Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un outsider totale

Pangea - Monday, May 19, 2025

Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso, sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde dell’umana vicenda. 

Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e deterministico principio di ascendenza scientifica.

In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica essenza.

L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza.

Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica. In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di continuità.

La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi. Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana: l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che, pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi con i limiti intrinseci della propria esistenza.

La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso, troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo esito certo.

In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è, dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione di risposte conchiuse.

La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana, che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile, l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo.

Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile. 

Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla.

La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi, rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla sofferenza e all’impotenza. 

I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa.

La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata, ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di pacificazione.

Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa libertà di pensiero autoriferito.

Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto, questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in cui si  svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della società, una lotta che non trova mai conciliazione.

Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate, nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità morale.

L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere completamente spiegata e regolata da calcoli: 

“…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora, usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”  

L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà, certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni edificazione razionale.

Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica:

Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società, che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario, poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti individualità accumulato dai secoli…”

Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno.

La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà, se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante: l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni più tragiche.

L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi, se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore.

La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che, pur dolorosa, appare ineludibile.

Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione, tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a rivelazioni. 

Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo, un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può essere elaborato. 

L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia.

La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è una riflessione autofaga. 

Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto. Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste.

In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa, che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita e tragicamente contraddittoria.

Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura.

L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda.  Ma la società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata. 

Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé, avvitandosi in una stagnazione spiraliforme.

L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non eluda la fragilità dell’esistere.

Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta dunque come una sfida ancora aperta.

Massimo Triolo

*In copertina: un ritratto di Valentin Serov

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