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Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi”
> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti > al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica > Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio) > “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai > Corinzi, 12, 2) > “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e > l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque”  (Genesi, 1, 2) a te, che tutto è cuore.  ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor: ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman, offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson 1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio. questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra riflessione o obiettivo:  con parole tue, “essere con, essere verso” nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola, “l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad abbracciare l’amore divino, in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”  per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici, entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio (Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che “nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio. > SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38) lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è “ospitalità”, in cui host e guest sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato” (Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore, cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del cuore:  > “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; > è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua > vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi > griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).  per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza, è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano diventa capiente per accogliere Dio.  nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo, ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa fa della Terra la casa di una splendida finitudine: > “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del > planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami > con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli > fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno > d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.  lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.  “Guarda là”  torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.  “e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”  quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio” per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità, una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica, il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151), del “crollare di candore”, “petto scalzo”,  > “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace, > disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in > ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno” > “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si > frana, su sé stessi di spalle” Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).  si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,  > “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,” nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987), ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione, sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil 2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un “Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione, sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio, nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento. un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando Meister Eckhart, gravida del nulla:  > “l’indimostrabile del cosmo che vibra” vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.  fermagenesi nel suo mentre.  > “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo” si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con il linguaggio, puro avvenimento,  > “ortogonale al parlato, > è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo” per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/ Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori […]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la ‘realtà’ empirica del senso comune. > “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le > ombre” > “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto” mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti, presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente ‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate, continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale, orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.  più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica non i cuori materia ma il loro rosso. > “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio” lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani, se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo, quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede, incarnazione del sacrificio cristico,  > “sangue acceso di fiume aperto” creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento. Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del “volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore, “rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/ Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).  > “bocciolo di punta” rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale, nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto, radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o indipendentemente da essa” (Idem, 33).  penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì assorta, ogni nuova infanzia. Cristiana Panella * Riferimenti bibliografici Agostino, Le confessioni. Testo latino a fronte. A cura di Maria Bettetini. Trad. di Carlo Carena. Torino: Einaudi, 2000. Agostino, Commento ai Salmi. A cura di Manlio Simonetti. Milano: Mondadori, 1989. Barsotti, Divo, La mistica della riparazione. Pref. di Giuseppe Gioia. Melara: Edizioni Parva, 2002. Bibbia. Progetto e direzione di Enzo Bianchi. A cura di Mario Cucca et al. Trad. di Enzo Bianchi et al. Torino: Einaudi, 2023. Bignozzi, Isabella, Fermagenesi. Quarta di copertina di Mara Cini. Verona: Anterem Edizioni, 2025. Cirlot, Veronica et al. (a cura di) La mistica cristiana (vol. 2). Progetto editoriale di Francesco Zambon. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2021. Chrétien, Jean-Louis, L’effroi du beau. Parigi: Les Éditions du Cerf, 1987. Chrétien, Jean-Louis, La voix nue. Phénoménologie de la promesse. Parigi: Les Éditions de Minuit, 1990. Chrétien, Jean-Louis, L’appel et la réponse. Parigi : Les Éditions de Minuit, 1992. Chrétien, Jean-Louis, La joie spacieuse. Essai sur la dilatation. Parigi : Les Éditions de Minuit, 2007. Gerson, Jean, Teologia mistica. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1992. Giovanni della Croce, Opere complete. Prefaz. di P. Emilio José Martίnez González. Introd. di Federico Ruiz. Roma: OCD, 2020.  Henry, Michel, Incarnation. Une philosophie de la chair. Parigi: Seuil, 2000. Henry, Michel, Fenomenologia materiale. A cura di Pietro d’Oriano. Milano: Guerini e Associati, 2001. Henry, Michel, Parole del Cristo, Brescia: Queriniana, 2003. Henry, Michel, Auto-donation, Parigi : Beauchesne, 2004. Hillman, James, L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Milano: Adelphi, 2002. Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of Himma”, Religions, 14 (3), 385, 2023. Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014. Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018. Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.  Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018. Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008. L'articolo Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi” proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
“Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo
Il Vangelo di Marco, come si sa, finisce con un colpo di ghigliottina, con una immedicabile cesura. Giunte al sepolcro vuoto, le tre donne – “Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome” – scappano, “fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore”. Paura le ammutolisce, “e non dissero niente a nessuno”.  Se investighiamo il greco le cose assumono un’altra sfumatura. Le donne scappano perché tremano (tromos) colte da estasi (ekstasis). Sono come in trance, sono fuori di sé, rapite da dionisiaca ebbrezza: anch’esse un sepolcro vuoto. Uno degli epiteti del “Dio vivente” è il terrore: è “terribile (phoberos) cadere nelle mani del Dio che vive”, scrive Paolo. Un terrore che impone riguardo, devozione.  Alle estatiche donne un misterioso “giovane… vestito d’una veste bianca”, assiso di fianco al sepolcro, dice che “Gesù Nazareno, il crocefisso, è risorto, non è qui… Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Il timore delle donne davanti al giovane (“ed ebbero paura”) ricorda il turbamento di Maria di fronte all’angelo: lì si annunciava una nascita miracolosa, qui una ancor più miracolosa seconda nascita. È più facile credere all’invisibile che si annuncia in nuce d’angelo che alla verità di un corpo disfatto, maciullato, sviscerato, disossato di sé, grave di sangue.  Chissà se poi le donne sono andate, in Galilea.  La Sapienza di Gesù Cristo comincia da lì: dal dubbio, dal timore, dall’estasi. Il testo gnostico, databile tra il II e il III secolo, è conservato nel Papiro di Berlino (1896), tra i papiri di Ossirinco e nella vasta messe di testi scoperti a Nag Hammadi. Era dunque testo noto, importante, fin nella sovrabbondanza del titolo. In lingua inglese esiste la traduzione completa di Douglas M. Parrott; Mauro Pesce ne ha inglobato alcune lasse in Le parole dimenticate di Gesù (Fondazione Lorenzo Valla, 2004). In questa Sophia, il Cristo appare trasfigurato, irriconoscibile (“non nella forma che ricordavano”): il dialogo con i discepoli – la prima domanda, che implica una gerarchia, è di Filippo; poi prendono la parola Matteo, Tommaso, Maria e Bartolomeo – permette al Salvatore di spiegare la creazione del mondo e del tempo, il fine del creato, il destino dei discepoli. Secondo la cosmogonia gnostica, esiste un Padre originario, un pre-Padre, che inaugura la lenta opera di autoconoscenza; Sophia è l’elemento femminile del divino. Alle origini, è un proliferare di legioni angeliche, di celesti esseri, di abnormi creature in una continua dinamica di azione e distruzione (d’altronde, “C’erano sulla terra i giganti”, si dice in Gn 6, 4). Il Salvatore, per così dire, è eccedenza – finanche, difetto, benefico veleno – nell’ordine delle cose: rompe lo schema di vita-e-morte, si disgrega dall’immobilismo divino, porta la luce “vengo per estirparvi dall’oblio”. Il Salvatore è una figura prometeica.  La Sophia Jesu Christi fonde la rivelazione evangelica ai misteri greci; ciò che anima il testo è ossessione per la salvezza, per la purificazione; centrale è la domanda sul senso del male, centrale è il corpo corrotto che tenta riparo, ristoro. Il sistema gnostico prevede un’aristocrazia dell’intelletto: si ascende tramite strenuo percorso conoscitivo. Ciò che svanisce, è la cuspide dell’evangelo: il Crocefisso, l’Iddio dei corrotti, l’Iddio dal corpo rotto e in rovina. Tale carnalità latra – incute terrore. Il non avere altro che quello – sangue che stilla dalle stimmate – confonde, confina nel dubbio. Nella Sophia, secondo lo schema della sapienza greca, il Padre forgia il creato dopo essersi osservato in uno specchio (“Vide se stesso in uno specchio”). Ma lo specchio è il demoniaco – la copia che divora l’origine, l’originario. A dire di Proclo, fu Efesto a “fabbricare uno specchio per Dioniso” e “il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”. Figura ambigua, lo specchio: fa dell’apparente un’apparizione; chi cerca di riconoscersi in esso si trova disconosciuto, contraffatto. Cosa deve vedere di sé il Padre in uno specchio – cosa che già non sappia? Nella Sapienza di Gesù Cristo lo specchio è abisso, buco nero, vortice – è la grande vulva, il dio per sempre gravido che crea copie di copie di copie di sé. Dio-feto, dio-incesto.  Nel Vangelo, piuttosto, il Padre si rispecchia nel Figlio; Gesù si rispecchia nei volti sbigottiti dei discepoli – fino a che punto il Risorto è diverso dal Nazareno?  In questo gioco di specchi – che, contrapposti, sfoggiano l’infinito – cosa resta, quale l’arenaria che possiamo dire ‘immagine’? Quale l’originale? San Paolo – in 1 Cor 13, 12 – lega lo specchio all’enigma: lo specchio-Sfinge ci fissa divinandoci, divorandoci. Lo specchio-Polifemo, lo specchio-Sauron: nostro compito è sfuggire all’onnipotente fame dello specchio per ridiventare noi, per ricondurci nel greto della vera forma.  Galilea – il luogo dell’appuntamento con il Risorto, che è il luogo dove tutto ha avuto inizio (Mc 1, 14) – è il lemma di una geografia sapienziale, è nome al di là del nome. Come fu Israele per gli ebrei, Galilea sia il nuovo nome dei cristiani: Galilea è il luogo in cui tutto si sprigiona, in cui tutto si sbriciola.  Il proliferare dei detti gnostici null’altro dice se non che la conoscenza è il solo peccato, è l’ambone da cui professa il demone della separazione e della confusione. Gesù non si apprende perché è lui il predatore, è lui che ti prende. Gesù, il sommo analfabeta – secondo la spiazzante intuizione di José Bergamín – non si installa in codici, in grammatiche, in enciclopedie. La sola sapienza, qui, è l’insipienza, l’uscita da sé, la santa insania dei folli e degli ispirati. Il regno di questo mondo – dei filosofi e degli esperti, degli scaltri e dei letterati – mostra la sua indecente indegnità: tutto è disperso, ora – chiamateci disperati, è sconveniente, ai vostri occhi, perfino questa gioia che ha dote di lacrime.  ** Sapienza di Gesù Cristo (II secolo) Dopo essere risorto dai morti, i dodici e sette donne lo seguirono, si diressero in Galilea nel monte detto ‘Divinazione e Gioia’. Uniti, erano, e dubbio li avvelenava sulla realtà dell’universo, sui piani della santa provvidenza, sul potere delle potenze e su tutto ciò che il Salvatore compiva nel segreto. Allora apparve il Salvatore – non nella forma che ricordavano ma in invisibile spirito. Somigliava al grande angelo della luce. Ma non mi è dato descrivere il suo aspetto. Nessuna carne mortale può contenerlo, ma solo la carne pura e perfetto che egli ci ha mostrato sul monte detto ‘Degli Ulivi’.  E disse: “Pace a voi, a voi do la mia pace”. Spavento li confuse. Rise il Salvatore dicendo, “Cosa pensate? Che dubbio vi divina? Di cosa siete in cerca?”.  * Disse Matteo: “Signore, a verità nessuno può accedere se non tramite te. Inoltraci alla verità”. Disse il Salvatore: “Colui che È è ineffabile. Nessuno principio lo preda né autorità né obbedienza a creatura alcuna dalla fondazione del mondo – proviene dalla Prima Luce e soltanto a chi vuole si rivela. Da ora io sono il Grande Salvatore. Immortale, eterno egli è. Non ha nascita perché ogni cosa che nasce muore. Ingenerato, non ha inizio – chiunque ha inizio, infatti, finisce. Nessuno lo governa e non ha nome – chiunque ha nome, è la creazione di un altro… È infinito, dunque è incomprensibile. È imperituro e non somiglia a nulla. È immutabile nel bene. È senza difetto. È eterno. È il benedetto. Da tutti sconosciuto, è la conoscenza in sé. Incommensurabile – irraggiungibile – perfetto – immortale. Ditelo: ‘Padre dell’Universo’”.  * Maria gli chiese: “Signore, come possiamo conoscerlo allora?” Il Salvatore, il perfetto, disse: “Giungi alle cose invisibili, oltrepassa la soglia del visibile. Il Pensiero ti rivelerà che la fede nell’invisibile si trova setacciando le cose visibili, investigandole. Chi ha orecchie per udire, ascolti! Non ‘Padre’ si chiama il Signore dell’Universo, ma ‘Pre-Padre’, principio di chi apparirà, antenato che non ha inizio. Vide se stesso in uno specchio – si vide somigliante a se stesso – apparizione pari al Divino Padre di Sé, confronto di ogni confronto, il Primo Esistente Ingenerato Padre. Pari in antichità della Luce che lo precede ma non lo eguaglia in potenza. In seguito apparve moltitudine di esseri autogenerati, eguali in età e potenza, in gloria, innumeri, la cui stirpe è detta ‘Generazione Senza Regno’. Quella moltitudine non soggetta a regno è detta ‘Figli del Padre Ingenerato, Dio, Salvatore, Figlio di Dio’, e con voi ha somiglianza. Ma ora lui è lo Sconosciuto, l’inconoscibile grave di inalterabile gloria, di ineffabile gioia. Tutti riposano in lui, esultano in lui, giubilo che non ha misura; questo non è mai stato udito finora negli eoni e nei mondi”. Matteo gli chiese: “Signore, Salvatore, come si è rivelato l’Uomo?” Il perfetto Salvatore disse. “Voglio che tu sappia che colui che apparve all’universo nella sua infinità, l’Auto-eletto, l’Innato, il gravido di luce, al principio, quando decise di dare la sua immagine a una potenza, quella Luce apparve come l’Immortale Uomo Androgino, affinché attraverso di lui potessero giungere a salvezza e risvegliarsi dall’oblio, attraverso l’inviato, il solo interprete che è con voi fino alla fine della povertà e della razzia.  Sua consorte è Sophia, fin dal principio destinata a unirsi a lui tramite il Padre Auto-generato e l’Uomo Immortale, che apparve come Primo in divinità e regno, come concesso dal Padre. E creò un grande eone, ‘Ogdoade’ è il suo nome, in onore alla sua maestà. Autorità gli fu data e nel suo governo creò povertà. Creò dèi e angeli, arcangeli a miriadi, da quella Luce e tripartito Spirito che è Sophia, sua consorte. Da questo, Dio originò divinità e regno. Da allora è ‘Dio degli dèi’, è detto ‘Re dei re’.  Da ciò che fu creato apparve ciò che fu plasmato; da ciò che fu plasmato ciò che fu formato; da ciò che fu formato ciò che fu nome. Così nasce la differenza tra gli ingenerati, dal principio al termine”.  * “Chi viene al mondo è una goccia di Luce: viene al mondo per ricondursi nella Sua custodia. Vincolo di dimenticanza volle Sophia, perché attraverso di lei l’Onnipotente possa rivelarsi in questo modo povero nonostante la cecità l’arroganza l’ignoranza con cui lo riempiono di nomi. Ma io sono giunto dai luoghi superiori per volontà della Luce, io sono slegato da ogni vincolo; ho spezzato l’opera dei ladri e dei bugiardi; ho trafugato la goccia di luce di Sophia perché portasse frutto attraverso di me, perché la gloria si diffonda e i suoi figli, non più imperfetti, possano ritornare al Padre. Io vengo per estirparvi dall’oblio, perché l’impuro non si manifesti più: calpesto ogni malvagio intento”.  *In copertina: William Blake, The Angel Michael Binding Satan, 1805 ca. L'articolo “Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo proviene da Pangea.
