > politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta, > perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento > dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo > esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il > decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella > dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”. Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”. Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il mio regno non è di questo mondo”.  Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola – avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma buono.  Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi – “Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica, integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben – “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta. (Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti, galletti del potere). ** Show Guardateli bene in faccia. Guardateli. Alla televisione, magari, in luogo di guardar la partita. Son loro, i “governanti”. Le nostre “guide”. I “tutori”  – eletti – della nostra vita. Guardateli. Ripugnanti. Sordidi fautori dell’“ordine”, il limo del loro animo tinge di pus la sicumera dei lineamenti. Sono (ben messi!) i nostri illibati Ministri. Sono i Senatori. I sinistri – i provvidi! – Sindacalisti. “Lottano” per il bene del Paese. Contro i Terroristi e la Mafia. Loro, che dentro son più tristi dei più tristi eversori. Arrampichini. Arrivisti. In nome del Popolo (Avanti! Sempre Avanti!), in perfetta Unità arraffano capitali – si fabbricano ville. Investono all’estero, mentre “auspicano” (Dio, quanto “auspicano”) pace e giustizia. Loro, i veri seviziatori della Giustizia in nome (sempre, sempre in nome!) del Dollaro e dell’Oro. Guardateli, i grandi attori: i guitti. Degni  – tutti – dei loro elettori. Proteggono i Valori (in Borsa!) e le Istituzioni… Ma cosa si nasconde dietro le invereconde Maschere? Il Male che dicono di combattere?… Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti. Giorgio Caproni Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999 *In copertina e nel testo: opere di David Lynch L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
“Buon proseguimento”. Chiacchiere intorno a Caproni, un maestro
Tra le varie testimonianze utili a perimetrare la vita – e dunque, l’opera, sempre ‘battesimale’ – di Caproni, ne preferisco due. La prima è la lunga intervista concessa a Ferdinando Camon, raccolta in Il mestiere di poeta (Lerici Editori, 1965; magistrale ovvietà: un’intervista funziona, al di là dell’intervistato, se c’è del genio nell’intervistatore). Caproni – che ha sempre quel “viso affilato e severo” – è già l’autore di Stanze della funicolare e de Il passaggio di Enea; con Il seme di piangere ha vinto un ‘Viareggio’, ha da poco pubblicato Congedo del viaggiatore cerimonioso. Tra le tante cose – necessarie a designare una poetica; ad esempio, l’importanza dello “studio del violino, uno studio duro, egoistico, che richiede otto, dieci ore giornaliere d’applicazione”, che significa, “lenta conquista” e assidua dedizione all’arte, sempre artigiana – scelgo questa: > “L’unica certezza che c’è nei miei versi è quella della vita e della morte. > Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le ‘istituzioni’) classiche e > ottocentesche non reggono più. Oggi non viviamo più in un mondo > geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età > di Pericle o nel Medioevo o nel positivista e progressista Ottocento. Oggi > dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse, > per credenti e miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che > mia, mi sembra dell’epoca”.  L’intervista termina con un coup di quelli di Caproni: il poeta si augura la venuta del “poeta nuovo capace di farci invecchiar tutti quanti d’un colpo… con la sola forza della sua poesia”. Che meraviglia questa fede nella sempiterna giovinezza – cioè: nella sempiterna violenza – della poesia. Va detto che la novità della poesia di Caproni continua, da anni, a far invecchiare d’un colpo poeti ben più giovani di lui, ignari di cosa sia la giovinezza, il suo sentore di animale in sangue.  