Di solito, la storia delle religioni da’ su un bivio implacabile. Da un lato, la
via della Legge – il viatico dell’obbedire – dall’altro quella del cuore –
l’ammutinamento a sé, la più sublime obbedienza. Da una parte, un radicare il
dio in questo mondo, nel mondano; dall’altra, sradicarsi dal mondano, tornare
mondi, rientrare nel feto del tempo, in un perpetuo primo giorno del mondo. La
via ‘legalista’ – che è poi: riflessione nei meandri dei sacri precetti – ha la
sua ancella nella vita ‘attiva’: il fedele partecipa alla Storia, si fa carico
delle storie di tutti, è presente nel ‘sociale’. La sua vita è moralmente
integra: mira a creare una città celeste nelle nostre metropoli. Al contrario,
c’è chi smaterializza la Legge fino al simbolo, fino al suo superamento; si fa
estraneo alla Storia perché partecipe dell’Eterno, non contempla il ‘sociale’ –
pur amando l’uomo come amerebbe un insetto o una pietra – perché tutto è già
salvo: la ‘non azione’, o meglio, la contemplazione – questa è la sua via – lo
porta a estraniarsi dal mondo, a preferire la solitudine. Per gli uni, è da
attendere il Giudizio, che separerà i retti dagli irredenti, per quest’altro il
Giudice ha i contorni sconfinati dell’Amato. All’agorà, all’assemblea, costui
preferisce il deserto – perché soltanto lì potrà rinfocolare un eden, un
giardino –; alla politica predilige i sentieri dell’apolide, alla teologia la
fame, ai paramenti sacri la nudità, al rito la preghiera incessante. Il suo
spazio non è il tempio – angusto chiavistello di Dio – ma il vento, l’incavo tra
le rocce e il roveto, il fuoco e la nube: i luoghi dove agli esordi Dio parlava,
muggiva, fischiava.
Queste due dimensioni – la prima alla luce degli eventi storici, l’altra nelle
tenebre del nascondimento: ma lo spettro di tale lucore è illusorio – presiedono
ogni sentiero spirituale; a volte sono in contrasto, di certo non sono
sovrapponibili. Se il rischio del primo livello è la retorica fine a stessa, il
formalismo, l’Iddio bigiotteria, l’Iddio orpello; quello del secondo è l’afasia,
l’abulia, la confusione tra miracolo e miraggio, fino a fare del deserto un
idolo, della solitudine una regola, una reggia. Al contrario, la via ‘negativa’
incendia ogni norma, ogni ‘normalizzazione’: la regola è l’irregolare, a lambire
il fuorilegge, dacché, per natura, nulla è fuori dalla legge di Dio.
Nato nel gennaio del 1630 in Punjab, all’epoca dell’India Moghul, di Sultan Bahu
sappiamo poco, oltre i veli dell’agiografia, Manaqib-i Sultani, scritta molti
anni dopo la sua morte, accaduta nel 1691. Da ragazzo, amava vagare nelle
foreste; fu la madre, Ravi, nel tentativo di avviare a un destino a temperatura
spirituale quel figlio indocile, ad affidarlo a un maestro sufi. Bahu studiò a
Delhi, si affratellò alla Qadiryya, l’ordine fondato da Abdul Qadir Gilani,
diffuso in India, Pakistan e Afghanistan. Visse scrivendo, insegnando una rude
compassione; fondò una confraternita, “Sarwari”, che predicava l’annientamento
in Dio, l’inutilità dei precetti esteriori, la folgore di un contatto diretto
con il divino. Esprimeva i suoi insegnamenti in poesie di glaciale nitidezza,
sagaci nel paradosso, nell’esasperare i modi della poesia persiana: l’estro
erotico (tipico in Hafez, ad esempio) si esaurisce nella meditazione, in quel
rogo azzurro; il cuore non è più un incendio ma un oceano. A volte, Sultan Bahu
procede per terzine polemiche, che stigmatizzano chi crede di poter ingabbiare
Dio in un luogo, un lemma, un codice:
> “Dio non giace sui troni, Dio non è imprigionato alla Kaʿba
> non troverai Dio nei libri, Dio non è nel mihrab, nel mirare alla Mecca.