October 30, 2025 / Pangea
Intorno a uomini-bestia e a donne che allattano lupi e cerbiatti
In un testo “sul fine conforme ai voleri di Dio e sulla vera ascesi”, Gregorio di Nissa intima ai cristiani di non degradare in Minotauro o Centauro. Il primo, corpo umano e “testa di vitello”, è l’uomo irragionevole, che “resta in balie di dottrine idolatre”; il secondo, busto da uomo e corpo da sauro, è retto da selvaggia “passione per il sesso femminile propria dei cavalli”. Nel suo dire – in: Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, Città Nuova, 1979 –, il Padre della Chiesa stigmatizza il credo pagano, ben radicato nel IV secolo. Il mito, infatti, insiste sulla ‘confusione’ tra uomo e bestia, è affascinato dall’unione sacrilega tra umano e animalesco: da qui il proliferare di chimeriche creature, centauri, minotauri, satiri, sfingi.  Caratteristica del dio, inoltre, è mutarsi in qualsiasi altro essere: per portare a risultato le proprie seduzioni, Zeus si fa toro e cigno, aquila e pioggia e nuvola… Nelle Metamorfosi – specie di travolgente epica enciclopedica del mito – Ovidio insegna che tutto è soggetto al mutamento, che ogni forma esegue il proprio contrario, per capriccio divino e voluttà. È il desiderio a muovere l’azione, che sia atto di predazione, predizione, predilezione per l’ira, l’invidia, la rovina in rabbia. Così: Cadmo e Armonia divergono in serpenti; Aretusa si muta in fonte (che zampilla a Ortigia); Niobe diventa di pietra; Dafne si fa alloro; Licaone, sovrano in Arcadia, muta in uomo-lupo – e così via. Fantomatica araldica di creature sfuggenti, che generano, per proliferazione, ulteriori forme, fraintesi, inseguimenti. In uno dei “sogni di sogni” registrati da Antonio Tabucchi, Ovidio sogna di mutarsi in farfalla; è lo stesso sogno fatto da Zhuangzi, il grande pensatore cinese vissuto tre secoli prima del poeta latino: “Ma egli non sapeva se fosse Zhuangzi che aveva sognato di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuangzi”.  In sostanza, Gregorio di Nissa insegna a essere integralmente, perentoriamente uomini. Questo corpo – spirito & carne – donatoci da Dio va restituito intatto, ben custodito, non più imbestiato – senza alcun merito, aspiriamo a risorgere, non più a latrato o a ladrocinio. Con il cristianesimo, sembra definitivamente finito il tempo degli dèi proteiformi – greci o egizi o mesopotamici: con divinità dalla testa di leonessa e di sciacallo, dèi alati, dee ferine, continuamente gravide – e delle forme mutanti. Più che altro, sembra separato il regno umano, di quelli somiglianti a Dio, da quello delle altre bestie. Non è del tutto vero. L’uomo si incarica di tutte le creature animali – Noè – e ne assume i paramenti simbolici: Davide ha in sé l’audacia del leone e del lupo, le bestie che ha imparato a conoscere portando al pascolo il gregge del padre. L’anima – nephesh, il sé – è paragonata alla “cerva” che “anela ai corsi d’acqua” (Sal 42, 2). D’altronde, Cristo, “divinamente e umanamente analfabeta” – José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, Rusconi, 1972: devo a Tommaso Scarponi l’aver riportato in memoria, fallacia d’anni, questo mirabile testo –, abita dove non è uomo, spinto al deserto (erémos; cioè, il desolato, il selvaggio) dallo Spirito (Pneuma), “stava tra le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13).  Secondo tradizione, Gesù è l’Agnello, Agnus Dei, e “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5, 5); nei bestiari medioevali è pellicano e cigno, pavone e pantera. Non si disgiunge il divino dall’animalesco, quasi che quella fosse la sua vera figura, l’esattezza. Anche gli evangelisti – incarnazione del tetramorfo (Ez 10, 14), sono leone e angelo, toro e aquila. Pienamente uomo – cioè: altro.  Allo stesso modo, l’ibrido inietta un fascino sovrannaturale. Il lupo che allatta l’uomo – Romolo & Remo nella plaga Palatino; Mowgli nella giungla indiana –; la donna che dà latte alla bestia. Ogni nascita ‘speciale’ ha specificità ferina – oppure, a contrasto, virginea sprezzatura. In alcune raffigurazioni, la Vergine è affiancata dal Bambino e dall’agnello, simbolo di Giovanni Battista: nulla vieta che offra il suo portentoso latte a entrambi. In Amazzonia le donne Awá-Guajá sanno allattare alcuni cuccioli animali rimasti orfani come le Baccanti, secondo Euripide, offrono il seno a cuccioli di lupo e di cervo – le menadi che a nude mani squartano la bestia e di carne cruda si nutrono, hanno ruolo centrale nei misteri di Orfeo, che riguardano il linguaggio dei primordi, la poesia.  Potenza che lacera, quel latte: biancore a colpi d’ascia, tra la Via Lattea e l’addentare, l’adorare quel bianco-bianco, quell’avorio, tesoro a piena bocca, di gioiello e di mela.  In una delle poesie più belle, Fawn’s Foster-mother – raccolta in Cowdor and Other Poems, 1928 – Robinson Jeffers racconta di una signora che ha allattato, da neomamma, un piccolo di cervo. L’ha fatto con naturalezza, con ruvida gioia. La signora abitava con il marito nell’odierno Garrapata State Park, poco lontano da Big Sur, California, e da Carmel, dove il poeta aveva costruito, nell’arco di cinque anni, dal 1919 al ’24, la sua mitologica casa, “Tor House”, in pietra, per sé e la sua donna, Una, secondo lo stile dei castelletti irlandesi. Nessun simbolo aliena la poesia di Robinson Jeffers da una quotidianità lattescente, pugnace: pare che la donna abbia amato quel cerbiatto più dei suoi figli. La poesia è tra le predilette da Ted Hughes, poeta di corvi, lupercali, lupi; un autentico bardo che ha imbastito bestiari per tutta la vita; un poeta-Chirone, un poeta-sciamano che sa auscultare le viscere e le stelle. Di ogni poeta, d’altronde, non cerchiamo l’anima, ma il dire animalesco.    ** La madre adottiva del cervo La vecchia siede davanti alla porta, su una panca, litiga con la megera figlia, pallida, depressa.  Una volta, passando di lì, l’ho vista ridere, sola, al sole: mi raccontò di quando si era appena sposata, stava in una vecchia fattoria in cima al Garrapatas Canyon.  (Ora quella casa è vuota: il tetto crollato muraglie di tronchi tra le vive pietre; le sequoie sono state abbattute ma le querce reggono ancora; il luogo è più solitario che mai). “Allattavo il mio secondo figlio; mio marito  trovò un cerbiatto nascosto in un bosco di felci; era giorno, me lo portò, gli misi il muso al seno; piuttosto che lasciarlo morire di fame, pensai: avevo latte a sufficienza per tre bimbi. Come succhiava  quel piccolo frugolo: affondava i piccoli zoccoli nel mio stomaco come fossero aculei.  Mi ha dato più gioia lui di tutti gli altri”.  Il viso, deformato dall’età, sembra una strada  disfatta dai carri, è roso dalla meschinità e dall’incuria.  Cella di pelle secca, pura superficie che molto presto  si staccherà dalle palpebre della terra: eppure, ha avuto anche lei la sua primavera, ha vissuto nelle arterie che fecondano il mondo, nella musica della montagna. Robinson Jeffers *In copertina: Jean-Léon Gérôme, La Baccante, 1853 L'articolo Intorno a uomini-bestia e a donne che allattano lupi e cerbiatti proviene da Pangea.
October 11, 2025 / Pangea
“Dell’amore che buca l’opacità del mondo”
La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio: scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite. Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore, la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel visibile. L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali, che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle tre essenze trinitarie. La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente, del reciproco amore. Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo dell’umana ferita. Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di inadeguatezza, pur adorante, grata. Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’, non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale. È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene vocazione. Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca. * Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave, dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/ e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il poeta schiude interiormente al sublime:  > “Io mi porto questo verde alle labbra – > questo vischioso giurare di foglie – > e questa terra che è spergiura: madre > di bucaneve, aceri, quercioli. > > Mi piego alle umili radici, e guarda > come divento insieme cieco e forte”[5]; di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza, rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e parola:  > “dura è la terra, secondo coscienza. > Rintraccerai a stento più puro ordito della > verità d’una tela di bucato. > > Si disfa come sale, nella botte, una stella; > più buia è l’acqua gelida, più pura > la morte, più salata la sventura, > ed è più onesta e paurosa la terra”[6]. Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo, dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della soverchiante plenitudine, non saper dire:  > “Superando la fissità della natura > il durazzurro occhio ne penetra la legge: > nella crosta terrestre impazzano le rocce, > dal petto sgorga un lamento minerale. > > E il sordo animalcolo si tende > come per una strada a corno ritorta, > per capire l’eccesso interno dello spazio, > del petalo pegno, e della cupola”[7]. La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta:  inerme alla volgare alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio, celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9]. Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi, dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato; così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti albori di neve, a recitare Dante e Petrarca. * La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave, avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:  > “A tu per tu, il gelo in volto io fisso; > lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla; > stirata, pieghettata, senza grinze, > respirante miracolo, pianura”[11]. Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale: disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma, segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio] dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità assoluta”[15] È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro, immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che, “come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza. È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura: inclinazione sofferta al mistero. * Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto: “Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e povertà, adorando.  Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma di devozione radicata nell’umiltà. * Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e sferzata dagli automatismi della necessità. L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo, a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni” della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati, fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza: > Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di > discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non > procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina, > non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per > infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa > avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre > sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è > pura, santa, semplice e vera. Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio, come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano. Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, – che dà nome al saggio, afferma: > Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo > che non la dilatazione del piccolo nell’immenso. Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle bolle”. Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità. L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida tensione alla salvezza: > In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze > sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno > si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22] In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino: > Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre > alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il > Salterio[23]. Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un assenso, obbedienza al presagio, all’elezione. Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco, ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo come sono, è una forza che spaventa”.[24] L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore legato che precludeva l’impossibile. Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto: cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven, timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità, nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa. Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26]. Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto, fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza: che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia, conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la chiamò a sé. Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’ scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé, ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28]. Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime: Io nulla Primizia del mio tempo Orlo del velo che copre la presenza Dal vivo occhio mi penetra Un raggio di pura luce Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo alla presenza Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla Oso fiorir Sciàmano pensieri di pura luce La via dell’assoluto rischiara Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Fai cantare alla mia lingua Melodie sconosciute Che nascono nel cuore La notte se ne va Primizia del mio tempo Alla tua presenza Io nulla, io nulla, io nulla Davanti a te Io nulla Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è, come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare. Isabella Bignozzi -------------------------------------------------------------------------------- [1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223 [2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56 [3] ibidem, p. 52 [4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi editore 2009, p. 5 [5] ibidem, p. 169 [6] ibidem, p. 85 [7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale, Adelphi Edizioni 2017, p. 43 [8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55 [9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45 [10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29 [11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155 [12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., pp. 38-41 [13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 39 [15] ibidem, p. 231 [16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C [17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41 [18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012 [19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave Thibon, Edizioni Borla 2002 [20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989 [21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi Edizioni 1987, p. 45 [22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152 [23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114 [24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219 [25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1991 [26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119 [27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165 [28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice 1998, postfazione di Pavel Endokimov L'articolo “Dell’amore che buca l’opacità del mondo”  proviene da Pangea.
