> Sensi di fanciullo ti chiedo,
> di farmi interiore e mite,
> e taciturno nella tua pace.
> E di possedere un cuore chiaro[1].
>
> David Maria Turoldo sul Salmo 131
Salmo 131
Un canto delle salite. Di Davide
Oh Eterno,
non si erige all’orgoglio il mio cuore
né alla superbia s’inerpica il mio sguardo
non bramo grandi faccende
né meraviglie al di sopra di me
ho ammansito e reso dolce la mia anima
come bimbo divezzato in grembo alla madre
come bimbo slattato è in me l’anima mia
pòsati e confida nel Signore, Israele
da ora e per sempre
*
Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi,
misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal
120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era
pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16:
> Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio,
> nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle
> Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al
> Signore a mani vuote[2]
oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i
quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle
membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno.
“Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico
“יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo.
Esodo 3, 14:
> «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi
> ha mandato a voi»2
Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso
d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di
un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata:
in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro
rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo.
“Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non
s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò
che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al
corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non
così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando
gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la
fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì,
a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà,
ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6:
> Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?
> […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi
> […] Dio resiste ai superbi,
> agli umili invece dà la sua grazia2
Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati,
complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo
sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di
malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel
vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a
Dio sopra ogni cosa è l’umiltà.
> In un luogo eccelso e santo io dimoro,
> ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati,
> per ravvivare lo spirito degli umili
> per rianimare il cuore degli oppressi2
>
> Isaia 57, 15
> Su chi volgerò lo sguardo?
> sull’umile e su chi ha lo spirito contrito
> e su chi trema alla mia parola2
>
> Isaia 66, 2
> Vidi tutte le reti del Maligno
> distese sulla terra e dissi gemendo:
> – Chi mai potrà scamparne?
> E udii una voce che mi disse: l’umiltà
>
> La Pace è a prezzo della moderazione
> dei desideri, il nostro desiderare continuo
> ci riempie di agitazione[3]
>
> Antonio Abate, dai Padri del deserto
Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù.
Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di
perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia
dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio
presunto merito.
È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione
della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2
Corinzi 12, 7-10:
> 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io
> non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di
> Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
> 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse
> da me.
> 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta
> pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
> debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2
Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza.
In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di
Lisieux:
> Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]
>
> Poesie, p. 746
> Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo
> che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4
>
> Novissima verba, p. 1016
L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente
dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé
stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a
illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri:
> Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3
>
> M., 64
Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper
lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine,
affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali
irraggiungibili. Dai Padri:
> La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3
>
> N., 637
> Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e,
> attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3
>
> N., 399 (P.E., I, 19, 17)*
> Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3
>
> Abate Antonio, 32
Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si
abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo
grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la
parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare,
andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa.
“Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che
significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge
ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di
Lisieux:
> Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4
>
> Lettere, 196
Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura,
che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33:
> Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia,
> e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2
Nei Padri:
> Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede.
> Mi fermavo a riflettere, senza cedere,
> sino a che Dio non mi prendesse per mano3
>
> N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11
“Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che
significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o
imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata
di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio:
nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9:
> 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
> le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
> 9 Quanto il cielo sovrasta la terra,
> tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
> i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2
L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità
del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano
il suo controllo.
“Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso
dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato
di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di
Lisieux:
> Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra
> per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima
> tra le mani di Gesù4
Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata,
posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la
presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla
potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un
campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario
oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri:
> La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3
>
> N., 656
> Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature.
> Questo pensiero unito al lavoro corporale:
> ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3
>
> Sisoe, 13
> Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che
> quella dell’umiltà»3
>
> P.E., III, 38, 44
Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col
Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a
ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una
delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil:
> La gioia non è altro che il senso della realtà
> […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5]
>
> (Cahier I, 18; 70)
> La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al
> cielo[6]
>
> (Cahier II, 157)
> La gioia è la coscienza di ciò che non è io6
>
> (Cahier II, 193)
L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del
reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile,
dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è
inesperibile. Simone Weil:
> La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7]
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129)
Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso:
> Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la
> volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le
> braccia, si arresti, guardi e attenda[8]
>
> (Cahier III, 29)
Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui
si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme
dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si
riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso,
mestamente duole, e lacrima:
> Se consideri le colpe, Signore,
> Signore, chi ti può resistere?2
>
> (Sal 130)
Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma
weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante
volge al cielo, confida nel dono:
> L’anima mia è rivolta al Signore
> più che le sentinelle all’aurora2
>
> (Sal 130)
Dai Padri:
> Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere.