Forse perché era ossessionato da Dio – o dalla sua eco, o dalla sua eminente assenza, o dalla sua carnivora presenza – credo che il più arguto esegeta di Caproni sia stato Cesare Cavalleri. Erano amici, legati dallo spudorato pudore proprio ai maestri, ai grandi: lo testimonia un epistolario cominciato nel 1972, di cui Cavalleri ha svelato, sorvolando, alcuni brani (trovate il tutto alla voce “Caproni” in: Cesare Cavalleri, Letture 1967-2022, Edizioni Ares, 2023, libro necessario quant’altri mai per orientarsi tra eden e paludi della letteratura italiana e non). I due si sfiorarono nel 1982, alla ‘Piccola Scala’: Caproni, “visibilmente frastornato”, vinceva il Premio Montale; Cavalleri gli chiedeva “il testo della poesia che aveva letto in quell’occasione” (Oh cari, per la cronaca). In un’intervista pubblicata su “Studi Cattolici” l’anno dopo, in ottobre, Caproni gioca a spezzare tutti i vetri.  > “Io ho sempre pensato che nella vita ci sono tante cose da fare, oltre ai > versi. Poi, se vengono i versi, uno li scrive. Ora come ora vorrei non averne > mai scritti. Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita > del alma”.  Aveva da poco pubblicato Il franco cacciatore. Poesie gnomiche, profezie incise in acciaio. Palingenesi, per dire: Resteremo in pochi. Raccatteremo le pietre e ricominceremo.                            A voi, portare ora a finimento distruzione e abominio. Saremo nuovi. Non saremo noi. Saremo altri, e punto per punto riedificheremo il guasto che ora imputiamo a voi. Non credo sia un caso che per le Edizioni Ares, consustanziali all’intelligenza ferina di Cesare Cavalleri, sia uscito uno ‘strumento’ importante per capire Caproni. Lo ha firmato Francesco Napoli, critico di implacabile acume, s’intitola Giorgio Caproni. Scrittore in versi (2025). Tra le altre cose, Napoli parla in quel libro di un incontro organizzato dall’Università di Salerno: Caproni fumava, scavato, segaligno, lucido. Esatto come un endecasillabo. Si dice – va da sé – degli anni della Resistenza, dell’amicizia con Pasolini e con Betocchi, di Sbarbaro e Ungaretti. Poeti importanti, è vero, ma che si riconoscono per piccole cose, per baluginii e reticenze, per inciampi; si odorano, preferiscono la macchia. Anche il corpo di Caproni è epigrafico, è un petroglifo – ambone di un’opera autentica.  Insomma, ho contattato Napoli.  Qual è l’evento centrale – o gli eventi – nella vita di Caproni, quello che forgia il suo dire? Non è facile, a mio avviso, individuare uno o più eventi che hanno forgiato un dire che è stato costantemente in ascesa verso un fare poetico e di pensiero sempre più affinato e incisivo. Mi piace indicare però due fatti, che avvengono durante la sua formazione, di natura diversa. Il primo è l’incontro con la poesia di Ungaretti. E ce lo racconta molto bene lo stesso Caproni quando ne parla come di una illuminazione. Frequenta già la poesia, è andato a pescare Carducci da qualche parte per saltare D’Annunzio e lo stesso Pascoli, forse anche per una vicinanza sanguigna e toscana. Ebbene: viveva a Genova e lavorava come fattorino presso l’avvocato Ambrogio Colli. Nella biblioteca dello studio, nella centralissima via XX Settembre, scova una copia dell’Allegria di Ungaretti. Il suo “sillabario” poetico lo definì sin da subito e questo incontro segna il suo dire una parola poetica adeguata, nella ricerca del “sapore perduto della parola” per dirla come l’ha detta lui. “Perduta”, amissa. L’altro episodio, anche questo raccontato da lui, è l’abbandono ‘fisico’ e ‘violento’ del violino. A 18 anni, sempre a Genova, dopo aver suonato per balere e dintorni, gli tocca sostituire un primo violino in un concerto con musiche di Massenet. Nonostante si fosse ben preparato e avesse studiato la parte, la tensione dell’esibizione pubblica lo stravolge. Non vive be­nissimo questo passaggio e il confessato “fallimento” si concretizza d’improvviso, seguendo quasi le sue spigolosità caratteriali, quando una sera, dopo tanto studiare, abbandona trauma­ticamente il violino, spezzandolo di ritorno a casa. Da lì un continuo seguire la musica nella parola. Pur al centro del canone della letteratura italiana, Caproni mi sembra un poeta defilato, uno che ha percorso una sorta di ‘via oscura’ della lirica, totalmente propria. È davvero così a suo giudizio? Qual è il libro emblematico di questo percorso? Una via lirica tutta sua senz’altro, una parola originale in una tramatura musicale di straordinario equilibro metrico-ritmico e sonoro. Ma aggiungo, un percorso intellettuale unico. Eppure, proprio lui, traendo forza e ispirazione anche dalla lirica duecentesca, non petrarchesca, e vivendo nell’imperante verbo ermetico (a prevalenza petrarchesca peraltro) degli anni Trenta, amico fraterno di Alfonso Gatto, rompe con questa linea provando a ricondurre