October 9, 2025 / Pangea
“Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean
Jean Grosjean è stato un genio. Prete spretato, vissuto pressoché in solitudine, è morto nel 2006, più che novantenne. Conobbe André Malraux e Claude Gallimard – con cui inaugurò un’amicizia senza sconti – in prigione, durante la Seconda guerra, in Pomerania. Proprio con Gallimard pubblica i suoi libri in versi – Terre du temps, 1946, Fils de l’Homme, 1954, La Gloire, 1969, ad esempio –, spesso molto belli; si è inventato un ‘genere’, il racconto lirico – che ha i suoi precordi negli Ébauches di Rimbaud – dal fascino, spesso, perturbante. Uno di questi testi, Le Messie, è stato tradotto lo scorso anno da Qiqajon; ne restano molti altri: Pilate (1983), La Reine de Saba (1987), Samuel (1994), ad esempio. Incessante ‘cercatore’, tra i rari maestri del secolo, Grosjean ha tradotto, con sapienza superiore, diversi testi dalla Bibbia (i profeti, l’Apocalisse); ha tradotto il Corano (1979) e i tragici greci (1967). Per Gallimard, nel 1989, insieme al futuro Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio, ha fondato la collana “L’Aube des peuples”, con l’intento di setacciare miti e leggende di ogni angolo del globo. Alla società degli intellettuali, preferiva il lavoro duro, a tratti brutale. Non presenziava – agiva.  Nel 1984, sempre per Gallimard, nella ‘Collection folio junior en poésie’, Grosjean s’inventa un’antologia di millenaristica bellezza. S’intitola Dieu en poésie, e assembla, dall’Epopea di Gilgamesh a Rutger Kopland, l’ultimo autore antologizzato, diversi testi che sfidano il numinoso, che dicono l’indicibile, che accarezzano o fanno lo scalpo a Dio. L’antologia, antiaccademica, funziona come un breviario: è piccola, corta – ottanta pagine –; in copertina, un uomo, stilizzato, su un colle, fissa l’orizzonte. L’arcobaleno, al contempo, è una palpebra che si spalanca, una bocca pronta a inghiottire.  Il repertorio di testi – di cui in calce abbiamo tradotto quelli meno ovvi, i più inaccessibili – è scelto secondo il criterio di ecumenica razzia che anima il lavoro di Grosjean: ai Salmi e a Omero fanno specchio Laozi e Wang Wei, al-Hallaj e Khayyam, Ibn Al-Farid e Pascal; appaiono, come spettri della consolazione, John Keats e Edgard Allan Poe (nella versione di Mallarmé), Friedrich Hölderlin, l’assoluto ispirato, e Rimbaud, Gerard Manley Hopkins e Paul Claudel. Ci sono – come da attendersi – Giovanni della Croce, Eschilo, Meister Eckhart (“Se l’Anima vuole seguire Dio nel deserto della deità, il corpo segua il Messia nell’assolata povertà”) – ma anche Charles d’Orléans, Marceline Desbordes-Valmore, Kamo-no-Chomei, Francis Jammes, Jules Supervielle e Francis Thompson. Il capriccio – che è poi l’andare bendati nella notte oscura del cuore – precede l’ecumenismo. Secondo Grosjean, “Poesia è spesso la trama di tracce di ciò che accade dentro l’uomo, nel suo intimo”; di qui, l’dea che il divino non conforta ma spiazza, non accarezza ma azzera, e che la grande cerca è, in fondo, la caccia assoluta.  Non è un caso che un’antologia intitolata a Dio rechi a mala pena lo stigma del Nome – appena sussurrato, come si stana un lupo, come si disinstalla una spada, come si abbevera d’urlo la stella. Così scrive Grosjean nella pagina introduttiva: > “Dire semplicemente che Dio è l’aldilà di noi significa confonderlo con > l’universo – o peggio ancora, con la morte, la follia, la droga, il sogno. Ma > questi domini hanno ciascuno un nome proprio. Poiché la parola Dio esiste, > essa corrisponde a un’esperienza particolare, che è forse una consonanza tra > azione, affetto, riflessione. Una volta espulso dal caos animale, l’uomo può > irradiarsi in un metodo: questa è la via del progresso spettacolare e > contradditorio di una civiltà che resta, ai miei occhi, spietata e insensata. > Oppure, può abbandonarsi alle vie di fuga della sensazione e dell’immaginare: > questo fermento è culturale tra i benestanti, religioso tra i poveri, ma Dio > non appartiene all’uno né all’altro. Se l’uomo si accontenta di essere, una > volta presa coscienza di sé, pura febbre interiore, pura postura, così > specificamente umano da diventare anormale, allora si avventura nei cammini di > Dio. Questi cammini, sono innumerevoli, a seconda delle epoche, dei climi, dei > temperamenti. I testi qui raccolti, testimoniano il passaggio su quei > sentieri”. È fuori dalla ‘norma’ del linguaggio, fuori dalle istituite strade che mettono la museruola al verbo; fuori dalla gabbia grammatica – l’arma del potere – che accade qualcosa, che scintilla il colpo d’ala dell’angelo. Dunque: la poesia come miccia a innescare il sacro, come esca che attrae il dio – o il suo doppio, l’illustre illusione. Da qui si passa: a rischio di essere creduti gli abominevoli, gli strambi – prima di tutto, da sé. Che la poesia strombi in preghiera, devii nell’erbaceo inno, a pieno petto, a pieni pugni, è perfino ovvio – risultato non si dà oltre a questo rospo respiro. A volte, un poeta incappa nell’assoluto senza volerlo: intrappolato nei suoi stessi versi. Nessuna certezza né calcolo acclimatano alla gloria chi tenta il sacro. Forse, stiamo sbagliando strada. Pazienza. Sarà pur meglio che viaggiare dove vanno tutti.  ***  Atharva-Veda Il Soffio Gloria al Soffio signore del mondo il mondo ha in lui la sua trave. Gloria al tuo ruggire alla tua stirpe di tuoni al tumulto dei fortunali alle piogge.  Gloria a te quando vieni quando vai                  quando ti issi                 quando posi. Il Soffio vive nelle creature come il padre vive nell’amore del figlio. Padrone di ciò che respira e di ciò che non respira più.  * Esuperio di Bayeux (IV secolo) All’imperatore  Signore, siamo tuoi soldati ma siamo gli schiavi di Dio. A te offriamo il servizio in armi a Lui è dedicata la nostra anima.  Il salario viene da te a Lui dobbiamo la vita. A te l’obbedienza, sempre a patto che non sia contro di Lui. Combattiamo i tuoi nemici solo se non sono innocenti. Ti siamo fedeli, sempre ma la nostra fede è in Dio. Se deludessimo Dio dovresti infamarci.  * Anonimo islandese La croce Croce vessillo di Cristo del suo supplizio tu squarci il cielo prepari all’uomo la casa della vita. Salvifica Croce pacifica inchiodate a te hai tenuto le sue braccia Il suo sangue ti ha fatto sbocciare nel Giudice. Sei la zattera degli amanti di Dio: li trasporti tra crimini  e fortunali al porto della vita.  * Anonimo latino Nel fuoco si rintana il sole, ma tu sei la luce indivisa che invade i nostri cuori con fervore. A te cantiamo all’alba imploriamo Te a sera: trasformaci negli astri che ti acclamano tra gli dèi. Inesauribile sia la gioia come sempre è stata al Padre e al Figlio e a te, Sacro Soffio.  * Jan Kochanowski (Radom, Polonia, 1530 – Lublino, 1584) Il sonno Instilli l’idea della morte, sonno, ma ci fai desiderare la vita. Dai riposo a questo corpo terreno perché l’anima possa involarsi nei cieli. Il giorno si leva dal mare.  Lo splendore della neve e del gelo fanno sparire le ombre. I fuochi degli astri celesti cantano l’inno delle sfere.  Gioie innocenti dell’anima: il corpo dovrà morire accarezzalo mentre dorme.  * Fénelon (Sainte-Mondane, Francia, 1651 – Cambrai, 1715) Questa luce semplice, infinita, immutabile, che a tutti si dona senza spezzarsi, che illumina gli spiriti come il sole rischiara i corpi. Chi non l’ha mai vista nasce cieco. Trascorre la vita in una notte oscura e muore senza nulla aver visto. Semmai, intravede barlumi oscuri, vane ombre, futili scintille, irreali spettri.  * Carl Jonas Love Almquist (Stoccolma, 1793 – Brema, 1866) Rosa Il nostro cuore è un pallido fiore.  L’ha piantato Dio e lo chiama rosa.  Le sue spine graffiano il cuore – e il cuore chiede: perché? Dio risponde:  il tuo sangue macchierà il fiore e tu sarai un po’ come me.  * Henri de Régnier (Honfleur, Francia, 1864 – Parigi, 1936) Il silenzio Forse il silenzio è una voce mutilata come quella del dio che tace nella statua e non serba più nulla di vivo se non l’ombra, al sole, che lo accerchia. Forse il silenzio è una voce che tutto sa come quella del dio che tace, eretto  nel marmo: il suo gesto è eterno  e l’ombra sussurra ai passanti sulla strada. Loro osservano, dal basso, i silenziosi ordini di un dio pietrificato.  * Endre Ady (Căuaș, Romania, 1877 – Budapest, 1919) Non ha più ombre la mia anima: la luce di Dio le ha messe in fuga. Il suo volto è velato ma i suoi occhi bruciano e invadono il cuore.  Se vinco è perché lui mi precede e combatte per me. Mi scorta, e quando dice: Dove sei? il mio cuore scoppia. Eccolo, è dentro di me lo tengo tra le braccia siamo legati nella morte.  * Jules Supervielle (Montevideo, 1884 – Parigi, 1960) Pettegolezzi Appena sopra le nostre teste, gli dèi che ci dominano chiacchierano allungando il collo. Li sentiamo: pronunciano i nostri nomi come se fossimo già morti senza rispetto per tutta questa natura che si dispiega nell’enorme silenzio di cui siamo parte.  Ci giudicano, ci soppesano ignorano i dettagli urlano a tutti i nostri segreti poi, eccoli, più rigidi di una statua immobili e freddi come ponti di ferro sotto cui passiamo così nudi e inermi così disillusi, ma fieri perché dietro di noi rispendono ancora le montagne davanti a noi è ancora bello il mare.  * Abu Shadi (Il Cairo, 1892 – Washington D.C., 1955)  Foresta, autunno Perdi le foglie per istruirmi sulla vita che scorre? Vuoi forse addestrarmi in merito alla vanità del sogno? Il tuo pallore mi mortifica, sanguini come se la stagione fosse da eseguire così, senza pietà.  Gli uccelli piangono la tua morte: li hai protetti dai venti del nord.  Hai reso un deserto i sentieri del sole che si erano adornati di smeraldi per compiacerti.  * Jean Follain  (Canisy, Francia, 1903 – Parigi, 1971) Ladrone  Battono nel prato i cuori delle mucche: un uomo avanza perché vuole il loro latte – non ama, non odia e cammina sulla rugiada.  Il tempo si ferma solo per lui il sole è sulla vetta del cielo e quell’uomo può dormire può ripudiare l’infanzia, la vecchiaia, l’umanità. Se passi da lì non ha senso urlare: Aspetta.  * Rutger Kopland (Goor, Paesi Bassi, 1934 – Glimmen, 2012) D D, ho descritto il tuo viso in una poesia come una grande assenza, l’ho paragonato a una superficie d’acqua dove ho visto, un giorno, il muso di un cavallo: quando ho alzato gli occhi la riva era deserta. L’ho paragonato al vento: udii il respiro di un cane morto – in questa casa era così ingombrante il silenzio. L’ho paragonato a molto di più, D, a molte cose, più di quelle che ora ricordi, perché ora non trovo più quella poesia.  Non c’erano soltanto acqua o vento perché tu mi vedi quando non ti vedo  respiri e non ti sento, leggi ciò che non scrivo.  *In copertina: Pietà lignea di anonimo lombardo, XVI secolo L'articolo “Pura febbre interiore”. Dio in poesia: un’antologia di Jean Grosjean proviene da Pangea.