> […]
> Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili;
> i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3
La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio:
> Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente,
> in ogni cosa rendete grazie:
> questa infatti è volontà di Dio2
>
> (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16)
Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il
giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio,
senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice:
> là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la
> gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio
> solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come
> obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione
> della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e
> all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è
> l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9]
L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in
totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire
Dio di speranza. Simone Weil:
> Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10]
>
> (La connaissance surnaturelle, 47)
Così Teresina:
> Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4
>
> (Lettere, 103)
Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare
tristezze.
Dai Padri:
> Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo
> figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3
Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia.
Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre”
(עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”,
è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio
materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un
bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo
quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il
senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine
di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11]
> Come una madre consola un figlio
> così io vi consolerò
>
> Isaia 63,13
“Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera
l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e
compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla
condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal
pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso
di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti
fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà:
> Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà,
> la mia memoria, la mia intelligenza
> e tutta la mia volontà,
> tutto ciò che ho e possiedo;
> tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno;
> tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà:
> dammi solo il tuo amore e la tua grazia;
> questo mi basta
>
> Sant’Ignazio di Loyola
Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è
come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma
gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in
braccio alla madre.[12]
Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione
del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del
corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente
a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno
e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”.
La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino,
conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità,
dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si
percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola,
guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone
Weil:
> Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla
> Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8
>
> (Cahier III, 45)
> la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha
> sollevato il peso del mondo intero8
>
> (Cahier III, 50)
> Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità
> del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi
> sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110)
Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith
Stein:
> Benedici lo spirito affranto
> dei sofferenti,
> la pesante solitudine degli uomini,
> l’essere che non conosce il riposo,
> la sofferenza che non si affida mai a nessuno.
> È a colui che sul Monte degli Ulivi
> lottò, sudando sangue e acqua,
> con Dio, con ardenti suppliche,
> che spetta la vittoria,
> è su questo monte che si decise
> la sorte del mondo.
> Qui, cadete a terra
> e pregate
> senza più domandare:
> Chi? Come? Dove? Quando?[13]
Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra,
e in lui tornare e dimorare:
> Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
> mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
> mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2
>
> (Sal 18)
Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina:
> Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e
> nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia
> solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il
> suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4
>
> (Lettere, 137)
Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare:
> Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6
>
> (Cahier II, 274)
Teresina così risponde:
> è in lui che noi ci amiamo teneramente […]
> piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4
>
> (Lettere, 132)
Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si
divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede.
Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy:
> E se ne è andato con le braccia penzoloni.
> Se n’è andato colle braccia vuote.
> Lui che li aveva affidati.
> Come un uomo che portava un paniere.
> E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14]
Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto:
“posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo
dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza
(יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino
all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia
e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un
invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando
le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin
da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo
sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde
nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata:
> Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
> E non me ne capacito.
> Quella piccola speranza che non sembra niente.
> Quella piccola bambina speranza14
Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare
la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם”
(olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”,
evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di
fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo
sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto
il cuore:
> È lei, quella piccola che tira tutte.
> Perché la Fede non vede che ciò che è.
> E lei vede ciò che sarà.
> La Carità non ama che ciò che è.
> E lei ama ciò che sarà.
> La Fede vede ciò che è.
> Nel Tempo e nell’Eternità.
> La Speranza vede ciò che sarà.
> Nel tempo e nell’eternità.14
Isabella Bignozzi
Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”,
progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico
2025
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[1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco
Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994
[2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009
[3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero
Draghi, Rusconi Libri, 1994
[4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992
[5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982
[6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi
1985
[7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991
[8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974
[9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.
Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011
[10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di
Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta,
Adelphi 1993
[11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne
si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li
traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo
71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu
sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella
Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio
verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine
“reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le
sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per
il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che
esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260
riferimenti alle «viscere materne» del Signore.
[12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione
alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”,
mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di
me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante
segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni
anaforizzate.
[13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes,
Francoforte 1975
[14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di
Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014
*In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca.
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Accadde in marzo, era il 922, alle porte orientali di Baghdad. Il califfo ordinò
la crocefissione; lo flagellarono, lo legarono a un tronco di palma, segate mani
e piedi. Esposto – a monito – per una notte. Poi: decapitato, arso il corpo,
ceneri spalate nel Tigri. Che di lui non resti memoria, che del suo dire si
abusi fino a usura. Tentarono di estirparne gli insegnamenti; atterriti gli
scarsi discepoli. Come sempre: aura di traditori attorno a lui. Secondo un
compagno di prigionia,
> “quando venne portato sul luogo della crocefissione e vide travi e chiodi,
> scoppiò a ridere, tanto da averne le lacrime agli occhi”.
Le memorie di al-Hallaj sono piene di risa: “camminava leggero malgrado le
catene, ridendo”; “scoppiò in una fragorosa risata”; “mentre si avviava al
patibolo, sorrideva”. Non è, la sua, risata di scherno; non è la risata di
Democrito che ride dell’insipienza degli abderiti, che ride sopra la vita e la
morte. La risata di al-Hallaj è come la danza dei dervisci: è l’abbaino
dell’abbandono, l’alcova dell’unione, è l’ultima serratura prima
dell’annientamento.
Ridere, cioè: compiersi.
Agli astanti che gli chiedono: “Cosa ti fa sorridere?”, il maestro risponde, “Le
moine della Bellezza quando chiama gli eletti all’unione”.
Secondo Abu Bakr al-Shibli, le ultime parole di al-Hallaj, pronunciate “con voce
altissima”, mani e piedi amputati, sono queste:
> “Solo conta per l’amante che l’Unico lo riporti all’unità”.
Credeva che il punto supremo della sofferenza coincidesse con quello della
rivelazione – lo umiliarono perché aveva osato dire Anā al-Haqq, io sono Dio
(ergo: io sono la verità ultima). Mangiava pochissimo – “non l’ho mai visto
mangiare altro che sale e aceto”, giura uno dei suoi discepoli –, indossava un
vecchio abito, un cappuccio; se era festa, vestiva di nero, “è l’abito, diceva,
di chi vede respinte le sue opere”.
Praticò l’unione mistica, percorse la via negativa. Era lui a predare Dio perché
di Dio era la preda – al culmine della caccia (che è poi la danza) perfino il
sangue svasa in vento, la carne è un inconveniente del prossimo inverno. Roba su
cui si accucciano i corvi, i re della terra.
Alla conoscenza anteponeva la vertigine – a cui seguiva, secondo una gerarchia
dello sprofondare, lo stupore, la contemplazione, l’annientamento. Di al-Hallaj
si tramandano versi spesso paradossali (parte del suo Diwanè stato tradotto in
Italia da Alberto Ventura, per Marietti 1820, nel 2005); in un distico il sommo
maestro insegna che l’annientamento si annienta annientandosi – a quel punto,
l’io, libero da ogni norma e da ogni contro-norma, destro a ogni addestramento e
a ogni sobillazione del sé, innocuo, superiore al sapere e al non sapere, è
davvero libero. È acqua e usignolo, è lupo e crocevia, è la bava
dell’Insondabile.
> “Quando Dio si impossessa di un cuore lo vuota di tutto ciò che non è Lui.
> Quando si lega a qualcuno, lo annienta per chiunque altro. Quando prende in
> predilezione una persona, incita i suoi servitori a perseguitarla, affinché la
> spingano verso di Lui e continui così ad avvicinarsi. Ma come spiegare ciò che
> mi accade: di Dio non trovo traccia, né avvicinandomi intravedo bagliore,
> eppure la persecuzione continua!”
