
“Le mie mani sono un flauto”. Orfeo e Davide: alle origini della poesia
Pangea - Friday, May 30, 2025Orfeo e Davide, re d’Israele, sono figure cardinali, incardinate al potere della parola. Leggerle in filigrana permette di discernere affinità e differenze tra Atene e Gerusalemme. Di Orfeo, il poeta primordiale, si dice che sapeva ammansire le belve feroci, far marciare gli alberi e “persuadere, incantando, le rocce che lo seguissero” (Euripide). Riuscì, secondo il mito, a muovere a compassione Ade, il re degli inferi – il suo è un movimento ctonio, di catabasi, per adempiere la resurrezione al sole.
Anche Davide, quando arma il canto, mette in fuga il maligno: “Davide prendeva in mano la cetra e suonava; Saul si placava, stava meglio, lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). A differenza di Davide – dal cui lignaggio scaturisce il Verbo che annienta ogni verbo, Gesù –, Orfeo è figura originaria, a cui afferiscono i riti orfici. I misteri di Orfeo riguardano pratiche di purificazione che non prevedono olocausto; Orfeo insegna il ritorno all’unità, la separazione tra anima e corpo, la trasmigrazione dell’anima. “È l’estasi e la sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo… L’esperienza indicibile dei misteri, in quanto non può esprimersi direttamente, trova nella poesia di Orfeo un’espressione sostitutiva, compensativa” (così Giorgio Colli in: La sapienza greca I, Adelphi, 1977). Secondo Angelo Tonelli, Orfeo, che “con la sua voce portò tutte le cose nella gioia” (Eschilo), è una figura sciamanica (in: Eleusis e Orfismo, Feltrinelli, 2015). La poesia moderna nasce, per così dire, dall’avvizzimento della parola magica: Orfeo non riesce a riportare in vita l’amata Euridice, per un pallido gesto di pietà. La poesia, da allora, muove il cuore, non muta le forme.
Davide, uomo ‘carnale’ quant’altri mai, non è un iniziatore: egli sistema la liturgia biblica – è il mitico compositore dei Salmi – e porta l’Arca a Gerusalemme. Davide, tuttavia, ha caratteri ‘dionisiaci’: giovane, bello, ‘erotico’ – le donne, da Mical a Betsabea, si piegano al suo carisma – assume il genio fondamentale degli adepti di Dioniso, la danza. La strepitosa scena biblica (2 Sam, 14 ss.) di Davide che “danzava con tutte le forze davanti al Signore”, forsennato, tra grida e suoni di corno, semisvestito, irrita la moglie, Mical: dopo aver rimproverato il re, non avrà più figli da lui, “fino al giorno della sua morte”.
Secondo sacra tradizione, Davide ha potere sulle bestie feroci – il lupo, il leone e l’orso –: la mirabile immagine “le mie mani sono un flauto/ le mie dita una cetra” (testimoniata nel Salmo 151, liturgico per la Chiesa ortodossa), ricorda quella forgiata da Rilke per Orfeo, quando dice della “lieve lira/ cresciuta alla sinistra come un cespo/ di rose in mezzo ai rami dell’ulivo”. Orfeo e Davide manovrano lo strumento a corda, a cui deve accordarsi la voce; la lira e il kinnor (l’ebraica cetra) provengono dall’arco – l’arte lirica richiede mira, è incrostata di sangue.
A differenza di Orfeo – decapitato dalle Baccanti – Davide, il musico guerriero, sa volgere la cetra in arma, in fionda: uccide il mostro, lo decolla, si rispecchia in quel cranio pari a un palazzo, lo pretende a sé, insieme all’Arca (“prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme”, 1 Sam, 17, 54). L’energumeno Golia, sapiente nell’arte della guerra, è una sorta di Sfinge e di Minotauro, fusi insieme. Diversamente degli Inni Orfici, il salterio è canto ‘pubblico’: in Davide – qui la grande distanza da Orfeo – la dimensione poetica si fonde con quella politica, il sacerdote è il re. Il genio sciamanico (diremmo, biblicamente, profetico) scema di fronte alla necessità del governo – dunque, della lotta perenne. Allo stesso tempo, i Salmi sono incanto e incitazione, libagione di inni e urlo di guerra, canto che sprofonda negli abissi dell’uomo – il Salmo 51, ad esempio, in cui Davide chiede a Dio “rendimi puro” – e preghiera ‘nazionale’. I Salmi congiungono a Dio, ne placano la fame.