October 4, 2025 / Pangea
“Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire”
Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio: folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –, nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio: imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.  “I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia, delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare, studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.  Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm (1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908) ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj, studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922, per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.  In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.  > “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema > originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi > precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne > dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti, > diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La > religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La > folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto > nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza > del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse, > poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno > stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di > meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani > sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e > giustizia”. > > Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline. > Hinayana, Véhicule inférieur, 1910 In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e quella legata a Dharmagupta.  Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso – più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto. Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica di scherma, senza schemi.   Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.  Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta: > “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più > leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si > scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”. Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.  È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si continui a dire neri.  *** Accoglienza di un adepto laico a vita I cinque precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda] Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede: “Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha prodotto il suo effetto, continua: “Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia non dice: “Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i Cinque precetti: 1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato risponde: Posso) * Accoglienza di un novizio I Dieci precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta] Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice: “Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato vengano tagliati”. Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua: “Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua famiglia”.  Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il candidato pronuncia questa formula per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante, ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti. 1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.  Così si conclude la regola: “Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore, sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la morte)”.  L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene da Pangea.
September 20, 2025 / Pangea
“Diventa piccolo, minuscolo”. A capofitto nel Tao
Alcuni testi-totem, che rivelano nuove vie al pensiero, sono scritti in versi. Si tratta, anzitutto, di sobillare il linguaggio, di superare la coercizione della grammatica – di aggirarne le leggi perché nelle parole s’intravedano nuove stanze, un sole adatto alla brocca e non alla prammatica.  Pensiamo al poema Sulla natura di Parmenide o al De rerum natura di Lucrezio, ai Veda, al libro di Giobbe, alle più estreme sure del Corano. La poesia è il regesto di una lotta, è la mappa di un’ascesa, fin nella sua struttura di picchi e di abissi, in cui il non-detto – non l’indeciso ma l’indicibile –, lo spazio bianco, ha la stessa, equivalente importanza dello scritto. Un sospiro segue l’affermazione, il silenzio: la poesia ha figura d’ala – come quella dipinta da Dürer – e di razzia; è un sentiero che si torce; va per artigliate. Anche il Nazareno, Verbo che incenerisce ogni verbo, si presenta, nel prologo del Vangelo di Giovanni, in versi – ispirazione o sparizione?  L’enigmatico Laozi – o Lao Tzu che sia – i cui studi “si concentravano sull’occultamento di sé e sull’assenza di nomi” (così lo Shiji) scriveva in versi: il Daodejing – o Tao Te Ching che sia – non è soltanto il libro cardine del Taoismo, ma uno dei più folgoranti poemi scritti da mano umana, in cui l’estro è compenetrato dall’ethos, il ritmo verbale si fonde allo stile di vita. Accade così coi rari, grandi testi: ripetendoli, si è già dentro una forma dell’esistere. La scelta etica comporta un’opzione estetica. Così scrive Lionello Lanciotti: > “In campo artistico-letterario, il Taoismo, concedendo assoluta libertà > all’individuo, permise la creazione di opere d’arte, concepite per il > godimento del letterato o del pittore e non, come prevedevano i Confuciani, in > esclusiva funzione di un certo tipo di società”. > > (in: Testi taoisti, Utet, 1977; 1999) In versi di spietata schiettezza, spiazzanti, Laozi innalza un nuovo modo di vivere improntato alla non-azione, all’elogio della debolezza, al fare “il contrario di ciò che si fa abitualmente”, secondo i crismi di una sgargiante ‘naturalezza’.  > “Il non-agire si configura come una modalità per ritornare al nostro stato di > natura, qual era alla nostra nascita. Il ritorno alla prima infanzia evoca qui > non l’innocenza, ma l’Origine perduta. La perdita dell’Origine si avverte > effettivamente a contatto con i bambini: benché consapevoli di esser passati > noi stessi per tale condizione, abbiamo la sensazione che tutto ciò sia > cancellato; di qui una certa difficoltà a rimetterci in contatto con tale > stato originario. Sul piano collettivo, si tratta di tornare alla nascita > dell’umanità, a uno stadio originario anteriore alla formazione di società > organizzate ed istituzionalizzate”. > > (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, Mondadori, 2010, pp. 197-198) Il ‘santo’ taoista è una specie di fool che mette in crisi l’ordine vigente: lo fa, anzitutto, con il linguaggio, tramite l’arma del paradosso – “che si contrappone a determinate abitudini intellettuali e a dati valori convenzionali” – e del contrasto, usando figure retoriche che esaltano l’infimo, il marginale, l’anonimo in vece del forte, il vuoto in vece del pieno, il molle (il mobile, il malleabile) in vece del rigido.  Il Daodejing è uno dei libri più tradotti di sempre: la sua vastità – pur ridotta in ottantuno poesie, spesso brevi – permette innumeri sguardi. C’è chi si affida alla filologia, chi esalta la dimensione etica, chi quella fiabesca; alcuni si concentrano sul lirismo di cui è intriso il testo. In Italia, tra i tanti, segnaliamo la versione, ancestrale, di Julius Evola (Carabba, 1923, poi rimeditata, poi ripresa da diversi editori) e quella di Augusto Shantena Sabbadini (Feltrinelli, 2011); la versione poetica di Paolo Ruffilli (La regola celeste del Tao, Bur, 2004), alcuni versi di Claudio Damiani e gli studi di Paolo Lagazzi (per dire, intanto, un po’ a caso, al modo taoista) dicono di una presenza sottile del Tao nella poesia italiana (che preesiste, persistente, nei versi di Sbarbaro, nei frantumi di Zanzotto).  Per anni, ad ogni modo, abbiamo percorso la Via per vie laterali: la versione più nota del Tao Te Ching, “Il Libro della Via e della Virtù”, edita da Adelphi, dipende dalla versione del sinologo olandese Jan Julius Lodewijk Duyvendak. Comprai quel libro – per spoliazione, estasiante, straniante – in una libreria sul Lago Maggiore che non esiste più; l’ho letto in una casa che non esiste più, in un giorno agostano di pioggia che forse non è mai esistito: squittiva il fiume, l’odore del bosco era imperiale. La fontana in pietra, che scampanava, ora non esiste più come non esistono più molti dei volti che a quell’epoca erano cari, chiari. Tutto questo vivere tra evanescenze mi sembra riguardi il Tao.  