Notizie su al-Hallaj – in Italia: Morcelliana, 2012, a cura di Luisa Orelli – è
un libro formidabile perché al di là della libraria forma. Lo è, intendo, l’idea
stessa dell’Akhbar: sono assemblate, senza preoccupazione cronologica,
un’ottantina di testimonianze di discepoli, amici, ignoti attorno alla vita del
maestro. A volte si narrano episodi biografici, altre volte frammenti
sapienziali. L’eterogeneità delle lasse rende mutevole, inquieta la lettura: non
ci sono maniglie narrative, cunicoli, raccordi, come nelle agiografie o nelle
devote biografie – qui è un precipizio, un invito alla fuga. Tutto, cioè, è
foriero di fraintesi – tutto comporta il frantumarsi – che il frumento così
creato sia fecondo non è da credervi.
Allo stesso tempo, si balbetta lo Pseudo-Dionigi, si entra nell’antro di Borges:
> “Dio non ha dove, non lo contiene un luogo. Non ha quando, non lo definisce un
> tempo. È al di là del cuore e dei sentimenti. Non si presta a scoperte e
> spiegazioni. È troppo santo per essere percepito dai nostri sguardi e
> afferrato da pensieri e congetture”.
Non fu un mero contemplativo, al-Hallaj. Preferì la predicazione – cioè: la
provocazione pubblica – e il pellegrinaggio. Si dice abbia raggiunto la Cina, si
dice di ragguagli sul taoismo e altre discipline. Ad ogni modo, il più profondo
non ha verbi per essere comunicato, non è vile polline che va di orecchio in
orecchio a fioritura di sette e di club filosofici. Di al-Hallaj si dice che
mormorasse tra sé “parole di cui nessuno intese il significato”. Così, il
discepolo si abitui ad avanzare in un regno che non ha definizioni, che non si
confina in quie là:
> “L’iniziato è colui che sceglie di non avere legami con questo mondo e con
> l’altro”.
Così Luisa Orelli riassume la via di al-Hallaj:
> “La conoscenza di Dio è una in-conoscenza (docta ignorantia): in quel buio in
> cui la mente è come cieca, lì, come disse Eckhart, Dio splende; nella caligine
> luminosa del non sapere nella quale si immerse Mosè, modello, anche per
> al-Hallaj, di quella conoscenza che supera il confine che delimita
> l’inaccessibilità divina. È questa la via apofatica; una via negationis che
> procede per via di togliere, e prelude (come in alcuni procedimenti
> calcografici: cavando la luce dal nero) alla teofania”.
Dobbiamo la conoscenza di al-Hallaj all’orientalista Louis Massignon: lo
affascinavano, di quel martyr mystique de l’Islam, i legami con l’esperienza di
Cristo. Amico di Huysmans, imparò l’arabo, viaggiò in Marocco. Al Cairo, nel
maggio del 1907, scopre la figura di al-Hallaj, a cui consacra i suoi studi: nel
’22, alla Sorbona, discute un dottorato su La passion d’al-Husayn-ibn-Mansur
al-Hallaj, che è poi il primo passo del lavoro sommo, La Passion de Hallaj,
edito in quattro volumi da Gallimard nel 1975 (poi 2010; in inglese esce nel
1983 per la Princeton University Press). Nel 1908, dopo l’arresto da parte delle
autorità ottomane con l’accusa di essere una spia e un tentato suicidio, si era
convertito al cristianesimo (“Lo Straniero mi visitò una sera di maggio, sul
Tigri, nella cella della mia prigione, le corde serrate dopo due tentativi di
fuga: entrò, le porte erano chiuse, e infiammò il mio cuore, quel cuore che il
coltello aveva mancato, e cauterizzò la mia disperazione, la spaccò, come la
fosforescenza di un pesce che emerge dal fondo di acque abissali”). Nel dicembre
del ’17, era entrato a Gerusalemme insieme al generale Edmund Allenby: al suo
fianco, T.E. Lawrence. Pur avversari nell’agone politico, si rispettavano.
Ispirato da Charles de Foucauld, gli fu concesso, nel 1949, di accedere al rito
melchita: in al-Hallaj, Massignon scorgeva il punto d’unione tra cristianesimo e
islam.
