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In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131
> Sensi di fanciullo ti chiedo, > di farmi interiore e mite, > e taciturno nella tua pace. > E di possedere un cuore chiaro[1]. > > David Maria Turoldo sul Salmo 131 Salmo 131 Un canto delle salite. Di Davide Oh Eterno, non si erige all’orgoglio il mio cuore né alla superbia s’inerpica il mio sguardo non bramo grandi faccende né meraviglie al di sopra di me ho ammansito e reso dolce la mia anima come bimbo divezzato in grembo alla madre come bimbo slattato è in me l’anima mia pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre * Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi, misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal 120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16: > Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, > nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle > Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al > Signore a mani vuote[2] oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno. “Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico “יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo. Esodo 3, 14: > «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi > ha mandato a voi»2 Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata: in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo. “Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì, a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà, ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6: > Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? > […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi > […] Dio resiste ai superbi, > agli umili invece dà la sua grazia2 Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati, complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a Dio sopra ogni cosa è l’umiltà. > In un luogo eccelso e santo io dimoro, > ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, > per ravvivare lo spirito degli umili > per rianimare il cuore degli oppressi2  > > Isaia 57, 15 > Su chi volgerò lo sguardo? > sull’umile e su chi ha lo spirito contrito > e su chi trema alla mia parola2  > > Isaia 66, 2 > Vidi tutte le reti del Maligno > distese sulla terra e dissi gemendo: > – Chi mai potrà scamparne? > E udii una voce che mi disse: l’umiltà > > La Pace è a prezzo della moderazione > dei desideri, il nostro desiderare continuo > ci riempie di agitazione[3]  > > Antonio Abate, dai Padri del deserto Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù. Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio presunto merito. È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2 Corinzi 12, 7-10: > 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io > non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di > Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. > 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse > da me. > 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta > pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie > debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2 Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza. In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di Lisieux: > Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]  > > Poesie, p. 746 > Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo > che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4  > > Novissima verba, p. 1016 L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri: > Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3  > > M., 64 Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine, affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali irraggiungibili. Dai Padri: > La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3  > > N., 637 > Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e, > attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3  > > N., 399 (P.E., I, 19, 17)* > Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3  > > Abate Antonio, 32 Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare, andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa. “Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di Lisieux: > Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4  > > Lettere, 196 Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura, che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33: > Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, > e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2 Nei Padri: > Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede. > Mi fermavo a riflettere, senza cedere, > sino a che Dio non mi prendesse per mano3 > > N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11 “Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio: nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9: > 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, > le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. > 9 Quanto il cielo sovrasta la terra, > tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, > i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2 L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano il suo controllo. “Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di Lisieux: > Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra > per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima > tra le mani di Gesù4 Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata, posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri: > La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3  > > N., 656 > Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature. > Questo pensiero unito al lavoro corporale: > ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3 > > Sisoe, 13 > Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che > quella dell’umiltà»3 > > P.E., III, 38, 44 Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil: > La gioia non è altro che il senso della realtà > […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5] > > (Cahier I, 18; 70) > La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al > cielo[6] > > (Cahier II, 157) > La gioia è la coscienza di ciò che non è io6 > > (Cahier II, 193) L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile, dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è inesperibile. Simone Weil: > La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7] > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129) Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso: > Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la > volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le > braccia, si arresti, guardi e attenda[8] > > (Cahier III, 29) Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso, mestamente duole, e lacrima: > Se consideri le colpe, Signore, > Signore, chi ti può resistere?2 > > (Sal 130) Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante volge al cielo, confida nel dono: > L’anima mia è rivolta al Signore > più che le sentinelle all’aurora2 > > (Sal 130) Dai Padri: > Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere. > […] > Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili; > i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3 La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio: > Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, > in ogni cosa rendete grazie: > questa infatti è volontà di Dio2 > > (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16) Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio, senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice: > là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la > gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio > solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come > obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione > della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e > all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è > l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9] L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire Dio di speranza. Simone Weil: > Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10] > > (La connaissance surnaturelle, 47) Così Teresina: > Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4 > > (Lettere, 103) Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare tristezze. Dai Padri: > Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo > figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3 Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia. Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre” (עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”, è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11] > Come una madre consola un figlio > così io vi consolerò  > > Isaia 63,13 “Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà: > Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, > la mia memoria, la mia intelligenza > e tutta la mia volontà, > tutto ciò che ho e possiedo; > tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno; > tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà: > dammi solo il tuo amore e la tua grazia; > questo mi basta > > Sant’Ignazio di Loyola Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in braccio alla madre.[12] Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”. La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino, conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità, dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola, guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone Weil: > Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla > Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8 > > (Cahier III, 45) > la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha > sollevato il peso del mondo intero8 > > (Cahier III, 50) > Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità > del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi > sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7 > > (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110) Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith Stein: > Benedici lo spirito affranto > dei sofferenti, > la pesante solitudine degli uomini, > l’essere che non conosce il riposo, > la sofferenza che non si affida mai a nessuno. > È a colui che sul Monte degli Ulivi > lottò, sudando sangue e acqua, > con Dio, con ardenti suppliche, > che spetta la vittoria, > è su questo monte che si decise > la sorte del mondo. > Qui, cadete a terra > e pregate > senza più domandare: > Chi? Come? Dove? Quando?[13] Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra, e in lui tornare e dimorare: > Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, > mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; > mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2 > > (Sal 18) Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina: > Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e > nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia > solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il > suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4 > > (Lettere, 137) Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare: > Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6 > > (Cahier II, 274) Teresina così risponde: > è in lui che noi ci amiamo teneramente […] > piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4 > > (Lettere, 132) Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede. Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy: > E se ne è andato con le braccia penzoloni. > Se n’è andato colle braccia vuote. > Lui che li aveva affidati. > Come un uomo che portava un paniere. > E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14] Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto: “posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza (יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata: > Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. > E non me ne capacito. > Quella piccola speranza che non sembra niente. > Quella piccola bambina speranza14 Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם” (olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”, evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto il cuore: > È lei, quella piccola che tira tutte. > Perché la Fede non vede che ciò che è. > E lei vede ciò che sarà. > La Carità non ama che ciò che è. > E lei ama ciò che sarà. > La Fede vede ciò che è. > Nel Tempo e nell’Eternità. > La Speranza vede ciò che sarà. > Nel tempo e nell’eternità.14 Isabella Bignozzi Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”, progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico 2025 -------------------------------------------------------------------------------- [1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994 [2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009 [3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi Libri, 1994 [4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992 [5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982 [6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1985 [7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991 [8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974 [9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011 [10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1993 [11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo 71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine “reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260 riferimenti alle «viscere materne» del Signore. [12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”, mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni anaforizzate. [13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes, Francoforte 1975 [14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014 *In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca. L'articolo In obbedienza e in abbandono. Meditazione sul Salmo 131 proviene da Pangea.
May 17, 2025 / Pangea
“Le moine della Bellezza”: la via mistica di al-Hallaj
Accadde in marzo, era il 922, alle porte orientali di Baghdad. Il califfo ordinò la crocefissione; lo flagellarono, lo legarono a un tronco di palma, segate mani e piedi. Esposto – a monito – per una notte. Poi: decapitato, arso il corpo, ceneri spalate nel Tigri. Che di lui non resti memoria, che del suo dire si abusi fino a usura. Tentarono di estirparne gli insegnamenti; atterriti gli scarsi discepoli. Come sempre: aura di traditori attorno a lui. Secondo un compagno di prigionia,  > “quando venne portato sul luogo della crocefissione e vide travi e chiodi, > scoppiò a ridere, tanto da averne le lacrime agli occhi”.  Le memorie di al-Hallaj sono piene di risa: “camminava leggero malgrado le catene, ridendo”; “scoppiò in una fragorosa risata”; “mentre si avviava al patibolo, sorrideva”. Non è, la sua, risata di scherno; non è la risata di Democrito che ride dell’insipienza degli abderiti, che ride sopra la vita e la morte. La risata di al-Hallaj è come la danza dei dervisci: è l’abbaino dell’abbandono, l’alcova dell’unione, è l’ultima serratura prima dell’annientamento. Ridere, cioè: compiersi.  Agli astanti che gli chiedono: “Cosa ti fa sorridere?”, il maestro risponde, “Le moine della Bellezza quando chiama gli eletti all’unione”. Secondo Abu Bakr al-Shibli, le ultime parole di al-Hallaj, pronunciate “con voce altissima”, mani e piedi amputati, sono queste: > “Solo conta per l’amante che l’Unico lo riporti all’unità”. Credeva che il punto supremo della sofferenza coincidesse con quello della rivelazione – lo umiliarono perché aveva osato dire Anā al-Haqq, io sono Dio (ergo: io sono la verità ultima). Mangiava pochissimo – “non l’ho mai visto mangiare altro che sale e aceto”, giura uno dei suoi discepoli –, indossava un vecchio abito, un cappuccio; se era festa, vestiva di nero, “è l’abito, diceva, di chi vede respinte le sue opere”.  Praticò l’unione mistica, percorse la via negativa. Era lui a predare Dio perché di Dio era la preda – al culmine della caccia (che è poi la danza) perfino il sangue svasa in vento, la carne è un inconveniente del prossimo inverno. Roba su cui si accucciano i corvi, i re della terra.  Alla conoscenza anteponeva la vertigine – a cui seguiva, secondo una gerarchia dello sprofondare, lo stupore, la contemplazione, l’annientamento. Di al-Hallaj si tramandano versi spesso paradossali (parte del suo Diwanè stato tradotto in Italia da Alberto Ventura, per Marietti 1820, nel 2005); in un distico il sommo maestro insegna che l’annientamento si annienta annientandosi – a quel punto, l’io, libero da ogni norma e da ogni contro-norma, destro a ogni addestramento e a ogni sobillazione del sé, innocuo, superiore al sapere e al non sapere, è davvero libero. È acqua e usignolo, è lupo e crocevia, è la bava dell’Insondabile.  > “Quando Dio si impossessa di un cuore lo vuota di tutto ciò che non è Lui. > Quando si lega a qualcuno, lo annienta per chiunque altro. Quando prende in > predilezione una persona, incita i suoi servitori a perseguitarla, affinché la > spingano verso di Lui e continui così ad avvicinarsi. Ma come spiegare ciò che > mi accade: di Dio non trovo traccia, né avvicinandomi intravedo bagliore, > eppure la persecuzione continua!” Notizie su al-Hallaj – in Italia: Morcelliana, 2012, a cura di Luisa Orelli – è un libro formidabile perché al di là della libraria forma. Lo è, intendo, l’idea stessa dell’Akhbar: sono assemblate, senza preoccupazione cronologica, un’ottantina di testimonianze di discepoli, amici, ignoti attorno alla vita del maestro. A volte si narrano episodi biografici, altre volte frammenti sapienziali. L’eterogeneità delle lasse rende mutevole, inquieta la lettura: non ci sono maniglie narrative, cunicoli, raccordi, come nelle agiografie o nelle devote biografie – qui è un precipizio, un invito alla fuga. Tutto, cioè, è foriero di fraintesi – tutto comporta il frantumarsi – che il frumento così creato sia fecondo non è da credervi.  Allo stesso tempo, si balbetta lo Pseudo-Dionigi, si entra nell’antro di Borges: > “Dio non ha dove, non lo contiene un luogo. Non ha quando, non lo definisce un > tempo. È al di là del cuore e dei sentimenti. Non si presta a scoperte e > spiegazioni. È troppo santo per essere percepito dai nostri sguardi e > afferrato da pensieri e congetture”.  