Anche la traduzione di traduzione, questo vagabondare per spifferi e spiragli, mi sembra che riguardi il Tao. In questo repertorio, riferiamo di alcune traduzioni dall’inglese, tra le miriadi. Quelle più celebri – le antiche versioni del sinologo scozzese James Legge e dell’orientalista britannico Arthur Waley (tra l’altro, poeta apprezzato da Yeats e autore di una fortunatissima versione del Genji monogatari) – e quella, a mio giudizio, più ermetica, sigillata nell’afa aforistica – di Daisetsu Teitaro Suzuki, l’autore dei Saggi sul Buddhismo Zen, edita nel 1913 – fanno da cornice alla versione ‘d’autore’ di Ursula K. Le Guin. La straordinaria scrittrice di fantascienza – quest’anno Mondadori ha rimesso in circolo i libri più importanti, tra cui I reietti dell’altro pianeta e i tomi del “Ciclo di Terramare” e del “Ciclo dell’Ecumene” – ha realizzato una bella versione del Tao Te Ching nel 1997, per la Shambhala Publications, con una ipotesi di sguardo peculiare:  > “Le traduzioni accademiche del Tao Te Ching come manuale ad uso dei governanti > utilizzano un vocabolario che enfatizza l’unicità del ‘saggio’ Taoista, la sua > mascolinità, la propria autorità. Questo linguaggio si è perpetuato, > degradandosi, nelle versioni più popolari del libro. Al contrario, io ho > voluto un ‘Libro della Via’ accessibile al lettore, insensato, impotente, e > magari poco virile, che non tenta segreti esoterici, in ascolto della voce che > sussurra all’anima. Vorrei che si percepisse perché questo libro è così tanto > amato da duemilacinquecento anni. È il più amabile dei grandi testi religiosi, > il più divertente, arguto, accogliente, modesto, indistruttibilmente > oltraggioso e inesauribilmente nuovo. Delle sorgenti profonde, è quella più > pura. Per me, è anche la più profonda”.  Il legame tra Ursula K. Le Guin – l’autrice di fantascienza (per generalizzare, ma un genio ‘degenera’ i generi) più amata da Harold Bloom, che la preferiva a Tolkien – e il Tao Te Ching è antico, arcano: Tao Song (attacco: “O cauto pesce/ mostrami la via/ o verde erba/ fonda per me una via”) è una poesia raccolta in Wild Angels, libro in versi del 1974. Già: Ursula K. Le Guin è stata anche una poetessa di altissimo talento; i Collected Poems (insieme alla traduzione del Tao Te Ching: A Book about the Way and the Power of the Way) sono stati pubblicati dalla Library of America nel 2023. L’entità del tomo – 738 pagine – fa capire plasticamente che la poesia non è stata attività secondaria nella ricerca di Ursula K. Le Guin.  E ora, salto triplo nel vuoto, nella faida di sé, fino al tonfo – che il nostro corpo sfarfalli, si incenerisca in miriadi di falene.  *** Il libro del Tao IV Senza fonti La via è vuota usata – non abusata.  Profonda – ancestrale  alle diecimila cose. Mola i bordi molla i legami delucida la luce la via è la polvere sulla via. Silente,  sicura di durare.  Di chi è figlia? È nata prima degli dèi.  *Elusivo è tutto ciò che dice Lao Tzu. La tentazione: aggrapparsi a qualcosa nella semplicità infinitamente ingannevole delle sue parole. Perfino i migliori traduttori, i filologi e gli accademici si concentrano sui valori etici e sulla politica del testo, come se fossero la cosa importante. Ovvio, la religione detta Taoismo è piena di dèi, di santi, di miracoli, di preghiere, di metodi per assicurarsi ricchezza, potere, longevità – tutto ciò che Lao Tzu dice svia dalla Via. In passi come questo, credo, la profonda limpidezza del linguaggio riassumono ciò che gli uomini hanno ricavato, per secoli, dalla lettura di questo testo: pura adesione al mistero di cui siamo parte.  * XI Il genio dell’inutile Trenta raggi convergono nel mozzo: dove non è la ruota  è l’utile. Scavando  l’argilla sorge il vaso: dove non è il vaso è la cosa chiamata vaso. Ricavi porte e finestre per ricavare una stanza: dove non è stanza è il tuo spazio.  Il profitto di ciò che è è nell’uso di ciò che non è.  *Una cosa che amo di Lao Tzu è il genio comico. Spiega una verità profonda, complessa, una di quelle verità controintuitive che, una volta accettate dalla mente, raddoppiano d’improvviso le dimensioni dell’universo. E lo fa con spiazzante semplicità, parlando di vasi.  * XLVII Guardare oltre Non devi uscire di casa per capire cosa accade nel mondo. Non devi guardare fuori dalla finestra per vedere la via. Più vai altrove meno sai.  L’anima sapiente non va – e sa non guarda – e vede non fa – e fa.  *Di solito, ci aspettiamo grandi cose dal “vedere il mondo”, dal “fare esperienza. Un poeta romano ha scritto che il viaggiatore cambia il cielo sopra di sé, mentre l’anima dentro di sé resta la stessa. Alcune poetesse, che hanno fatto poche esperienze e quasi nessun viaggio, Emily Dickinson e Emily Brontë, confermano le tesi di Lao Tzu: è lo sguardo interiore a vedere davvero il mondo.  * XLVIII Disimparare Studia, impara: ti farai grande. Chi segue la Via rimpicciolisce. Diventa piccolo, minuscolo.  Così si arriva alla non-azione.  Non fare nulla – che nulla sia fatto.  Non preoccuparti di organizzare le cose.  Traduzione e commento di Ursula Le Guin * LVIII Sovrano represso popolo soddisfatto governo vivace e virile, popolo scontento e lagnoso. “Sulla cattiva sorte si fonda la buona sorte, sulla buona la cattiva”. Pochi lo sanno, ma esiste soglia tra retto e inesatto; il regno dove ogni retta è obliqua e ogni bene un male e l’umanità è smarrita. Così il Saggio squadra ma non taglia sagoma ma non spezza raddrizza ma non tira emette luce senza brillare. * LXIII Agisce senza agire, fa senza fare, scopre il sapore nell’insapore rende gigantesco il minimo, molto il poco “Replica all’ingiuria con il bene si occupa del difficile quando è facile del sommo quando è infimo”. Per governare ciò che è arduo affrontalo quando è ceduo.  Il grande sia preso quando è misero. Per questo il Saggio non si approssima ai grandi e ottiene la grandezza.  E poi: “Un sì poco ispirato estrae poca fede le cose ‘molto facili’ diventeranno assai difficili.  Per questo il Saggio rende difficile il facile: in questo modo ottiene tutto senza difficoltà! *Traduzione di Arthur Waley ** LXXI Conoscere l’inconoscibile è ascesi. Non conoscere lo sconosciuto è malattia. Solo ammalandoci possiamo superare il male.  Il santo non è malato. Poiché il male lo abita la malattia non lo scalfisce.  * LXXV Il popolo è affamato perché i superiori sono famelici, per questo è affamato. Il popolo è ingovernabile perché i superiori sono ingovernati, per questo è ingovernabile.  Il popolo è troppo attaccato alla vita e non si occupa della morte, per questo è moribondo.  Chi non ha interesse per la vita è più nobile di chi stima la vita. * LXXVII La Ragione del Cielo è come un arco. Abbatte ciò che è alto, innalza il basso. Decima l’abbondanza, moltiplica chi non ha nulla.  Tale è la Ragione del Cielo. Mutila chi ha in abbondanza, compie chi è privo.  La Ragione dell’Uomo non è così. Egli sottrae a chi non ha per servire chi ha in abbondanza.  Chi è colui che vuole avere in abbondanza per servire abbondantemente il mondo? Il santo agisce ma non si vanta; acquista meriti e ne è incurante; non mostra la sua grandezza.  * LXXVIII Nulla al mondo è più molle e delicato dell’acqua. Nulla al mondo la supera nel soggiogare il duro e il forte. Nulla può prendere il suo primato. Il debole supera il forte, il tenero vince il rigido. Al mondo non esiste qualcuno che non lo sappia, ma nessuno lo pratica. Per questo il santo dice: “Colui che s’incarica del peccato della patria, salutiamo come il sacerdote del grande sacrificio – colui che fallisce ed è maledetto, salutiamo come il re dell’impero”. Le parole autentiche suonano paradossali.  *Traduzione di D.T. Suzuki ** LXXXI Le parole sincere non sono belle; le belle parole sono insincere. Gli iniziati (al Tao) non disputano (su di esso); chi disputa non è iniziato. Chi conosce (il Tao) non è erudito; gli eruditi non lo conoscono.  Il saggio non accumula (per sé). Più dà agli altri più possiede; più dona più ha.  Ha l’audacia della Via del Cielo e non nuoce; tutto ciò che opera sulla via accade senza sforzo.  *Traduzione di James Legge L'articolo “Diventa piccolo, minuscolo”. A capofitto nel Tao proviene da Pangea.
