
“Le moine della Bellezza”: la via mistica di al-Hallaj
Pangea - Saturday, May 10, 2025Accadde in marzo, era il 922, alle porte orientali di Baghdad. Il califfo ordinò la crocefissione; lo flagellarono, lo legarono a un tronco di palma, segate mani e piedi. Esposto – a monito – per una notte. Poi: decapitato, arso il corpo, ceneri spalate nel Tigri. Che di lui non resti memoria, che del suo dire si abusi fino a usura. Tentarono di estirparne gli insegnamenti; atterriti gli scarsi discepoli. Come sempre: aura di traditori attorno a lui. Secondo un compagno di prigionia,
“quando venne portato sul luogo della crocefissione e vide travi e chiodi, scoppiò a ridere, tanto da averne le lacrime agli occhi”.
Le memorie di al-Hallaj sono piene di risa: “camminava leggero malgrado le catene, ridendo”; “scoppiò in una fragorosa risata”; “mentre si avviava al patibolo, sorrideva”. Non è, la sua, risata di scherno; non è la risata di Democrito che ride dell’insipienza degli abderiti, che ride sopra la vita e la morte. La risata di al-Hallaj è come la danza dei dervisci: è l’abbaino dell’abbandono, l’alcova dell’unione, è l’ultima serratura prima dell’annientamento.
Ridere, cioè: compiersi.
Agli astanti che gli chiedono: “Cosa ti fa sorridere?”, il maestro risponde, “Le moine della Bellezza quando chiama gli eletti all’unione”.
Secondo Abu Bakr al-Shibli, le ultime parole di al-Hallaj, pronunciate “con voce altissima”, mani e piedi amputati, sono queste:
“Solo conta per l’amante che l’Unico lo riporti all’unità”.
Credeva che il punto supremo della sofferenza coincidesse con quello della rivelazione – lo umiliarono perché aveva osato dire Anā al-Haqq, io sono Dio (ergo: io sono la verità ultima). Mangiava pochissimo – “non l’ho mai visto mangiare altro che sale e aceto”, giura uno dei suoi discepoli –, indossava un vecchio abito, un cappuccio; se era festa, vestiva di nero, “è l’abito, diceva, di chi vede respinte le sue opere”.
Praticò l’unione mistica, percorse la via negativa. Era lui a predare Dio perché di Dio era la preda – al culmine della caccia (che è poi la danza) perfino il sangue svasa in vento, la carne è un inconveniente del prossimo inverno. Roba su cui si accucciano i corvi, i re della terra.

Alla conoscenza anteponeva la vertigine – a cui seguiva, secondo una gerarchia dello sprofondare, lo stupore, la contemplazione, l’annientamento. Di al-Hallaj si tramandano versi spesso paradossali (parte del suo Diwanè stato tradotto in Italia da Alberto Ventura, per Marietti 1820, nel 2005); in un distico il sommo maestro insegna che l’annientamento si annienta annientandosi – a quel punto, l’io, libero da ogni norma e da ogni contro-norma, destro a ogni addestramento e a ogni sobillazione del sé, innocuo, superiore al sapere e al non sapere, è davvero libero. È acqua e usignolo, è lupo e crocevia, è la bava dell’Insondabile.
“Quando Dio si impossessa di un cuore lo vuota di tutto ciò che non è Lui. Quando si lega a qualcuno, lo annienta per chiunque altro. Quando prende in predilezione una persona, incita i suoi servitori a perseguitarla, affinché la spingano verso di Lui e continui così ad avvicinarsi. Ma come spiegare ciò che mi accade: di Dio non trovo traccia, né avvicinandomi intravedo bagliore, eppure la persecuzione continua!”