Non fu un mero contemplativo, al-Hallaj. Preferì la predicazione – cioè: la provocazione pubblica – e il pellegrinaggio. Si dice abbia raggiunto la Cina, si dice di ragguagli sul taoismo e altre discipline. Ad ogni modo, il più profondo non ha verbi per essere comunicato, non è vile polline che va di orecchio in orecchio a fioritura di sette e di club filosofici. Di al-Hallaj si dice che mormorasse tra sé “parole di cui nessuno intese il significato”. Così, il discepolo si abitui ad avanzare in un regno che non ha definizioni, che non si confina in quie là:  > “L’iniziato è colui che sceglie di non avere legami con questo mondo e con > l’altro”.  Così Luisa Orelli riassume la via di al-Hallaj: > “La conoscenza di Dio è una in-conoscenza (docta ignorantia): in quel buio in > cui la mente è come cieca, lì, come disse Eckhart, Dio splende; nella caligine > luminosa del non sapere nella quale si immerse Mosè, modello, anche per > al-Hallaj, di quella conoscenza che supera il confine che delimita > l’inaccessibilità divina. È questa la via apofatica; una via negationis che > procede per via di togliere, e prelude (come in alcuni procedimenti > calcografici: cavando la luce dal nero) alla teofania”.  Dobbiamo la conoscenza di al-Hallaj all’orientalista Louis Massignon: lo affascinavano, di quel martyr mystique de l’Islam, i legami con l’esperienza di Cristo. Amico di Huysmans, imparò l’arabo, viaggiò in Marocco. Al Cairo, nel maggio del 1907, scopre la figura di al-Hallaj, a cui consacra i suoi studi: nel ’22, alla Sorbona, discute un dottorato su La passion d’al-Husayn-ibn-Mansur al-Hallaj, che è poi il primo passo del lavoro sommo, La Passion de Hallaj, edito in quattro volumi da Gallimard nel 1975 (poi 2010; in inglese esce nel 1983 per la Princeton University Press). Nel 1908, dopo l’arresto da parte delle autorità ottomane con l’accusa di essere una spia e un tentato suicidio, si era convertito al cristianesimo (“Lo Straniero mi visitò una sera di maggio, sul Tigri, nella cella della mia prigione, le corde serrate dopo due tentativi di fuga: entrò, le porte erano chiuse, e infiammò il mio cuore, quel cuore che il coltello aveva mancato, e cauterizzò la mia disperazione, la spaccò, come la fosforescenza di un pesce che emerge dal fondo di acque abissali”). Nel dicembre del ’17, era entrato a Gerusalemme insieme al generale Edmund Allenby: al suo fianco, T.E. Lawrence. Pur avversari nell’agone politico, si rispettavano. Ispirato da Charles de Foucauld, gli fu concesso, nel 1949, di accedere al rito melchita: in al-Hallaj, Massignon scorgeva il punto d’unione tra cristianesimo e islam.  Spesso le parole del maestro prefigurano l’orrenda fine – “Morirò nella religione della croce: niente più Mecca o Medina all’orizzonte”. Fu tradito, intrappolato, “condannato davanti a un tribunale eccezionale, mediante una formula manipolata ad arte, attraverso la sentenza di un giudice prevaricatore”. Non voleva trascendere la legge, ma interiorizzarla, escludendo ogni ostacolo che si frapponesse tra lui e l’Altro. Diventando egli stesso straziata alterità. Un corpo fatto prato, fatto seggiola per Lui. Dubitava degli studiosi, della ‘cultura’, dei filologi della religione: > “Chi lo cerca lasciandosi guidare dall’intelletto > vagherà nella perplessità e vi troverà diletto. > La sua coscienza verrà tratta in inganno > e finirà per dubitare che esista”.  Massignon disse di “una via eroica dell’unione divina”. Allora, forse, la via splendeva, l’eroismo era possibile, prossimo il dio, in ogni mormorio d’erba o intrigo di rondini. Era un mondo di segni, di simboli – di ferocia e di assoluti. A volte, anche il fuoco è scuro, è un lago, e a noi non resta che la veglia – che a pronunciarlo si spacchino le labbra.  ** Con l’occhio del cuore scorgo il Padrone e gli chiedo: chi tu sei? Tu, egli dice.  Nessun luogo è il suo luogo perché è in ogni luogo. L’illusione è illusoria per lui: come può localizzarlo l’illuso? Colui che raduna ogni dove nel nulla ha rifugio.  Nell’annientarmi si annienta l’annientamento: è lì che ti trovo uccidendo i nomi e le forme.  Ho preteso me stesso e ho detto: Tu.  Il mio segreto indica Te, il profondo.  Finché non sono morto a me stesso e tu sei rimasto nelle segrete del cuore.  Ovunque sono, Tu sei.  Tu mi accerchi e non posso  conoscere che te. Ciò che vedo è Tu.  Per questo, modellami nel perdono                             nulla desidero tranne Te.  * Sono l’Amante e l’Amante mi ama: due anime in un solo corpo –         se vedi me, vedi Lui                          se vedi Lui, vedi noi.  * Dimori nel mio cuore, dove è il segreto del mio amore per te – che la notte sia breve, che l’attesa non mi divori: il mio unico amico è la speranza di averti. Sono così felice che se ti fa felice distruggermi distruggimi: qualunque cosa tu voglia, Mio Assassino, la voglio anch’io! * Ho studiato la religione per possedere la Verità: ho scoperto che un’unica radice regge molti rami. Meglio essere senza fede per non perdersi nel limbo delle foglie.  Meglio trovare la radice che rivela ogni senso ed è unica più chiara del giorno.  * Immobilità e silenzio, parole caotiche il sapere, poi, l’ebbrezza, l’annientarsi.  Terra, poi fuoco, poi luce. Gelo, ombra, meriggio.  Strada contorta di spine, sentieri selvaggi; fiume, oceano, riva.  Godere, desiderare, amare.  Vicinanza, unione, intimità.  Chiudere, aprire, annullare.  Separarsi, congiungersi, desiderare.  Segni per chi comprende che ciò che si trova nel mondo ha scarso valore.  * Scomparso, resti in me: ora sei la mia pace. Nei giorni della separazione testimonio lo Sconosciuto.  Eri il segreto della mia gioia conficcato più a fondo di un sogno.  Eri l’amico di un giorno quello che mi trascina lungo la notte.  * Uccidetemi, fedeli amici nella morte è la mia vita. Amore vuol dire restare nudi davanti all’Amato quando sei spoglio di tutto: soltanto allora i suoi attributi diventano le tue qualità.  Tra me e Lui, soltanto l’io. Levatelo, così resterò con Lui.  al-Hallaj L'articolo “Le moine della Bellezza”: la via mistica di al-Hallaj proviene da Pangea.