> Egli non si sprigiona se nuoti nel Gange o se intraprendi un pellegrinaggio”
La purezza non proviene dal fiume, la fede non si basa sui ‘pilastri’
dell’islam. “Le poesie mistiche di Sultan Bahu esprimo una critica alle forme,
alla cristallizzazione legalista, alle istituzioni del religioso; egli crede
nella possibilità di una relazione individuale con Dio. Bahu enfatizza il punto
centrale del Sufismo: l’assoluto amore, la profonda dedizione a Dio sono il
risultato di uno smarrirsi nel divino. Per ‘annegare in Dio’ è necessario
eliminare tutti gli ostacoli, i desideri, gli umani affetti, l’attaccamento al
mondo carnale, transeunte. Attraverso un sistematico distacco dal mondo e la
pratica dell’ascetismo sotto la guida di un maestro – cioè: meditando
incessantemente il nome di Dio – il Sufi avrà successo e domerà l’anima” (così
Jamal J. Elias in Death Before Dying. The Sufi Poems of Sultan Bahu, University
of California, 1998).
A dire di Sultan Bahu, l’intelligenza serve a sbriciolare l’intelletto, la
cultura distoglie dalla ricerca del vero, la cui lampante evidenza è avvelenata
dai chiosatori. Come tutti i mistici, i poeti-profeti, Bahu ama guerreggiare con
il linguaggio attraverso l’arma del paradosso:
> “Per rintracciare l’Amato ti basti la prima lettera, alif
> non hai bisogno di aprire il Corano”.
Nel suo vagabondaggio nelle tane dell’eterno, Bahu sembra oscillare tra la
“preghiera del cuore” – l’insondabile mantra, auspicio di una perdizione che
orienta, lanterna degli esicasti e del ‘pellegrino russo’ – e i “doveri del
cuore” (Chovot ha-Levavot, il trattato di Bahya ibn Paquda, rabbino vissuto
nella Spagna islamica un millennio fa). Eppure, gli è necessaria la poesia,
garrulo dire da fedele in disgrazia, il cui alimento è l’amore:
> “Come il falcone è impedito al volo se gli legano le zampe
> così, senza amore, Bahu smarrisce ogni parola”.
Sapienza degli insipienti, vocabolario di analfabeti, gloria degli ignoti e
degli ignavi, vita da lebbrosi d’amore: ogni contrasto è varcato da chi percorre
la via negativa. Il frainteso è ovunque, le trappole degli artificieri
d’accademia pure: la vera fede è tacciata di infedeltà, l’innocenza presa per
abominio – ma è proprio quello il segno. Della vita di un uomo, a ben dire, non
resta che il sussurro, il flebile fiorire di una leggenda – un’esasperazione di
oasi. Chiameremmo colibrì quel Corano colabrodo – di lui diranno: si è fatto in
briciole per attirare Dio, perché se ne nutrisse, a piene mani.
*
Sultan Bahu
(Shorkot, Pakistan, 1630 – Jhang, Pakistan, 1691)
Sei infimo se infine
all’essenza divina
non ti affratelli
Fa’ razzia del tuo io
fai a pezzi quella iena
Se i desideri ti sovrastano
resterai uno svergognato
Uno che vive già nella tomba
*
Non sopporto la padronia
del cuore – i desideri
mi logorano
Gli amici non sanno
acquietare il cuore
l’amore è un incendio
Nell’arena dell’amore
tutto arde e tutto muore
Mi sacrifico perché Bahu
persiste nell’impazienza
*
Pietà inondi Shorkot
la città di Bahu
Pietà ammanti
cercatori e pionieri
con la stessa cura
con cui il giardiniere
accudisce i fiori
La divina visione della Pietà
si appropria di te all’istante
Bahu, l’uomo nobile,
accoglie l’amato nella sua casa
*
Vivi nel canto:
sei un discepolo
diventa cercatore
Aggrappati al manto
del maestro – un maestro
diventa
Immergiti nel credo:
se pronunci
continuamente
il nome di Allah
Allah ti purificherà
*
Chi pratica lo spirito
senza la sapienza
è un infedele e morirà
demente
Lo adorano da secoli
ma nessuno conosce Allah
L’ignoranza erige templi
in cui dimora un idolo
analfabeta – c’è
Chi attenta all’Unità
dell’Uno: a lui io
mi attengo
*
Non ha luogo l’intelletto
non ha casa il pensiero
nelle segrete del Glorioso
Non esistono mullah
né astrologhi né chi strologa
in teologia – tutto
Ha annientato il Divino
Io, Bahu, ho avuto accesso
ai misteri della sapienza
senza aprire alcun libro
*
L’amore arde e mi chiama
alla preghiera – le orecchie
rispondono alla chiamata
Eseguo l’abluzione nel sangue
Allah mi chiama, vuole
che io mi annienti:
Nessun ritorno è possibile
Chi accoglie la chiamata
realizza il sapere
*
Soltanto un vero
amante può eseguire
la preghiera d’amore
che non ha parole.