Notizie su al-Hallaj – in Italia: Morcelliana, 2012, a cura di Luisa Orelli – è un libro formidabile perché al di là della libraria forma. Lo è, intendo, l’idea stessa dell’Akhbar: sono assemblate, senza preoccupazione cronologica, un’ottantina di testimonianze di discepoli, amici, ignoti attorno alla vita del maestro. A volte si narrano episodi biografici, altre volte frammenti sapienziali. L’eterogeneità delle lasse rende mutevole, inquieta la lettura: non ci sono maniglie narrative, cunicoli, raccordi, come nelle agiografie o nelle devote biografie – qui è un precipizio, un invito alla fuga. Tutto, cioè, è foriero di fraintesi – tutto comporta il frantumarsi – che il frumento così creato sia fecondo non è da credervi.
Allo stesso tempo, si balbetta lo Pseudo-Dionigi, si entra nell’antro di Borges:
“Dio non ha dove, non lo contiene un luogo. Non ha quando, non lo definisce un tempo. È al di là del cuore e dei sentimenti. Non si presta a scoperte e spiegazioni. È troppo santo per essere percepito dai nostri sguardi e afferrato da pensieri e congetture”.
Non fu un mero contemplativo, al-Hallaj. Preferì la predicazione – cioè: la provocazione pubblica – e il pellegrinaggio. Si dice abbia raggiunto la Cina, si dice di ragguagli sul taoismo e altre discipline. Ad ogni modo, il più profondo non ha verbi per essere comunicato, non è vile polline che va di orecchio in orecchio a fioritura di sette e di club filosofici. Di al-Hallaj si dice che mormorasse tra sé “parole di cui nessuno intese il significato”. Così, il discepolo si abitui ad avanzare in un regno che non ha definizioni, che non si confina in quie là:
“L’iniziato è colui che sceglie di non avere legami con questo mondo e con l’altro”.
Così Luisa Orelli riassume la via di al-Hallaj:
“La conoscenza di Dio è una in-conoscenza (docta ignorantia): in quel buio in cui la mente è come cieca, lì, come disse Eckhart, Dio splende; nella caligine luminosa del non sapere nella quale si immerse Mosè, modello, anche per al-Hallaj, di quella conoscenza che supera il confine che delimita l’inaccessibilità divina. È questa la via apofatica; una via negationis che procede per via di togliere, e prelude (come in alcuni procedimenti calcografici: cavando la luce dal nero) alla teofania”.
Dobbiamo la conoscenza di al-Hallaj all’orientalista Louis Massignon: lo affascinavano, di quel martyr mystique de l’Islam, i legami con l’esperienza di Cristo. Amico di Huysmans, imparò l’arabo, viaggiò in Marocco. Al Cairo, nel maggio del 1907, scopre la figura di al-Hallaj, a cui consacra i suoi studi: nel ’22, alla Sorbona, discute un dottorato su La passion d’al-Husayn-ibn-Mansur al-Hallaj, che è poi il primo passo del lavoro sommo, La Passion de Hallaj, edito in quattro volumi da Gallimard nel 1975 (poi 2010; in inglese esce nel 1983 per la Princeton University Press). Nel 1908, dopo l’arresto da parte delle autorità ottomane con l’accusa di essere una spia e un tentato suicidio, si era convertito al cristianesimo (“Lo Straniero mi visitò una sera di maggio, sul Tigri, nella cella della mia prigione, le corde serrate dopo due tentativi di fuga: entrò, le porte erano chiuse, e infiammò il mio cuore, quel cuore che il coltello aveva mancato, e cauterizzò la mia disperazione, la spaccò, come la fosforescenza di un pesce che emerge dal fondo di acque abissali”). Nel dicembre del ’17, era entrato a Gerusalemme insieme al generale Edmund Allenby: al suo fianco, T.E. Lawrence. Pur avversari nell’agone politico, si rispettavano. Ispirato da Charles de Foucauld, gli fu concesso, nel 1949, di accedere al rito melchita: in al-Hallaj, Massignon scorgeva il punto d’unione tra cristianesimo e islam.