May 10, 2025 / Pangea
“Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto, si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del capitolo 5; questa è traduzione alla lettera: > “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a > Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.  Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la brocca del cuore.  Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?  Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto. Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.  Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve – siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature; fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.  Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a un passo.  Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).  Già. Ma… quali parole? “Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in quiete. Veglia silente.  Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che è in perenne veglia?  Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca (18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!” (Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν). Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo – petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.  Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo: > “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe > parole”.  Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso, vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile; per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev Šestov,  > “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il > ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”. Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio: nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.  Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:  > “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti > impaurisca Dio”. Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano. Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo – circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi”.  Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio? Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo – inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso – per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario di inganni.  > “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, > il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole > umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo: > l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”. > > (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).  Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo umano, la lingua divina.  Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo – che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.  La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.  Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle cose’.  Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i rapporti con il dio, per sempre.  Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule l’informe.  Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.  Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.  Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci? Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.  E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.  Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo – ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma – segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio (Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio” comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è, per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto, carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.  Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino, atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.   All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione. Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una fioritura. Parole come foglie che sventagliano.  Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare Dio – o posso perderlo.  Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.  Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.  Spogliarci del linguaggio.  L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.  Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica, della cimice, del capriolo.  Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.  Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il respiro. ** Da “Qoelet” 9 Nel cuore ho sperimentato questo: le opere dei giusti                                      l’estremismo dei santi                       tutto è tra le dita di Dio l’uomo non sa perché ama ignora il raduno dell’odio Stessa sorte per tutti                 il giusto e il vile                   il puro e l’impuro                   chi fa sacrifici e chi dissacra                   il buono e il peccatore                   chi giura e chi scongiura È male tutto sotto il sole stessa sorte per tutti nel cuore dell’uomo alligna il male follia nei suoi lembi il fine è la morte Speranza tra chi fluttua nella flotta dei vivi: un cane vivo è meglio di un leone morto I vivi sanno di dover morire i morti non sanno nulla privi di salario – memoria tra i sali dell’oblio Ciò che hanno amato i motivi della lotta e della gelosia: tutto è cenere, pericope del lutto per loro non c’è più posto nel mondo arreso al sole Allora: godi e mangia bevi il tuo vino divora i cuori Dio gratifica le tue opere Indossa bianche vesti olio purifichi il tuo capo La vita è vana: glorifica i giorni con la donna che ami unico sconto alla fatica al dolore sigillato dal sole Finché il corpo ti aiuta agisci non c’è opera né sapienza nello Sheol – tutto è insensato tra le ombre dove andrai Così è sotto il sole: non va ai capaci la gara                   la guerra non la vincono i forti                                     il pane non lo morde il santo                                                      la ricchezza non sorride ai geni né agli scaltri la grazia – su ogni cosa è il dominio del caso L’uomo ignora la sua ora come pesci presi tra perfide reti come uccelli intrappolati dai lacci il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque Verità sgravata dal sole: Misera città miseri uomini la assedia un re onnipossente aureola di mura Un santo di scarsi natali salva la città ma nessuna memoria lo onora – E mi dico: preferisci la sapienza alla forza – eppure il santo impoverito dal fato è sfottuto – le sue profezie negate Deglutisci con cura le parole del santo ignora le urla di chi alleva viltà Anteponi la sapienza alle armi – ma una breve colpa avvelena un grande bene *Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet. Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025 *In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915 L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea
“Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze, in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.  Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di lampi.  I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?  Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera, più vasta del sole.  Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può correre, come una pecora. * Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo. Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in muratura.  Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi. Bosco in lotta con l’angelo.  Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la benedizione.  Glabri morti, grati morti. * Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.  Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha inghiottito? Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende che ti inginocchi.  Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile. Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i morti.  Quando non si venerano i morti, si muore.  Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono, case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al significato della parola bianco.    Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti – una visione, forse.  * Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di terribile spoliazione.  Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine, il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.  Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi, asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera, altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui, specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.  Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé, a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e là.  Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante, l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.   * Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono, all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo: > “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù > sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del > risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare > la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo > incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così > vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo > infinito di tutte le cose, non sono nulla”. Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio – mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e tutto sia un Moby Dick.  * Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala – 20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”; anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso. Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto. Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione – morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto: identità non è l’identico.  Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.  Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.  ** Dal “Salterio dei Poeti” Salmo 42 Lamento del Levita in esilio Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah. Cerva assetata l’anima mia sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio. L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita; quando potrò tornare ed espormi al suo volto?  Mangio lacrime giorno e notte mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio? Ricordo questo, e in me l’anima esala: emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio, tra inni e grida di giubilo di una folla in festa. Perché ti schianti, anima mia, perché in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. L’anima mia è franta poiché mi ricordo di te dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar. Abisso desta abisso  nel turbinio delle tue cascate, i tuoi flutti e i tuoi frangenti irrompono su di me. Di giorno l’Eterno accende il suo amore di notte in me è il suo cantico, supplica del Dio vivente. Interpellerò Dio, mio baluardo: Per quale ragione di me ti dimentichi? Perché vago oppresso dal giogo dei nemici? Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini, irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio? Perché ti schianti, anima mia, e in me bramisci? Confida in Dio: ancora potrò celebrarlo, archivio delle mie fattezze, mio Creatore. Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo 42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti esperti, smaliziati al plagio della vocazione. La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide, avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà con il fondo di bottiglia di un bambino. Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna anche in un tempo assurdo. Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci opprime. La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole. Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16). Traduzione e commento di Andrea Temporelli * Salmo 51  Porta numero 51 Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio. Spingimi la testa nel tuo amore Spingila verso il mio petto Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo  Per il quale non so baciare la dolcezza  Che hai inalterato nel mio cuore Dunque spingimi verso la vicinanza violenta  Del tuo battito che sono tutta io Tamburellami con la tua grazia Col capo piegato su me stessa Annegami Fammi sbranare dal centro di questo petto  L’iniquità che mi protegge offendendoti Flettimi, spezzami, raschiami Scorzami da questa pelle Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza Smascherami, sì, sfigurami Riportami riconoscibile a misura ripida Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio Perché contro te solo ho peccato Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato Riportami all’aria della tua bocca Respirami profondamente E vietami l’uso della disperazione  Perché non voglio coincidere col mio errore Reincarnati in questo corpo flesso Non farmi morire nel Nessuno Appendimi denocciolata al tuo collo Fammi ciondolare vicino al tuo calore Ristabilisci la violenza non del sacrificio Ma dell’abbandono Abbandonami in te solo Isolami in te solo Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora E torniamo alla neve Rimarginiamo lo sfregio al bianco Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo  Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason Con il suono dell’impatto di un colpo genitale Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora Riconoscimi bianco, spezza ogni osso  Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato Lasciami solo nel sonno, solo con te Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio. Non abbandonarmi, rimani in me. Non guardare la banalità del mio peccato  Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi Sciogli questo ghiaccio irrigidito  Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia Non accatastarmi tra i pesci di una fossa Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare. Riossigenami Spingimi la testa nel tuo polmone di neve Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato Si, scomparire. Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve? Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera E noi sempre bianco davanti dietro di fianco Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca Sulla terra che vibra Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini E vedere appena la terra davanti a noi  Come un prato bianco immenso mietuto di fresco  Senza più corsa dei cani e voci degli abbai Solo la linea di silenzio del ritorno a casa. Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo Fammi risalire Sion, Gerusalemme  Fino al cospetto della montagna orso Fammi sgozzare l’orso E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve Non disprezzare quello che ho da offrirti Non i sacrifici degli uomini Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me. Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto Non affidarmi a questo buio. Guardami, Mio Accecante, denudami  Mio Ipervedente, lavami  Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca Lasciami respirare la pronuncia del mio nome Schiacciami in te, incostolami, spingi Non farmi rimanere mezza viva E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore Nessun prossimo apparente Io sono qui tutta te Riconoscimi dal punto più distante Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa E come un mattino, mio Boreale,  Sarò bianco, vedrai – Sarò più affamato della neve. Traduzione di Tiziana Cera Rosco L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra del tradurre proviene da Pangea.
April 26, 2025 / Pangea