Nessun altro può cantare
l’inno d’amore: egli
Esegue l’abluzione con il sangue
del cuore e le lacrime degli occhi
La lingua non si muove
le labbra non tremano:
questa è la vera preghiera
*
Se ami sei nel rogo
e il tuo cuore è una montagna
Nemici a frotte
fiottano insulti: per te
non sono che prati in fiore
Come Al-Hallaj crocefiggi
il tuo segreto: non
Desistere dall’umiliazione
che continuino a dirti infedele
*
Chi ama vaga
nell’incendio
Vive in due mondi
chi ha donato l’anima
all’Amato
Perché accendere una lampada
quando il cuore è già luce?
Oltre i regni dell’intelletto
Bahu annienta ogni
forma di intelletto
*
Il cuore è un abisso
più profondo dei fiumi
e degli oceani: chi può
dire di conoscerlo?
Nei suoi meandri:
velieri e zattere
alberi e mozzi – come
una vela si dispiegano
i quattordici regni
tra gli spiragli del cuore
chi ha confidenza con il cuore
detto Bahu sarà amato
dal Salvatore
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Sultan Bahu proviene da Pangea.
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Accadde in marzo, era il 922, alle porte orientali di Baghdad. Il califfo ordinò
la crocefissione; lo flagellarono, lo legarono a un tronco di palma, segate mani
e piedi. Esposto – a monito – per una notte. Poi: decapitato, arso il corpo,
ceneri spalate nel Tigri. Che di lui non resti memoria, che del suo dire si
abusi fino a usura. Tentarono di estirparne gli insegnamenti; atterriti gli
scarsi discepoli. Come sempre: aura di traditori attorno a lui. Secondo un
compagno di prigionia,
> “quando venne portato sul luogo della crocefissione e vide travi e chiodi,
> scoppiò a ridere, tanto da averne le lacrime agli occhi”.
Le memorie di al-Hallaj sono piene di risa: “camminava leggero malgrado le
catene, ridendo”; “scoppiò in una fragorosa risata”; “mentre si avviava al
patibolo, sorrideva”. Non è, la sua, risata di scherno; non è la risata di
Democrito che ride dell’insipienza degli abderiti, che ride sopra la vita e la
morte. La risata di al-Hallaj è come la danza dei dervisci: è l’abbaino
dell’abbandono, l’alcova dell’unione, è l’ultima serratura prima
dell’annientamento.
Ridere, cioè: compiersi.
Agli astanti che gli chiedono: “Cosa ti fa sorridere?”, il maestro risponde, “Le
moine della Bellezza quando chiama gli eletti all’unione”.
Secondo Abu Bakr al-Shibli, le ultime parole di al-Hallaj, pronunciate “con voce
altissima”, mani e piedi amputati, sono queste:
> “Solo conta per l’amante che l’Unico lo riporti all’unità”.
Credeva che il punto supremo della sofferenza coincidesse con quello della
rivelazione – lo umiliarono perché aveva osato dire Anā al-Haqq, io sono Dio
(ergo: io sono la verità ultima). Mangiava pochissimo – “non l’ho mai visto
mangiare altro che sale e aceto”, giura uno dei suoi discepoli –, indossava un
vecchio abito, un cappuccio; se era festa, vestiva di nero, “è l’abito, diceva,
di chi vede respinte le sue opere”.
Praticò l’unione mistica, percorse la via negativa. Era lui a predare Dio perché
di Dio era la preda – al culmine della caccia (che è poi la danza) perfino il
sangue svasa in vento, la carne è un inconveniente del prossimo inverno. Roba su
cui si accucciano i corvi, i re della terra.
Alla conoscenza anteponeva la vertigine – a cui seguiva, secondo una gerarchia
dello sprofondare, lo stupore, la contemplazione, l’annientamento. Di al-Hallaj
si tramandano versi spesso paradossali (parte del suo Diwanè stato tradotto in
Italia da Alberto Ventura, per Marietti 1820, nel 2005); in un distico il sommo
maestro insegna che l’annientamento si annienta annientandosi – a quel punto,
l’io, libero da ogni norma e da ogni contro-norma, destro a ogni addestramento e
a ogni sobillazione del sé, innocuo, superiore al sapere e al non sapere, è
davvero libero. È acqua e usignolo, è lupo e crocevia, è la bava
dell’Insondabile.
