Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha
lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria
ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita
intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante
fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò
riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et
d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf
e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione,
espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di
letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le
leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico
Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli
di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica
porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista),
Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel
confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua
appartenenza alla Accademia d’Italia”.
Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand,
Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei
Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu
affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri
quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e
l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli
ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione –
l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le
stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha
e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva,
probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste
della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze.
Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel
deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli
araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre
resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire,
corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”).
Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più
quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio
continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne.
L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del
rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia
sciolta.
Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e
liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si
rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo
‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come
il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa
esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia
con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è
inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste
l’attualità:
> “La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia
> l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il
> volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi
> essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito
> il caldo della vita e dell’intelligenza.
>
> Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano
> resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata
> resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua
> zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta,
> nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento
> sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come
> le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e
> da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una
> vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra
> contemplazione e azione, tra cielo e terra”.
Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti
esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma
del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico
dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione
di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo,
l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste;
buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto,
insieme al tutto.
Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti,
scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco,
recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a
Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero
rilette, eccone una, Prigioni, 1:
Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo.
Stridi di rondini neri nei mattini passano
si sgombra la scena canta l’azzurro –
passano aquile grandi grandi con le ali
tra le trombe dorate del sole alto –
angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono
candidi profilati di bagliori rosei –
nel prato delle stelle che sventolano veli
scivolano sciami lunghi d’anime scompaiono.
A notte fonda si spengono tutte le stelle
nulla si muove sulla scena nera –
tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano
nell’immenso quadrato del cielo
sfumava la cornice nel nero dell’infinità
cadono le pareti e la prigione è scomparsa –
tutti i canti gravi e acuti del mondo
accolgono l’anima libera signora.
Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a
praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara
da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in
specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’
di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli,
ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi
racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del
ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un
capolavoro.
La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel
1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di
“qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori
sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia.
Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia
Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti
trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era
sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna
tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la
funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha
da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione,
figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava,
perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo
criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza
macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati.
> “Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva
> di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta
> elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi
> anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono
> certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”.
Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le
traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura,
nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva
una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in
un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984,
tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque
tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un
atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una
carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa
presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini.
L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone;
così dal quarto capitolo del libro:
“Le violenze
tutte
ho veduto
sotto il sole
le lacrime degli oppressi
non saranno premiate
ma anche gli oppressori
non verranno consolati
Ai morti dico:
felici voi
più felici certo
di coloro che si dicono
vivi
Ma più felice
chi non è stato
chi non sarà
che non ha visto
che non vedrà
il male che l’uomo
compie sotto il sole
La pena che dà
il fare
gli sforzi
l’invidia che l’uno
prova per l’altro
miseria
un vortice di vento
Perché
ti agiti
così
lo stolto
che ha le mani
legate
pur si divora
le carni”
Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un
linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità
teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la
particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare
i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare
– meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi
o scoperchiarsi?
Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una
spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e
la trattativa, il rifiuto, il fiato.
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Lolini proviene da Pangea.
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Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.