Spesso le parole del maestro prefigurano l’orrenda fine – “Morirò nella
religione della croce: niente più Mecca o Medina all’orizzonte”. Fu tradito,
intrappolato, “condannato davanti a un tribunale eccezionale, mediante una
formula manipolata ad arte, attraverso la sentenza di un giudice prevaricatore”.
Non voleva trascendere la legge, ma interiorizzarla, escludendo ogni ostacolo
che si frapponesse tra lui e l’Altro. Diventando egli stesso straziata alterità.
Un corpo fatto prato, fatto seggiola per Lui. Dubitava degli studiosi, della
‘cultura’, dei filologi della religione:
> “Chi lo cerca lasciandosi guidare dall’intelletto
> vagherà nella perplessità e vi troverà diletto.
> La sua coscienza verrà tratta in inganno
> e finirà per dubitare che esista”.
Massignon disse di “una via eroica dell’unione divina”. Allora, forse, la via
splendeva, l’eroismo era possibile, prossimo il dio, in ogni mormorio d’erba o
intrigo di rondini. Era un mondo di segni, di simboli – di ferocia e di
assoluti. A volte, anche il fuoco è scuro, è un lago, e a noi non resta che la
veglia – che a pronunciarlo si spacchino le labbra.
**
Con l’occhio del cuore scorgo il Padrone
e gli chiedo: chi tu sei? Tu, egli dice.
Nessun luogo è il suo luogo
perché è in ogni luogo.
L’illusione è illusoria per lui:
come può localizzarlo l’illuso?
Colui che raduna ogni dove
nel nulla ha rifugio.
Nell’annientarmi si annienta
l’annientamento: è lì che ti trovo
uccidendo i nomi e le forme.
Ho preteso me stesso e ho detto: Tu.
Il mio segreto indica Te, il profondo.
Finché non sono morto a me stesso
e tu sei rimasto nelle segrete del cuore.
Ovunque sono, Tu sei.
Tu mi accerchi e non posso
conoscere che te. Ciò che vedo è Tu.
Per questo, modellami nel perdono
nulla desidero tranne Te.
*
Sono l’Amante e l’Amante mi ama:
due anime in un solo corpo –
se vedi me, vedi Lui
se vedi Lui, vedi noi.
*
Dimori nel mio cuore, dove è il segreto
del mio amore per te – che la notte
sia breve, che l’attesa non mi divori:
il mio unico amico è la speranza di averti.
Sono così felice che se ti fa felice distruggermi
distruggimi: qualunque cosa tu voglia, Mio
Assassino, la voglio anch’io!
*
Ho studiato la religione
per possedere la Verità:
ho scoperto che un’unica
radice regge molti rami.
Meglio essere senza fede
per non perdersi nel limbo delle foglie.
Meglio trovare la radice
che rivela ogni senso ed è unica
più chiara del giorno.
*
Immobilità e silenzio, parole caotiche
il sapere, poi, l’ebbrezza, l’annientarsi.
Terra, poi fuoco, poi luce.
Gelo, ombra, meriggio.
Strada contorta di spine, sentieri
selvaggi; fiume, oceano, riva.
Godere, desiderare, amare.
Vicinanza, unione, intimità.
Chiudere, aprire, annullare.
Separarsi, congiungersi, desiderare.
Segni per chi comprende
che ciò che si trova nel mondo
ha scarso valore.
*
Scomparso, resti in me:
ora sei la mia pace.
Nei giorni della separazione
testimonio lo Sconosciuto.
Eri il segreto della mia gioia
conficcato più a fondo di un sogno.
Eri l’amico di un giorno
quello che mi trascina lungo la notte.
*
Uccidetemi, fedeli amici
nella morte è la mia vita.
Amore vuol dire restare
nudi davanti all’Amato
quando sei spoglio di tutto:
soltanto allora i suoi attributi
diventano le tue qualità.
Tra me e Lui, soltanto l’io.
Levatelo, così resterò con Lui.
al-Hallaj
L'articolo “Le moine della Bellezza”: la via mistica di al-Hallaj proviene da
Pangea.
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
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