la poesia verso l’Allegoria allontanandola dal Simbolo (proprio dell’ermetismo). Libro emblematico credo sia a questo proposito Il passaggio di Enea del 1952. Qualche anno prima, nel 1948, descrive in un articolo sull’“Avanti!” l’eroe virgiliano come se parlasse di sé e del suo lavoro poetico:  > “Non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al pa­dre, vale a dire alla > tradizione ch’ormai cadente grava fra­gilissima sulle sue spalle) egli deve > operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere sé stesso ma anche per chi > l’ha sostenuto fino a ieri (il padre e la tradizione) e chi al suo fianco lo > segue.” Perfeziono: “Res amissa” è secondo lei il culmine della poesia di Caproni o piuttosto una ‘deviazione’? La pubblicazione postuma di questo libro è stata curata da Giorgio Agamben e dai figli davvero al meglio, restituendo pressoché pienamente il lavoro di Giorgio Caproni. Questo capita di rado. In genere frettolosi eredi e ben più animati editori rovistano a man bassa nei cassetti e curiosano sulle scrivanie degli autori e sui loro lavori in corso finendo per lo più per tradirli. Per fortuna con Res amissa questo non è accaduto. Detto questo voglio ricordare come l’intero lavoro poetico di Caproni si contraddistingue per riprese e ricuciture, di plaquette come di versi pubblicati in rivista, ricomponendosi poi in un libro (non una raccolta, attenzione) coerente e coeso. Ora non so bene se Res amissa sia un “culmine” o una “deviazione”, quello che so è che è capronianamente in continuità di pensiero poetico e poetante, con variazioni sui temi già sviluppati, con rinnovati congedi che sembravano già definitivamente esauriti, per giungere all’estremo del “congedo dal congedo stesso, per inoltrarsi in regioni di sempre più estrema disappropriazione fra l’uomo e il Dio” come ha scritto Giorgio Agamben. Il pensiero di una cosa perduta, che per Caproni sembra, azzardo un paradosso, essere una sensazione che si prova sin dalla nascita, mi sembra molto pertinente alla condizione dell’Essere. Il poeta ha subito per questo suo nuovo libro le idee molto chiare. Infatti, la poesia eponima della nuova opera, Res amissa appare su “Lengua” (gennaio-giugno 1987), la rivista di Gianni d’Elia e Katia Migliori, accompa­gnata da una illuminante nota del poeta che attacca così: “Questa poesia sarà il tema del mio nuovo libro (se ce la farò a comporlo)”. Credo che mai Caproni abbia iniziato con le idee così chiare. Mi sembra inoltre che l’intero cammino poetico di Giorgio Caproni si svolga secondo una linearità fatta anche di scarti e deviazioni. Sembra un ossimoro, ma a ben vedere non lo è. Basta solo ricordare il suo metodo di costruzione dei libri pubblicati, basato su un continuo riesame e ravvicinamento dei testi. Per Res amissa vale lo stesso discorso: il libro prosegue il pensiero del Conte di Kevenhüller e da questo se ne discosta e poi si riavvicina.  Quali sono state le amicizie decisive, autenticamente feconde per Caproni? Sono diverse e in diversi momenti della vita e con gradienti differenti d’intensità. Certo, dalle patrie storie letterarie Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, tra i poeti, e Giuseppe De Robertis tra la critica sono stati i suoi amici più vicini. Ma c’è un altro poeta, oggi poco frequentato anche da noi critici, sbagliando, che più sembra consuonare con Caproni e di cui in qualche modo il poeta di Livorno riconosce un magistero umano e di pensiero: parlo di Carlo Betocchi. Invito ad andare a leggerlo con attenzione, e io per primo lo farò, provando a liberarlo dall’ombra imponente e importante di Mario Luzi. Ritagli dalla sua memoria i versi memorabili di Caproni, quelli che a suo dire ne distinguono la poetica.  Tre citazioni, senza commento.  > “Tutti riceviamo un dono. > Poi, non ricordiamo pi > né da chi né che sia. > Soltanto, ne conserviamo > – pungente e senza condono – > la spina della nostalgia.”   > > (Generalizzando in Res amissa) > “Ho provato a parlare. > Forse, ignoro la lingua. > Tutte frasi sbagliate. > Le risposte: sassate.”   > > (Sassate in Il muro della terra) > “Ora che più forte sento > stridere il freno, vi lascio > davvero, amici. Addio.  > ( Di questo, sono certo: io > son giunto alla disperazione > calma, senza sgomento. > > Scendo. Buon proseguimento.” > > (chiusa del Congedo del viaggiatore cerimonioso, nell’eponima raccolta) Che rapporto esiste, a suo avviso, tra la vita di Caproni e l’opera, tra il ‘corpo’ fisico e il ‘corpo’ lirico? Ho avuto un incontro, folgorante, all’Università di Salerno con il poeta, e lo racconto nel libro. E se vado con la memoria a quell’incontro, a quando ci ha detto che l’italiano ha il suo naturale respiro nell’endecasillabo, a quando fumava e non poco anche in aula, ebbene più come una sensazione che come certezza, secondo me, l’identità tra corpo fisico e lirico in Caproni è molto stretta. Chi si muove nei solchi di Caproni? Intendo dire: Caproni ha aperto una via lirica percorsa da altri o è un inascoltato pioniere? Molti hanno letto e amato, incontrato e frequentato Caproni, anche tra i viventi. E penso a Cucchi come a Mussapi, i primi che mi vengono in mente. Ma non sono stati i soli. È un poeta di spessore, con un pensiero intenso anche quando sembra facile da leggerlo o quando pensiamo di averlo capito. E tra le due opzioni che chiudono la sua domanda penso che dobbiamo averlo sul nostro comodino, accanto al letto, come lui aveva Dante. Un maestro. *In copertina: Giorgio Caproni in un ritratto fotografico di Dino Ignani L'articolo “Buon proseguimento”. Chiacchiere intorno a Caproni, un maestro proviene da Pangea.
May 13, 2025 / Pangea
“Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale
Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller, straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986. L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare quasi un calco dello “splendido racconto”.  “In perpetua corsa. Nessuno era mai riuscito a osservarla vicina. Di lei, si sapeva soltanto che razziava nei campi Ma chi, chi non razziava  – ogni giorno – nei campi? E quale voracità poteva avere, una cerva,  per creare un flagello”. Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.  Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli: > “La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il > desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui > doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel > vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando > di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo, > perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad > accontentarsi, a non desiderare più”.  A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida, non come un eroe guerriero”.  Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet, Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore quasi scientifico di un trattato di mitologia”.  Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un altro discorso.  Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi: > “Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la > malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.  Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo, avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso: > “A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire > in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli > eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a > trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume > montano?”.  Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.  Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante bellezza: > “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto > nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente > sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo > da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo, > vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.   Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia – a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.  Max Klinger, Centauro inseguito, 1881 Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del basilisco, ma soprattutto che  > “Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o > l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un > falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel > bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il > raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa > scomparire”.  Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento: “Presta bene orecchio, amico, a quel che ti dico. Tu miri contro uno specchio. Sparerai a te stesso, amico”.  Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola, avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero. Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.  *In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d. L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale proviene da Pangea.
May 9, 2025 / Pangea