Spesso le parole del maestro prefigurano l’orrenda fine – “Morirò nella religione della croce: niente più Mecca o Medina all’orizzonte”. Fu tradito, intrappolato, “condannato davanti a un tribunale eccezionale, mediante una formula manipolata ad arte, attraverso la sentenza di un giudice prevaricatore”. Non voleva trascendere la legge, ma interiorizzarla, escludendo ogni ostacolo che si frapponesse tra lui e l’Altro. Diventando egli stesso straziata alterità. Un corpo fatto prato, fatto seggiola per Lui. Dubitava degli studiosi, della ‘cultura’, dei filologi della religione:
“Chi lo cerca lasciandosi guidare dall’intelletto
vagherà nella perplessità e vi troverà diletto.
La sua coscienza verrà tratta in inganno
e finirà per dubitare che esista”.
Massignon disse di “una via eroica dell’unione divina”. Allora, forse, la via splendeva, l’eroismo era possibile, prossimo il dio, in ogni mormorio d’erba o intrigo di rondini. Era un mondo di segni, di simboli – di ferocia e di assoluti. A volte, anche il fuoco è scuro, è un lago, e a noi non resta che la veglia – che a pronunciarlo si spacchino le labbra.
**
Con l’occhio del cuore scorgo il Padrone
e gli chiedo: chi tu sei? Tu, egli dice.
Nessun luogo è il suo luogo
perché è in ogni luogo.
L’illusione è illusoria per lui:
come può localizzarlo l’illuso?
Colui che raduna ogni dove
nel nulla ha rifugio.
Nell’annientarmi si annienta
l’annientamento: è lì che ti trovo
uccidendo i nomi e le forme.
Ho preteso me stesso e ho detto: Tu.
Il mio segreto indica Te, il profondo.
Finché non sono morto a me stesso
e tu sei rimasto nelle segrete del cuore.
Ovunque sono, Tu sei.
Tu mi accerchi e non posso
conoscere che te. Ciò che vedo è Tu.
Per questo, modellami nel perdono
nulla desidero tranne Te.
*
Sono l’Amante e l’Amante mi ama:
due anime in un solo corpo –
se vedi me, vedi Lui
se vedi Lui, vedi noi.
*
Dimori nel mio cuore, dove è il segreto
del mio amore per te – che la notte
sia breve, che l’attesa non mi divori:
il mio unico amico è la speranza di averti.
Sono così felice che se ti fa felice distruggermi
distruggimi: qualunque cosa tu voglia, Mio
Assassino, la voglio anch’io!
*
Ho studiato la religione
per possedere la Verità:
ho scoperto che un’unica
radice regge molti rami.
Meglio essere senza fede
per non perdersi nel limbo delle foglie.
Meglio trovare la radice
che rivela ogni senso ed è unica
più chiara del giorno.
*
Immobilità e silenzio, parole caotiche
il sapere, poi, l’ebbrezza, l’annientarsi.
Terra, poi fuoco, poi luce.
Gelo, ombra, meriggio.
Strada contorta di spine, sentieri
selvaggi; fiume, oceano, riva.
Godere, desiderare, amare.
Vicinanza, unione, intimità.
Chiudere, aprire, annullare.
Separarsi, congiungersi, desiderare.
Segni per chi comprende
che ciò che si trova nel mondo
ha scarso valore.
*
Scomparso, resti in me:
ora sei la mia pace.
Nei giorni della separazione
testimonio lo Sconosciuto.
Eri il segreto della mia gioia
conficcato più a fondo di un sogno.
Eri l’amico di un giorno
quello che mi trascina lungo la notte.
*
Uccidetemi, fedeli amici
nella morte è la mia vita.
Amore vuol dire restare
nudi davanti all’Amato
quando sei spoglio di tutto:
soltanto allora i suoi attributi
diventano le tue qualità.
Tra me e Lui, soltanto l’io.
Levatelo, così resterò con Lui.
al-Hallaj
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