August 11, 2025 / Pangea
“Fa’ razzia dell’io, fai a pezzi quella iena”. Le poesie mistiche di Sultan Bahu
Di solito, la storia delle religioni da’ su un bivio implacabile. Da un lato, la via della Legge – il viatico dell’obbedire – dall’altro quella del cuore – l’ammutinamento a sé, la più sublime obbedienza. Da una parte, un radicare il dio in questo mondo, nel mondano; dall’altra, sradicarsi dal mondano, tornare mondi, rientrare nel feto del tempo, in un perpetuo primo giorno del mondo. La via ‘legalista’ – che è poi: riflessione nei meandri dei sacri precetti – ha la sua ancella nella vita ‘attiva’: il fedele partecipa alla Storia, si fa carico delle storie di tutti, è presente nel ‘sociale’. La sua vita è moralmente integra: mira a creare una città celeste nelle nostre metropoli. Al contrario, c’è chi smaterializza la Legge fino al simbolo, fino al suo superamento; si fa estraneo alla Storia perché partecipe dell’Eterno, non contempla il ‘sociale’ – pur amando l’uomo come amerebbe un insetto o una pietra – perché tutto è già salvo: la ‘non azione’, o meglio, la contemplazione – questa è la sua via – lo porta a estraniarsi dal mondo, a preferire la solitudine. Per gli uni, è da attendere il Giudizio, che separerà i retti dagli irredenti, per quest’altro il Giudice ha i contorni sconfinati dell’Amato. All’agorà, all’assemblea, costui preferisce il deserto – perché soltanto lì potrà rinfocolare un eden, un giardino –; alla politica predilige i sentieri dell’apolide, alla teologia la fame, ai paramenti sacri la nudità, al rito la preghiera incessante. Il suo spazio non è il tempio – angusto chiavistello di Dio – ma il vento, l’incavo tra le rocce e il roveto, il fuoco e la nube: i luoghi dove agli esordi Dio parlava, muggiva, fischiava.  Queste due dimensioni – la prima alla luce degli eventi storici, l’altra nelle tenebre del nascondimento: ma lo spettro di tale lucore è illusorio – presiedono ogni sentiero spirituale; a volte sono in contrasto, di certo non sono sovrapponibili. Se il rischio del primo livello è la retorica fine a stessa, il formalismo, l’Iddio bigiotteria, l’Iddio orpello; quello del secondo è l’afasia, l’abulia, la confusione tra miracolo e miraggio, fino a fare del deserto un idolo, della solitudine una regola, una reggia. Al contrario, la via ‘negativa’ incendia ogni norma, ogni ‘normalizzazione’: la regola è l’irregolare, a lambire il fuorilegge, dacché, per natura, nulla è fuori dalla legge di Dio.  Nato nel gennaio del 1630 in Punjab, all’epoca dell’India Moghul, di Sultan Bahu sappiamo poco, oltre i veli dell’agiografia, Manaqib-i Sultani, scritta molti anni dopo la sua morte, accaduta nel 1691. Da ragazzo, amava vagare nelle foreste; fu la madre, Ravi, nel tentativo di avviare a un destino a temperatura spirituale quel figlio indocile, ad affidarlo a un maestro sufi. Bahu studiò a Delhi, si affratellò alla Qadiryya, l’ordine fondato da Abdul Qadir Gilani, diffuso in India, Pakistan e Afghanistan. Visse scrivendo, insegnando una rude compassione; fondò una confraternita, “Sarwari”, che predicava l’annientamento in Dio, l’inutilità dei precetti esteriori, la folgore di un contatto diretto con il divino. Esprimeva i suoi insegnamenti in poesie di glaciale nitidezza, sagaci nel paradosso, nell’esasperare i modi della poesia persiana: l’estro erotico (tipico in Hafez, ad esempio) si esaurisce nella meditazione, in quel rogo azzurro; il cuore non è più un incendio ma un oceano. A volte, Sultan Bahu procede per terzine polemiche, che stigmatizzano chi crede di poter ingabbiare Dio in un luogo, un lemma, un codice:  > “Dio non giace sui troni, Dio non è imprigionato alla Kaʿba > non troverai Dio nei libri, Dio non è nel mihrab, nel mirare alla Mecca. > Egli non si sprigiona se nuoti nel Gange o se intraprendi un pellegrinaggio” La purezza non proviene dal fiume, la fede non si basa sui ‘pilastri’ dell’islam. “Le poesie mistiche di Sultan Bahu esprimo una critica alle forme, alla cristallizzazione legalista, alle istituzioni del religioso; egli crede nella possibilità di una relazione individuale con Dio. Bahu enfatizza il punto centrale del Sufismo: l’assoluto amore, la profonda dedizione a Dio sono il risultato di uno smarrirsi nel divino. Per ‘annegare in Dio’ è necessario eliminare tutti gli ostacoli, i desideri, gli umani affetti, l’attaccamento al mondo carnale, transeunte. Attraverso un sistematico distacco dal mondo e la pratica dell’ascetismo sotto la guida di un maestro – cioè: meditando incessantemente il nome di Dio – il Sufi avrà successo e domerà l’anima” (così Jamal J. Elias in Death Before Dying. The Sufi Poems of Sultan Bahu, University of California, 1998). A dire di Sultan Bahu, l’intelligenza serve a sbriciolare l’intelletto, la cultura distoglie dalla ricerca del vero, la cui lampante evidenza è avvelenata dai chiosatori. Come tutti i mistici, i poeti-profeti, Bahu ama guerreggiare con il linguaggio attraverso l’arma del paradosso:  > “Per rintracciare l’Amato ti basti la prima lettera, alif > non hai bisogno di aprire il Corano”. Nel suo vagabondaggio nelle tane dell’eterno, Bahu sembra oscillare tra la “preghiera del cuore” – l’insondabile mantra, auspicio di una perdizione che orienta, lanterna degli esicasti e del ‘pellegrino russo’ – e i “doveri del cuore” (Chovot ha-Levavot, il trattato di Bahya ibn Paquda, rabbino vissuto nella Spagna islamica un millennio fa). Eppure, gli è necessaria la poesia, garrulo dire da fedele in disgrazia, il cui alimento è l’amore: > “Come il falcone è impedito al volo se gli legano le zampe > così, senza amore, Bahu smarrisce ogni parola”.  Sapienza degli insipienti, vocabolario di analfabeti, gloria degli ignoti e degli ignavi, vita da lebbrosi d’amore: ogni contrasto è varcato da chi percorre la via negativa. Il frainteso è ovunque, le trappole degli artificieri d’accademia pure: la vera fede è tacciata di infedeltà, l’innocenza presa per abominio – ma è proprio quello il segno. Della vita di un uomo, a ben dire, non resta che il sussurro, il flebile fiorire di una leggenda – un’esasperazione di oasi. Chiameremmo colibrì quel Corano colabrodo – di lui diranno: si è fatto in briciole per attirare Dio, perché se ne nutrisse, a piene mani.  * Sultan Bahu (Shorkot, Pakistan, 1630 – Jhang, Pakistan, 1691) Sei infimo se infine all’essenza divina non ti affratelli Fa’ razzia del tuo io fai a pezzi quella iena Se i desideri ti sovrastano resterai uno svergognato Uno che vive già nella tomba * Non sopporto la padronia del cuore – i desideri mi logorano  Gli amici non sanno acquietare il cuore l’amore è un incendio Nell’arena dell’amore tutto arde e tutto muore Mi sacrifico perché Bahu  persiste nell’impazienza * Pietà inondi Shorkot la città di Bahu Pietà ammanti  cercatori e pionieri con la stessa cura con cui il giardiniere accudisce i fiori La divina visione della Pietà  si appropria di te all’istante Bahu, l’uomo nobile, accoglie l’amato nella sua casa * Vivi nel canto: sei un discepolo diventa cercatore Aggrappati al manto del maestro – un maestro                                               diventa  Immergiti nel credo: se pronunci  continuamente il nome di Allah Allah ti purificherà * Chi pratica lo spirito senza la sapienza  è un infedele e morirà  demente Lo adorano da secoli ma nessuno conosce Allah L’ignoranza erige templi in cui dimora un idolo analfabeta – c’è  Chi attenta all’Unità dell’Uno: a lui io                        mi attengo * Non ha luogo l’intelletto non ha casa il pensiero nelle segrete del Glorioso Non esistono mullah né astrologhi né chi strologa in teologia – tutto Ha annientato il Divino Io, Bahu, ho avuto accesso ai misteri della sapienza senza aprire alcun libro  * L’amore arde e mi chiama alla preghiera – le orecchie rispondono alla chiamata Eseguo l’abluzione nel sangue Allah mi chiama, vuole che io mi annienti: Nessun ritorno è possibile Chi accoglie la chiamata realizza il sapere * Soltanto un vero amante può eseguire la preghiera d’amore che non ha parole.  Nessun altro può cantare l’inno d’amore: egli Esegue l’abluzione con il sangue del cuore e le lacrime degli occhi La lingua non si muove le labbra non tremano: questa è la vera preghiera * Se ami sei nel rogo e il tuo cuore è una montagna Nemici a frotte fiottano insulti: per te non sono che prati in fiore Come Al-Hallaj crocefiggi il tuo segreto: non Desistere dall’umiliazione  che continuino a dirti infedele * Chi ama vaga nell’incendio Vive in due mondi chi ha donato l’anima all’Amato Perché accendere una lampada quando il cuore è già luce? Oltre i regni dell’intelletto Bahu annienta ogni forma di intelletto * Il cuore è un abisso più profondo dei fiumi e degli oceani: chi può dire di conoscerlo? Nei suoi meandri: velieri e zattere alberi e mozzi – come  una vela si dispiegano i quattordici regni tra gli spiragli del cuore chi ha confidenza con il cuore detto Bahu sarà amato                                     dal Salvatore L'articolo “Fa’ razzia dell’io, fai a pezzi quella iena”. Le poesie mistiche di Sultan Bahu proviene da Pangea.