Orfeo e Davide – cioè, Atene e Gerusalemme – sono i punti attorno a cui si forgia la poesia occidentale. Poesia dell’io e del mondo, poesia che sa il mormorio dell’erba, l’ungulato e il ronzio; che sa avvinghiarsi a Dio e rivolgersi ai morti, che allontana il male.

Già Gianfranco Ravasi – in: I Salmi, San Paolo, 2006 – ravvisava nel salterio il grande codice della poesia (“Per entrare in sintonia piena coi Salmi è indispensabile aprirsi all’intuizione libera e al rigore della poesia”): nel suo commento, sono molteplici i riferimenti letterari, da Thomas S. Eliot a Paul Celan (legato in particolare al Salmo 16, “ti manda un bagliore attorno/ all’angolo destro”). Eppure, a parte sporadiche, pur luminose, sortite (da David Maria Turoldo a Guido Ceronetti, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi e Salvatore Quasimodo), i letterati restano timorosamente distanti dal testo sacro. Da qui, l’idea del Salterio dei Poeti: trentatré poeti, noti e ignoti, italiani e internazionali, cattolici o atei (tra gli altri citiamo, Mariangela Gualtieri e Daniele Mencarelli, Roberto Mussapi e Giuseppe Conte, Alessandro Ceni e Flavio Santi, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni, Tiziana Cera Rosco e Susan Stewart, John Kinsella e Jorge Aulicino, poeta argentino che ha volto nella sua lingua la Divina Commedia e le poesie di Pasolini), hanno tradotto, a modo loro, in ebbra libertà, un salmo. Ne è venuto fuori un libro arcangelico e arcano (presente, in edizione speciale, fuori commercio, nei luoghi del Festival Biblico e presentato al pubblico sabato 31 maggio, ore 21.30, nel Brolo del Palazzo Vescovile di Vicenza, insieme a Cristiano Godano), una sorta di breviario lirico, laico, anomalo, frutto di un’impresa mai tentata prima: sondare i legami tra parola sacra e poesia contemporanea. Non si tratta di ‘riverginare’ la poesia né di proporre una traduzione ‘alternativa’: opera di abbandono, questa, piuttosto. Di asciuttezza ascetica – finanche pericolosa. Sobria ebrietas: orfismo biblico. A dirla come piace all’oggi: il genio poetico contro l’intelligenza artificiale. Noi preferiamo altro: ascesi. Cioè: decapitare l’idolo, deflagrare in Dio.

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Salmo 6
Signore nella tua ira non avvolgermi
Signore nel tuo furore non abbattermi
abbi pietà di me, son tutte un tremito
le mie povere ossa, guariscimi,
ha troppo forti brividi la mia anima,
sino a quando Signore vorrai permetterlo?
Salva tu la mia vita, mio Dio, volgiti
verso di me, con la tua bontà soccorrimi
nessuno tra i morti di te è memore
nessuno canta le tue lodi agli Inferi.
I miei lamenti mi stremano
sono spossato dai miei gemiti
bagno ogni notte il mio letto di lacrime
i miei occhi di pianto si struggono
tra tante mie pene invecchiano.
Via da me voi coi pensieri malefici
Dio ascolta del mio pianto il fremito
il Signore ascolta la mia supplica
e sa le mie lacrime accogliere,
i miei nemici siano affranti e tremino
si voltino via all’istante e si vergognino.
Traduzione di Giuseppe Conte

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Salmo 72
Detto di Salomone
O dio, dona il tuo consiglio al re
e la tua giustezza al figlio del re
perché giudichi il tuo popolo con misura,
anche i mendicanti, con giudizio.
Le montagne innalzino pace al tuo popolo
e i colli si adagino nella giustizia.
Distinguerà i pitocchi tra la gente
e salverà i figli dei poveri e umilierà il sicofante
e sarà sole e luna per generazioni e generazioni
e scenderà come pioggia sull’erba
come le stille istillerà la terra.
Cresceranno nei giorni la sua giustezza
e l’abbondanza di pace
fino a quando non scomparirà la luna,
e dominerà da mare a mare
e dal fiume sino ai limiti della terra abitata.
Gli Etiopi si piegheranno a lui
e i suoi nemici leccheranno la polvere.
I re di Tarsis favolosa e le isole offriranno doni,
anche i re d’Arabia e Saba porteranno doni
e si inginocchieranno a lui tutti i re
e tutte le stirpi gli si faranno schiave.
Così saranno liberati il miserabile dalla mano violenta
e il povero al quale non giunge aiuto
e risparmierà il miserabile e il povero
e salverà le vite dei poveri
dall’usura e dall’ingiustizia,
pagherà il prezzo del riscatto delle loro anime
e sarà onorato il loro nome davanti a lui
e vivrà
e gli sarà dato oro d’Arabia
e pregheranno per lui continuamente,
l’intero giorno diranno bene di lui.
