Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio Lolini

Pangea - Friday, May 23, 2025

Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione, espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista), Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua appartenenza alla Accademia d’Italia”.

Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand, Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione – l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva, probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze. 

Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire, corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”). Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne. L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia sciolta. 

Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo ‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste l’attualità:

“La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito il caldo della vita e dell’intelligenza. 

Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta, nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra contemplazione e azione, tra cielo e terra”. 

Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo, l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste; buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto, insieme al tutto.   

Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti, scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco, recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero rilette, eccone una, Prigioni, 1:

Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo. 

Stridi di rondini neri nei mattini passano 
si sgombra la scena       canta l’azzurro –   
passano aquile grandi grandi con le ali   
tra le trombe dorate del sole alto – 
angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono 
candidi profilati di bagliori rosei –
nel prato delle stelle che sventolano veli
scivolano sciami lunghi d’anime         scompaiono.

A notte fonda si spengono tutte le stelle
nulla si muove sulla scena nera –
tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano
nell’immenso quadrato del cielo
sfumava la cornice nel nero dell’infinità
cadono le pareti e la prigione è scomparsa –
tutti i canti gravi e acuti del mondo
accolgono l’anima libera signora.

Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’ di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli, ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un capolavoro. 

La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel 1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di “qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia. Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione, figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava, perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati. 

“Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”. 

Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura, nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984, tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini. 

L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone; così dal quarto capitolo del libro:

“Le violenze
tutte
ho veduto
sotto il sole

le lacrime degli oppressi
non saranno premiate 

ma anche gli oppressori
non verranno consolati

Ai morti dico:

felici voi
più felici certo
di coloro che si dicono
vivi

Ma più felice
chi non è stato
chi non sarà

che non ha visto
che non vedrà
il male che l’uomo
compie sotto il sole

La pena che dà
il fare
gli sforzi

l’invidia che l’uno
prova per l’altro 

miseria
un vortice di vento

Perché 
ti agiti
così

lo stolto
che ha le mani
legate 
pur si divora
le carni”

Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare – meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi o scoperchiarsi?

Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e la trattativa, il rifiuto, il fiato. 

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