June 28, 2025 / Pangea
Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio Lolini
Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione, espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista), Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua appartenenza alla Accademia d’Italia”. Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand, Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione – l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva, probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze.  Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire, corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”). Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne. L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia sciolta.  Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo ‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste l’attualità: > “La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia > l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il > volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi > essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito > il caldo della vita e dell’intelligenza.  > > Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano > resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata > resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua > zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta, > nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento > sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come > le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e > da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una > vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra > contemplazione e azione, tra cielo e terra”.  Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo, l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste; buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto, insieme al tutto.    Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti, scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco, recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero rilette, eccone una, Prigioni, 1: Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo.  Stridi di rondini neri nei mattini passano  si sgombra la scena       canta l’azzurro –    passano aquile grandi grandi con le ali    tra le trombe dorate del sole alto –  angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono  candidi profilati di bagliori rosei – nel prato delle stelle che sventolano veli scivolano sciami lunghi d’anime         scompaiono. A notte fonda si spengono tutte le stelle nulla si muove sulla scena nera – tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano nell’immenso quadrato del cielo sfumava la cornice nel nero dell’infinità cadono le pareti e la prigione è scomparsa – tutti i canti gravi e acuti del mondo accolgono l’anima libera signora. Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’ di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli, ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un capolavoro.  La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel 1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di “qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia. Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione, figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava, perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati.  > “Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva > di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta > elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi > anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono > certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”.  Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura, nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984, tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini.  L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone; così dal quarto capitolo del libro: “Le violenze tutte ho veduto sotto il sole le lacrime degli oppressi non saranno premiate  ma anche gli oppressori non verranno consolati Ai morti dico: felici voi più felici certo di coloro che si dicono vivi Ma più felice chi non è stato chi non sarà che non ha visto che non vedrà il male che l’uomo compie sotto il sole La pena che dà il fare gli sforzi l’invidia che l’uno prova per l’altro  miseria un vortice di vento Perché  ti agiti così lo stolto che ha le mani legate  pur si divora le carni” Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare – meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi o scoperchiarsi? Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e la trattativa, il rifiuto, il fiato.  L'articolo Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio Lolini proviene da Pangea.
May 23, 2025 / Pangea
In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131
> Sensi di fanciullo ti chiedo, > di farmi interiore e mite, > e taciturno nella tua pace. > E di possedere un cuore chiaro[1]. > > David Maria Turoldo sul Salmo 131 Salmo 131 Un canto delle salite. Di Davide Oh Eterno, non si erige all’orgoglio il mio cuore né alla superbia s’inerpica il mio sguardo non bramo grandi faccende né meraviglie al di sopra di me ho ammansito e reso dolce la mia anima come bimbo divezzato in grembo alla madre come bimbo slattato è in me l’anima mia pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre * Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi, misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal 120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16: > Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, > nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle > Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al > Signore a mani vuote[2] oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno. “Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico “יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo. Esodo 3, 14: > «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi > ha mandato a voi»2 Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata: in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo. “Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì, a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà, ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6: > Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? > […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi > […] Dio resiste ai superbi, > agli umili invece dà la sua grazia2 Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati, complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a Dio sopra ogni cosa è l’umiltà. > In un luogo eccelso e santo io dimoro, > ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, > per ravvivare lo spirito degli umili > per rianimare il cuore degli oppressi2  > > Isaia 57, 15 > Su chi volgerò lo sguardo? > sull’umile e su chi ha lo spirito contrito > e su chi trema alla mia parola2  > > Isaia 66, 2 > Vidi tutte le reti del Maligno > distese sulla terra e dissi gemendo: > – Chi mai potrà scamparne? > E udii una voce che mi disse: l’umiltà > > La Pace è a prezzo della moderazione > dei desideri, il nostro desiderare continuo > ci riempie di agitazione[3]  > > Antonio Abate, dai Padri del deserto Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù. Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio presunto merito. È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2 Corinzi 12, 7-10: > 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io > non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di > Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. > 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse > da me. > 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta > pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie > debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2 Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza. In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di Lisieux: > Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]  > > Poesie, p. 746 > Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo > che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4  > > Novissima verba, p. 1016 L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri: > Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3  > > M., 64 Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine, affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali irraggiungibili. Dai Padri: > La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3  > > N., 637 > Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e, > attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3  > > N., 399 (P.E., I, 19, 17)* > Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3  > > Abate Antonio, 32 Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare, andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa. “Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di Lisieux: > Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4  > > Lettere, 196 Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura, che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33: > Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, > e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2 Nei Padri: > Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede. > Mi fermavo a riflettere, senza cedere, > sino a che Dio non mi prendesse per mano3 > > N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11 “Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio: nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9: > 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, > le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. > 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, > tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, > i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2 L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano il suo controllo. “Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di Lisieux: > Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra > per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima > tra le mani di Gesù4 Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata, posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri: > La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3  > > N., 656 > Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature. > Questo pensiero unito al lavoro corporale: > ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3 > > Sisoe, 13 > Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che > quella dell’umiltà»3 > > P.E., III, 38, 44 Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil: > La gioia non è altro che il senso della realtà > […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5] > > (Cahier I, 18; 70) > La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al > cielo[6] > > (Cahier II, 157) > La gioia è la coscienza di ciò che non è io6 > > (Cahier II, 193) L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile, dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è inesperibile. Simone Weil: > La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7] > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129) Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso: > Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la > volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le > braccia, si arresti, guardi e attenda[8] > > (Cahier III, 29) Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso, mestamente duole, e lacrima: > Se consideri le colpe, Signore, > Signore, chi ti può resistere?2 > > (Sal 130) Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante volge al cielo, confida nel dono: > L’anima mia è rivolta al Signore > più che le sentinelle all’aurora2 > > (Sal 130) Dai Padri: > Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere. > […] > Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili; > i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3 La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio: > Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, > in ogni cosa rendete grazie: > questa infatti è volontà di Dio2 > > (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16) Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio, senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice: > là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la > gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio > solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come > obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione > della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e > all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è > l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9] L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire Dio di speranza. Simone Weil: > Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10] > > (La connaissance surnaturelle, 47) Così Teresina: > Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4 > > (Lettere, 103) Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare tristezze. Dai Padri: > Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo > figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3 Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia. Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre” (עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”, è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11] > Come una madre consola un figlio > così io vi consolerò  > > Isaia 63,13 “Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà: > Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, > la mia memoria, la mia intelligenza > e tutta la mia volontà, > tutto ciò che ho e possiedo; > tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno; > tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà: > dammi solo il tuo amore e la tua grazia; > questo mi basta > > Sant’Ignazio di Loyola Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in braccio alla madre.[12] Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”. La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino, conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità, dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola, guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone Weil: > Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla > Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8 > > (Cahier III, 45) > la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha > sollevato il peso del mondo intero8 > > (Cahier III, 50) > Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità > del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi > sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7 > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110) Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith Stein: > Benedici lo spirito affranto > dei sofferenti, > la pesante solitudine degli uomini, > l’essere che non conosce il riposo, > la sofferenza che non si affida mai a nessuno. > È a colui che sul Monte degli Ulivi > lottò, sudando sangue e acqua, > con Dio, con ardenti suppliche, > che spetta la vittoria, > è su questo monte che si decise > la sorte del mondo. > Qui, cadete a terra > e pregate > senza più domandare: > Chi? Come? Dove? Quando?[13] Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra, e in lui tornare e dimorare: > Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, > mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; > mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2 > > (Sal 18) Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina: > Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e > nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia > solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il > suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4 > > (Lettere, 137) Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare: > Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6 > > (Cahier II, 274) Teresina così risponde: > è in lui che noi ci amiamo teneramente […] > piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4 > > (Lettere, 132) Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede. Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy: > E se ne è andato con le braccia penzoloni. > Se n’è andato colle braccia vuote. > Lui che li aveva affidati. > Come un uomo che portava un paniere. > E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14] Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto: “posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza (יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata: > Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. > E non me ne capacito. > Quella piccola speranza che non sembra niente. > Quella piccola bambina speranza14 Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם” (olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”, evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto il cuore: > È lei, quella piccola che tira tutte. > Perché la Fede non vede che ciò che è. > E lei vede ciò che sarà. > La Carità non ama che ciò che è. > E lei ama ciò che sarà. > La Fede vede ciò che è. > Nel Tempo e nell’Eternità. > La Speranza vede ciò che sarà. > Nel tempo e nell’eternità.14 Isabella Bignozzi Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”, progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico 2025 -------------------------------------------------------------------------------- [1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994 [2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009 [3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi Libri, 1994 [4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992 [5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982 [6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1985 [7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991 [8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974 [9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011 [10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1993 [11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo 71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine “reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260 riferimenti alle «viscere materne» del Signore. [12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”, mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni anaforizzate. [13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes, Francoforte 1975 [14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014 *In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca. L'articolo In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131 proviene da Pangea.
May 17, 2025 / Pangea