Nascerà il grano nella terra sulle cime dei monti
il suo frutto si eleverà sul Libano
e fiorirà nel paese come erba dei prati.
Sia il suo nome benedetto nei secoli
e davanti al sole resisterà
e siano benedette tutte le tribù della terra,
tutte le stirpi lo rendano felice
bene sia detto il dio potente, il dio di Israele
il solo che fa meraviglie
e bene sia detta la sua gloria per sempre
e nei secoli dei secoli
e tutta la terra sia riempita della sua gloria.
Così sia, così sia.
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Il grande passaggio
Non sapevo nemmeno se fosse il Salmo 71 o il 72. «Forse ho sbagliato» mi confessavo, «Ho scritto al Festival che avrei tradotto il 72, ma ora ho il dubbio che si tratti invece del 71…». Poi ho scoperto che la numerazione non è univoca: ce n’è una ebraica e una greco-latina. Il Salmo che ho scelto è il 72 secondo la numerazione ebraica, e il 71 secondo quella greca, riferita alla Bibbia dei LXX. Non conosco l’universo dell’esegesi biblica, ma il greco sì, perché è la lingua della mia adolescenza, del ginnasio e del liceo. Lingua del grande passaggio, cioè della traduzione dalla mia vita da bambina a quella da adulta, segnata da una traduzioneancora più profonda: dalla vita con mio padre a quella senza di lui — morto suicida un giorno di ottobre durante la mia seconda liceo. So come ho fatto a sopravvivere: mi sono accorta che dovevo concentrarmi. E l’esercizio della traduzione, per esempio, era efficace e benefico. Un continuo movimento dal latino o dal greco all’italiano e viceversa, e anche dal latino al greco e viceversa. L’esercizio della traduzione mi ha traghettata, mi ha tradotta in una nuova fase della vita. E io mi sono affidata a questo, mi sono persa nelle lingue, ho camminato tra radici e radure, afferrandomi a legami sintattici, cedendo all’incanto dei significanti, accendendo correspondences e significati. Tradurre ha assorbito il mio dolore come una spugna un liquido. Sono stati il greco, o il latino, ad avermi tradotta. Blandivano la mia sofferenza in una perfetta misdirectionillusionistica capace di riorientarmi con la magia bianca — come direbbe l’amico Davide Brullo — dell’etimologia, dove tutto vive in un intrico di sentieri, immaginari o veri. Presa in ostaggio nel bosco arbustivo dove rovi innumerabili impigliano gambe, ogni abito, finanche i capelli, non mi resta che trovare la strada come chi è abbandonato, con pazienza e intuizione e coraggio. Tra i cespugli indistinti, tutto al primo sguardo è cupo e confuso. Provo una direzione, che ritorna su se stessa; ne tento un’altra che finisce nel fitto impenetrabile. Poi, grazie al miracolo di un dettaglio, le forme iniziano ad apparire: sono le briciole che conducono fuori.
Un esempio: quando ho incontrato il Salmo 72, ne sono stata intimorita. Mi sono trovata sola davanti alle parole di Salomone, trasportata da una potenza immensa in un luogo ancestrale, sollevata in volo, come fossi un granello di polvere leggerissimo. Non conoscevo il Salmo, credo di non averne mai letto alcuno. Prima di sceglierlo, ne ho passati in rassegna diversi, in lingua italiana, e ho preferito il 72. Il motivo della scelta è ovviamente misterioso. Probabilmente sono stata presa dalle montagne, dalle colline, dal deserto, dal grano e dall’erba dei prati. E poi dalla giustezza, cioè la misura di dio, che se accolta, fa accadere lo smisurato. Dal potere orfico della pace che fa muovere la natura, dalla giustizia e dalla natura, che sono della stessa fatta. Dal fatto che la giustizia è abbondanza di pace, e la pace avrà la natura dell’abbondanza. Sì, tutto questo è luminoso e come la luce, scorre. Ma prima, ho dovuto entrare in un luogo più oscuro, e quella misura di cui sopra, mi ha guidata nel discernimento (τὸ κρίνειν) dello ptochós (πτωχός) dal pénes (πένης). Eccolo qui il bosco fitto della traduzione. I due termini si confondevano l’uno nell’altro nelle versioni che avevo esaminato. Ma se in tutto il Salmo comparivano due termini differenti, anche io dovevo ben trovare la strada per questo discernimento. Boscaglia massimamente spinosa: serviva rivolgersi al Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots di Pierre Chantraine, strumento esoterico. Qui inizia ad aprirsi la