> “Quando Dio si impossessa di un cuore lo vuota di tutto ciò che non è Lui.
> Quando si lega a qualcuno, lo annienta per chiunque altro. Quando prende in
> predilezione una persona, incita i suoi servitori a perseguitarla, affinché la
> spingano verso di Lui e continui così ad avvicinarsi. Ma come spiegare ciò che
> mi accade: di Dio non trovo traccia, né avvicinandomi intravedo bagliore,
> eppure la persecuzione continua!”
Notizie su al-Hallaj – in Italia: Morcelliana, 2012, a cura di Luisa Orelli – è
un libro formidabile perché al di là della libraria forma. Lo è, intendo, l’idea
stessa dell’Akhbar: sono assemblate, senza preoccupazione cronologica,
un’ottantina di testimonianze di discepoli, amici, ignoti attorno alla vita del
maestro. A volte si narrano episodi biografici, altre volte frammenti
sapienziali. L’eterogeneità delle lasse rende mutevole, inquieta la lettura: non
ci sono maniglie narrative, cunicoli, raccordi, come nelle agiografie o nelle
devote biografie – qui è un precipizio, un invito alla fuga. Tutto, cioè, è
foriero di fraintesi – tutto comporta il frantumarsi – che il frumento così
creato sia fecondo non è da credervi.
Allo stesso tempo, si balbetta lo Pseudo-Dionigi, si entra nell’antro di Borges:
> “Dio non ha dove, non lo contiene un luogo. Non ha quando, non lo definisce un
> tempo. È al di là del cuore e dei sentimenti. Non si presta a scoperte e
> spiegazioni. È troppo santo per essere percepito dai nostri sguardi e
> afferrato da pensieri e congetture”.
Non fu un mero contemplativo, al-Hallaj. Preferì la predicazione – cioè: la
provocazione pubblica – e il pellegrinaggio. Si dice abbia raggiunto la Cina, si
dice di ragguagli sul taoismo e altre discipline. Ad ogni modo, il più profondo
non ha verbi per essere comunicato, non è vile polline che va di orecchio in
orecchio a fioritura di sette e di club filosofici. Di al-Hallaj si dice che
mormorasse tra sé “parole di cui nessuno intese il significato”. Così, il
discepolo si abitui ad avanzare in un regno che non ha definizioni, che non si
confina in quie là:
> “L’iniziato è colui che sceglie di non avere legami con questo mondo e con
> l’altro”.
Così Luisa Orelli riassume la via di al-Hallaj:
> “La conoscenza di Dio è una in-conoscenza (docta ignorantia): in quel buio in
> cui la mente è come cieca, lì, come disse Eckhart, Dio splende; nella caligine
> luminosa del non sapere nella quale si immerse Mosè, modello, anche per
> al-Hallaj, di quella conoscenza che supera il confine che delimita
> l’inaccessibilità divina. È questa la via apofatica; una via negationis che
> procede per via di togliere, e prelude (come in alcuni procedimenti
> calcografici: cavando la luce dal nero) alla teofania”.
Dobbiamo la conoscenza di al-Hallaj all’orientalista Louis Massignon: lo
affascinavano, di quel martyr mystique de l’Islam, i legami con l’esperienza di
Cristo. Amico di Huysmans, imparò l’arabo, viaggiò in Marocco. Al Cairo, nel
maggio del 1907, scopre la figura di al-Hallaj, a cui consacra i suoi studi: nel
’22, alla Sorbona, discute un dottorato su La passion d’al-Husayn-ibn-Mansur
al-Hallaj, che è poi il primo passo del lavoro sommo, La Passion de Hallaj,
edito in quattro volumi da Gallimard nel 1975 (poi 2010; in inglese esce nel
1983 per la Princeton University Press). Nel 1908, dopo l’arresto da parte delle
autorità ottomane con l’accusa di essere una spia e un tentato suicidio, si era
convertito al cristianesimo (“Lo Straniero mi visitò una sera di maggio, sul
Tigri, nella cella della mia prigione, le corde serrate dopo due tentativi di
fuga: entrò, le porte erano chiuse, e infiammò il mio cuore, quel cuore che il
coltello aveva mancato, e cauterizzò la mia disperazione, la spaccò, come la
fosforescenza di un pesce che emerge dal fondo di acque abissali”). Nel dicembre
del ’17, era entrato a Gerusalemme insieme al generale Edmund Allenby: al suo
fianco, T.E. Lawrence. Pur avversari nell’agone politico, si rispettavano.