radura parlante. Qui lo ptochós è il mendicante, l’indigente, l’accattone, il pitocco che vive nello ptóa (πτόα) ovvero nello spavento o nel terrore, perché ptésso (πτήσσω) è spaventare, far sbigottire, essere terrorizzato e terrorizzare, ma anche acquattarsi, rannicchiarsi, appiattirsi per il terrore, detto di persone e di animali. In questo fitto cespuglio di rovi troviamo anche una lepre — davvero! — che si nasconde. «Lo ptochós è colui che non può che fuggire e chiedere aiuto», leggo nel Chantraine — e in effetti ptóx (πτώξ), variante di ptochós, è epiteto della lepre, e poi è detto di piante che si schiacciano al suolo. Tuttavia nel greco tardo, infine, assume solo il significato di povero. A me sarebbe piaciuto tradurlo con pitocco, perché questo fa eco al suono del greco ptochós, ma pitocco è parola forte, che avrebbe attratto tutto il Salmo, se fosse stata ripetuta con l’insistenza con la quale lo è nel testo originale. Ho scelto invece di frantumarlo in una costellazione formata da pitocchi, mendicanti, miserabili, che inevitabilmente hanno indebolito il suono esplosivo occlusivo pt in favore di quello nasale bilabiale m, e di quello più fluido delle parole intere. Quanto al termine pénes, indicante il povero che deve lavorare per vivere, e fare fatica quotidiana, è stato decisamente meno complicato: povero non si impone acusticamente come pitocco e nella sua neutralità significante, ho potuto ripeterlo lungo tutto il corso del Salmo. Sempre seguendo il Chantraine, nella radura di pénes ci sono diverse radici ad armare il terreno: c’è il grado forte pon presente in ponos (πόνος), che rimanda al mondo della fatica, della lotta, della sofferenza fisica, affrontate nel lavoro quotidiano. Bene anche il fatto che povero mantenga la labiale p e la vocale o. E si sente anche solo lontanamente una minima risonanza tra pénes e povero, soprattutto quando la parola greca è declinata al genitivo, divendo trisillabica. Infine vorrei dire di quella piccola congiunzione e, in greco kái (καί), che in tutto il Salmo viene ripetuta venticinque volte, e in essa mi è sembrato di intravedere il filo di una collana lasciato visibile da perle che si separano perché non sono fissate da nodi.
Con Walter Benjamin credo che la traduzione sia profondamente una connessione di vita, Zusammenhang des Lebens, un esercizio di sopravvivenza dell’opera e di chi ne opera il passaggio.
Traduzione e commento di Roberta Castoldi

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Salmo 139
Dal tuo orizzonte lontanissimo mi scavi
e stasi o movimento che io sia, mi misuri
e incombi e pervadi e ogni strada
che nomino si svolge in te, sempre più in te.
Se sillaba aperta appena schiocca in questa bocca, tu sai – tu sei –
il discorso compiuto,
mano che pesa
presenza che urta – esame del volto – tu per sempre,
fatalmente, di fronte.
E non so quale sapere tu sia, che accadi
dentro i miei inferi, e nei paradisi. E se mai
una mano esista che mi afferri anche là, nei confini
che tocco con le ali dell’alba, è la tua, ancora.
E parlare desiderando che la notte mi ammanti
e si chiuda su di me ogni luce – ogni vita –
pur sapendo che in tutte le oscurità
per te splendono nascite
e collassi siderali e luci e giorni primordiali.
Lo sa bene, questa anima: accucciato nel ventre
della donna, tessendo le fibre le reni le ossa
nel segreto delle midolla della terra,
ero un grumo
e mi hai guardato, marchiando i giorni che saranno i miei.
Molteplice intero – la tua incalcolabilità.
Sommerso in pensieri cari, non sondabili, che sono
e si moltiplicano come sabbia se li raccolgo,
Io, giunto alla fine, uscito
dal Grande Sogno,
ancora in te mi ritrovo.
Un giorno, un lungo dolore colpirà chi sparge
il sangue innocente, e chi sparla di te
come tu fossi il dio
di un qualsiasi nulla, vanamente.
Odio chi ti odia, è vero, e non dovrei?
E lo odio con odio perfetto, fissandolo
come si fissa il nemico nella lotta.
Ma tu scrutami, Signore, e sfasciami il cuore,
esponimi alla tua prova e leggi i miei sentieri:
se è in me la via della vanità o quella luminosa
dell’eternità.
Ancora scavami. Conducimi.
Traduzione di Gabriel Del Sarto
*In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
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