Ispirato da Charles de Foucauld, gli fu concesso, nel 1949, di accedere al rito
melchita: in al-Hallaj, Massignon scorgeva il punto d’unione tra cristianesimo e
islam.
Spesso le parole del maestro prefigurano l’orrenda fine – “Morirò nella
religione della croce: niente più Mecca o Medina all’orizzonte”. Fu tradito,
intrappolato, “condannato davanti a un tribunale eccezionale, mediante una
formula manipolata ad arte, attraverso la sentenza di un giudice prevaricatore”.
Non voleva trascendere la legge, ma interiorizzarla, escludendo ogni ostacolo
che si frapponesse tra lui e l’Altro. Diventando egli stesso straziata alterità.
Un corpo fatto prato, fatto seggiola per Lui. Dubitava degli studiosi, della
‘cultura’, dei filologi della religione:
> “Chi lo cerca lasciandosi guidare dall’intelletto
> vagherà nella perplessità e vi troverà diletto.
> La sua coscienza verrà tratta in inganno
> e finirà per dubitare che esista”.
Massignon disse di “una via eroica dell’unione divina”. Allora, forse, la via
splendeva, l’eroismo era possibile, prossimo il dio, in ogni mormorio d’erba o
intrigo di rondini. Era un mondo di segni, di simboli – di ferocia e di
assoluti. A volte, anche il fuoco è scuro, è un lago, e a noi non resta che la
veglia – che a pronunciarlo si spacchino le labbra.
**
Con l’occhio del cuore scorgo il Padrone
e gli chiedo: chi tu sei? Tu, egli dice.
Nessun luogo è il suo luogo
perché è in ogni luogo.
L’illusione è illusoria per lui:
come può localizzarlo l’illuso?
Colui che raduna ogni dove
nel nulla ha rifugio.
Nell’annientarmi si annienta
l’annientamento: è lì che ti trovo
uccidendo i nomi e le forme.
Ho preteso me stesso e ho detto: Tu.
Il mio segreto indica Te, il profondo.
Finché non sono morto a me stesso
e tu sei rimasto nelle segrete del cuore.
Ovunque sono, Tu sei.
Tu mi accerchi e non posso
conoscere che te. Ciò che vedo è Tu.
Per questo, modellami nel perdono
nulla desidero tranne Te.
*
Sono l’Amante e l’Amante mi ama:
due anime in un solo corpo –
se vedi me, vedi Lui
se vedi Lui, vedi noi.
*
Dimori nel mio cuore, dove è il segreto
del mio amore per te – che la notte
sia breve, che l’attesa non mi divori:
il mio unico amico è la speranza di averti.
Sono così felice che se ti fa felice distruggermi
distruggimi: qualunque cosa tu voglia, Mio
Assassino, la voglio anch’io!
*
Ho studiato la religione
per possedere la Verità:
ho scoperto che un’unica
radice regge molti rami.
Meglio essere senza fede
per non perdersi nel limbo delle foglie.
Meglio trovare la radice
che rivela ogni senso ed è unica
più chiara del giorno.
*
Immobilità e silenzio, parole caotiche
il sapere, poi, l’ebbrezza, l’annientarsi.
Terra, poi fuoco, poi luce.
Gelo, ombra, meriggio.
Strada contorta di spine, sentieri
selvaggi; fiume, oceano, riva.
Godere, desiderare, amare.
Vicinanza, unione, intimità.
Chiudere, aprire, annullare.
Separarsi, congiungersi, desiderare.
Segni per chi comprende
che ciò che si trova nel mondo
ha scarso valore.
*
Scomparso, resti in me:
ora sei la mia pace.
Nei giorni della separazione
testimonio lo Sconosciuto.
Eri il segreto della mia gioia
conficcato più a fondo di un sogno.
Eri l’amico di un giorno
quello che mi trascina lungo la notte.
*
Uccidetemi, fedeli amici
nella morte è la mia vita.
Amore vuol dire restare
nudi davanti all’Amato
quando sei spoglio di tutto:
soltanto allora i suoi attributi
diventano le tue qualità.
Tra me e Lui, soltanto l’io.
Levatelo, così resterò con Lui.
al-Hallaj
L'articolo “Le moine della Bellezza”: la via mistica di al-Hallaj proviene da
Pangea.